Kosovo, pedina insanguinata delle potenze

Con la dichiarazione d’indipendenza si è consumato il più recente, ma certamente non l’ultimo, capitolo della travagliata storia di questa regione.

Per limitarci al secolo scorso, serve fissare alcuni fatti storici, che evidenziano come la popolazione kosovara sia stata vittima delle spartizioni imperialiste.

1) il Kosovo, regione a maggioranza albanese, diventa serbo nel 1912 in seguito a una decisione comune dell’imperialismo francese e di quello russo che puntano sulla Serbia come fattore di ulteriore disgregazione dell’impero ottomano, ma anche come baluardo contro l’espansionismo austrotedesco a sud, e comunque come pedina da usare nell’area balcanica. I vincitori della Prima Guerra Mondiale confermano tale spartizione, creando attorno alla Serbia il Regno di Jugoslavia, che ingloba anche Slovenia e Croazia, sottratte all’Austria-Germania. Effetto di questa spartizione è una prima pulizia etnica con l’uccisione di 20 mila resistenti kosovari-albanesi.

2) Nel corso della seconda guerra mondiale (come nella prima) molti kosovari parteggiarono apertamente per gli austrotedeschi contro i serbi. Sotto l’occupazione tedesca (al nord) e italiana (al sud) si ripeterono con ancora maggiore crudeltà gli episodi di pulizia etnica, questa volta a danno dei serbi.

Gli imperialismi fomentano gli odi etnici per utilizzarli a proprio vantaggio.

3) Nella geografia del dopo Yalta il Kosovo, conquistato dalle truppe partigiane jugoslave di Tito alla fine del ’44, resta serbo, ma Tito gli concede una certa autonomia e finanziamenti federali, senza che questo risolva i profondi squilibri economici e sociali fra le regioni iugoslave (il Kosovo ha un reddito procapite pari a 1/5 di quello della Federazione). Subito dopo la morte di Tito nel 1981 scoppia in Kosovo una rivolta per ottenere lo status di repubblica.

4) La crisi del modello federale iugoslavo fa riemergere la linea “grande serba”, revocando gran parte delle autonomie della regione, togliendo alla lingua albanese lo status paritario. A partire dal 1989, di fronte alle rivolte popolari, Milosevic scatena la repressione armata. Il Kosovo viene “serbizzato”,con la chiusura delle scuole autonome di lingua albanese (licenziati 8 mila insegnanti ed espulsi 63 mila studenti) e l’espulsione degli albanesi dalla pubblica amministrazione, dalle fabbriche e dalle miniere; 150 mila persone perdono il lavoro. La repressione in Kosovo è all’inizio anche una risposta alle proteste delle regioni più ricche, Slovenia e Croazia, che non vogliono più ripianare il deficit dello Stato col proprio surplus commerciale.

5) L’unificazione tedesca (1990) agisce come calamita per le borghesie slovene e croate, che aspirano a entrare nell’area del marco, sganciandosi dalla tutela militar-statale della Serbia e abbandonando al loro destino le regioni povere del sud. Germania e Stati Uniti promuovono direttamente la secessione, contribuendo anche alla preparazione militare delle repubbliche secessioniste. Dopo il riconoscimento di Slovenia e Croazia da parte di Germania e Italia, la Jugoslavia deflagra in maniera sanguinosa. L’intrinseca debolezza della costruzione statale iugoslava non regge all’intervento disgregatore degli imperialismi.

L’operazione imperialistica di “balcanizzazione” ha costi spaventosi. In Croazia (1991): 10 000 morti e 750 000 rifugiati; in Bosnia (1991-95) 200 mila morti e 2,7 milioni di rifugiati. La Serbia, nonostante l’esplicito appoggio russo e quello francese, più indiretto, non riesce a impedire la disgregazione. Venuto meno l’ordine di Yalta e per piantonare il processo di riunificazione europea, gli USA intervengono, direttamente o tramite la Nato anche nei Balcani, creandovi, per la prima volta nella storia, basi militari. Anche gli imperialismi europei intervengono militarmente. Per la prima volta dopo la fine della II Guerra Mondiale la Wehrmacht è intervenuta fuori dei confini nazionali, sia pure sotto l’egida della Nato. Formalmente gli imperialismi USA ed europei sono alleati nell’intervento politico-militare nei Balcani. Nella realtà gli Stati Uniti mirano a bilanciare la presenza tedesca e ad attestarsi militarmente in maniera irreversibile nella regione. Nel 1994 in Bosnia gli USA armano i musulmani, i tedeschi i cattolici, gli italiani cercano di tenere i piedi in tre staffe. Le divisioni etniche diventano una leva da utilizzare cinicamente in questa competizione imperialista.

6) In questo contesto internazionale il processo di balcanizzazione tocca alla fine anche il Kosovo dove le spinte autonomiste e indipendentiste negli anni ’90 erano state incanalate nel partito moderato di Rugova. Questa opzione perde credibilità alla fine degli anni ’90, quando la Germania arma le prime formazioni guerrigliere che poi confluiranno nell’UCK (che poi si divide in una corrente filotedesca e un’altra filoamericana). Ancora una volta davanti al potere di attrazione economico della Germania, gli Usa optano per la carta militare, facendo fallire le trattative di Rambouillet. La Germania e l’Italia giocano inizialmente la carta diplomatica, perché sono economicamente coinvolti sui due tavoli, quello serbo e quello albanese, ma poi l’Italia concede le basi militari Nato e fornisce aerei per il massacro e la Germania manda la Luftwaffe a bombardare: se vogliono partecipare al bottino, devono “giocare” sul terreno dettato dagli USA.

L’aggressione alla Serbia del 1999 segue il copione ormai classico della campagna umanitaria (motivata con notizie di massacri in gran parte false) e della copertura “morale” ONU che sempre copre una spartizione imperialista. La Serbia è bombardata per 78 giorni e sconfitta, con pesanti distruzioni delle infrastrutture. Il Kosovo è occupato dalle truppe di 34 paesi e diventa un protettorato Sfor-Onu o, come dice qualcuno, un “narcostato” spartito tra USA e le potenze europee.

Indipendenza sotto occupazione

L’occupazione militare dura da ormai 9 anni, ed è preludio a una nuova spartizione. 

Il processo di disgregazione riparte nel giugno 2006 col distacco del Montenegro dalla Serbia. Il 18 febbraio 2008 il parlamento del Kosovo, incoraggiato soprattutto dagli USA, dichiara l’indipendenza, subito riconosciuta dalle maggiori potenze europee tranne Spagna, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Grecia e Cipro, che temono il precedente per le minoranze etniche al loro interno.

È una “indipendenza” ben strana, sotto protettorato ONU e sotto l’occupazione militare di truppe di 34 Stati… È una “indipendenza” dipendente che non nasce dalla forza della borghesia kosovara, ma dall’intervento delle potenze imperialiste (che ne hanno fatto un bordello e vi proteggono traffici di droga e di armi). È una “indipendenza” che apre e non chiude una lotta di spartizione dei Balcani tra le maggiori potenze mediante l’utilizzo delle ambizioni delle borghesie dell’area. La Serbia sta già premendo con manifestazioni di massa per staccare il nord a maggioranza serba. Il Kosovo resta una pedina, ostaggio delle e contesa dalle potenze occupanti.

All’interno della borghesia kosovara, “protetta” dalle potenze occupanti, si delineano ambizioni irredentiste per il futuro nei confronti delle aree a maggioranza albanese di Montenegro, Serbia e Macedonia, e si discute sulla riunione con l’Albania o la creazione di una “seconda Albania” per agganciarsi quanto prima al blocco europeo. Oppure sarà l’annessione pura e semplice all’Europa insieme agli altri staterelli della regione. Ma saranno gli imperialismi occupanti, come già in passato, a disegnare la nuova carta geografica in competizione tra loro.

La soluzione europea per il puzzle balcanico, in cui sono in sospeso tre mine vaganti e cioè la Bosnia, il Kosovo e la Macedonia, è l’assorbimento delle contraddizioni etniche iugoslave nel mercato europeo con la promessa di stabilità economica e prospettive di sviluppo attraenti per le borghesie ex jugoslave: oggi persino la borghesia serba della Republika Srpska (serbi di Bosnia) vuole integrarsi col mercato tedesco e si è aperta agli investimenti europei. Peraltro la Germania è già il primo partner commerciale della Serbia, mentre il secondo è l’Italia e la Serbia dal ’94 ha agganciato la sua moneta al marco e quindi oggi all’euro.

Anche dentro la Serbia sono in lotta correnti collegate ai vari imperialismi. Anche se nel 2001 la Serbia ha consegnato il “criminale” e finanziere Milosevic al tribunale dell’Aia, essa è ancora governata dai suoi seguaci (Kostunica, Djindijć, Nikolić, Tadić), uomini della borghesia serba che si caratterizzano per gradi di maggiore o minore nazionalismo e legame con la Russia, e di minore o maggiore filoeuropeismo. Nel decennio precedente era proseguita la penetrazione economica europea in tutta l’area.

Economicamente i Balcani sono una “naturale” area d’influenza dei capitali europei occidentali, innanzitutto tedeschi e italiani, e la spartizione imperialista antitedesca di Yalta tra USA e URSS ha solo bloccato per mezzo secolo questa tendenza. La disgregazione del blocco russo a capitale di Stato e la riunificazione tedesca hanno fatto saltare quella spartizione e scatenato le forze economiche, politiche e militari di annessione all’Unione Europea.

Gli Stati Uniti sanno che non possono battere economicamente gli europei nel loro “cortile di casa”, ma possono tallonarli militarmente e far leva sulle loro rivalità interne, che il processo di integrazione europea ha attenuato ma non eliminato. Un esempio sono i progetti di costruzione dei “corridoi” di trasporto (ferrovia, autostrada, oleo/gasdotti) attraverso i Balcani. Gli Stati Uniti sponsorizzano il Corrdoio 8 e la Transbalkan Oil Pipeline, che passerebbe dal Kosovo e collegherebbe le regioni petrolifere del Caucaso e Asia Centrale all’Europa tramite l’Italia, tagliando fuori la Russia e l’area tedesca.

 
I compiti dei comunisti

Per noi comunisti in Italia il compito principale è chiaro: denunciare e opporci all’intervento dell’imperialismo di casa nostra, effettuato sia con i capitali che con le armi. La guerra, le distruzioni, i massacri e gli esodi di massa hanno “prodotto” in tutti i Balcani forza lavoro disponibile a lavorare a qualsiasi prezzo per sopravvivere. Le imprese italiane sono tra le prime ad approfittarne per estendere lo sfruttamento al proletariato dell’area.

L’imperialismo italiano ha un ruolo importante nell’area. A fine 2007 aveva il contingente più numeroso in Kosovo, con 2567 militari, davanti a Germania (2374), Francia (2269) e Stati Uniti (1456), che hanno fortemente ridimensionato la presenza iniziale (7 mila uomini) per il fabbisogno di truppe in Irak. L’Italia ha il comando di uno dei 5 settori militari in cui è stato spartito il Kosovo, il settore Ovest, con partecipazione di truppe spagnole, ungheresi, slovene e rumene. Gli altri settori sono a comando: francese (Nord), USA (Est), irlandese (Centro), turco (settore Sud, dove il maggiore esercito è quello tedesco…). L’Italia è tra i primi tre “partner commerciali” di tutti i paesi della regione balcanica, dove migliaia di imprese hanno decentrato la propria produzione per approfittare del bassissimo prezzo della forza lavoro locale. Armi e sfruttamento vanno di pari passo.

Nella opposizione all’imperialismo italiano occorre porre attenzione alla denuncia dei concreti interessi imperialistici che lo muovono, e non solo di una determinata politica, militare o diplomatica. Ciò è necessario in generale, ma lo è ancor più in questo caso, perché la linea balcanica dell’imperialismo italiano non è univoca, è mutata in passato e può di nuovo mutare in futuro. L’imperialismo italiano va denunciato per la sua partecipazione militare alla spartizione dei Balcani a spese della Serbia (del che poco ci importa), e del proletariato dell’area (della qual cosa molto ci importa). Ma andrebbe denunciato con la stessa forza anche qualora si schierasse con la Serbia, cosa che non è impossibile.

Schematizzando possiamo infatti individuare 3 linee balcaniche di settori economici e politici dell’imperialismo italiano:

una linea filo-serba “romana”, un tempo capeggiata dall’IRI e da gruppi delle costruzioni (e dietro le quinte si può supporre la FIAT, dati i suoi stretti rapporti con la Zastava), che ha trovato espressione politica un tempo in Emilio Colombo, e ora soprattutto in AN e PRC (sic!). Lo stesso gruppo Banca Intesa è il terzo maggiore investitore estero in Serbia…
una linea adriatica, espressione di gruppi che hanno investito soprattutto nel nord dell’Albania (oltre 500 imprese italiane, sostenute dal gruppo Banca di Roma e dalla Banca Europea per lo sviluppo), e che appoggia Berisha e assume una posizione di sostegno “umanitario” ai kosovari; è in buoni rapporti con la Turchia, favorevole al Corridoio VIII: una linea che si trova in consonanza con gli USA e vede con fastidio l’ingerenza tedesca;
una linea delle imprese del Nord-Est, forti investitrici in Slovenia e Croazia, appoggiate dalla finanza cattolica dell’area e dal Vaticano, che ha sostenuto la secessione delle due repubbliche ed è decisamente anti-serba e disponibile a una spartizione con la Germania.

La combinazione delle ultime due linee sta determinando la politica estera dell’imperialismo italiano. Queste linee si basano tutte su una pratica di sfruttamento del proletariato balcanico, anche se in una diversa combinazione tra Stati. Tutte queste linee, anche quella filo-serba, vanno denunciate come imperialiste, anche se oggi occorre centrare la nostra opposizione contro la linea prevalente, centrata su Albania e Kosovo oltre che su Slovenia e Croazia.

Il nazionalismo serbo che mira alla riconquista del Kosovo albanese, anche se si rivolge contro le potenze imperialiste che gliel’hanno tolto, non può essere considerato un alleato dei comunisti contro l’imperialismo – a parte il fatto che porta a sua volta acqua al mulino dell’imperialismo russo. Ad opporsi in loco alle truppe di occupazione dovrà essere il proletariato kosovaro, e il fatto che questo per ora non avvenga è il frutto marcio del nazionalismo serbo.

La Serbia presenta una struttura sociale di capitalismo ormai maturo. Su circa 2,6 milioni di occupati in Serbia nel 2006 540mila lavoravano in agricoltura, pari al 20%, una quota simile a quella dell’Italia di fine anni ’60. Il settore industriale in senso lato ne impiegava il 30%, i servizi il 50%. I dipendenti sono oltre 1,9 milioni, pari al 73%, una quota simile a quella italiana attuale. I disoccupati ufficiali superano il 25%, di cui i due terzi risultano disoccupati da oltre due anni. La Serbia è un paese capitalistico sviluppato con un livello di sviluppo sociale e rapporti sociali analoghi a quelli dell’Italia degli anni ’60, anche se la crisi del capitalismo di stato e le guerre degli ultimi 15 anni ne hanno frenato l’accumulazione e stanno facendo pagare un duro prezzo al proletariato in termini di bassi salari e disoccupazione. Il proletariato serbo ha quale avversario fondamentale la borghesia serba, non deve subordinare la propria lotta contro lo Stato serbo al sostegno di questo Stato contro le altre potenze e per il soggiogamento del Kosovo.

Per questi motivi, se i comunisti in Italia avessero un peso reale all’interno del movimento operaio, dovrebbero cercare un collegamento con il movimento operaio dei paesi balcanici, per un fronte comune contro le aggressioni imperialiste e lo sfruttamento capitalistico, e per favorire l’unione dei lavoratori dei Balcani contro le divisioni fomentate dalle borghesie locali e dagli imperialismi.

Tra i presupposti di tale unione è la lotta per l’abolizione di ogni forma di oppressione nazionale, avvenga essa rivendicando la parità di diritti, l’autonomia o l’indipendenza.

Per l’insieme di queste ragioni l’opposizione all’intervento dell’imperialismo italiano e dei suoi alleati, la denuncia dell’ipocrisia della “indipendenza” kosovara non può tradursi in difesa o appoggio della borghesia serba e del suo Stato, che sarebbe da un lato appoggio a una linea alternativa presente nell’imperialismo italiano, dall’altro appoggio alla borghesia serba mentre occorre che il proletariato serbo impari a lottare contro di essa. La strada dell’internazionalismo proletario non ha scorciatoie nazionaliste.

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