Nella
gloriosa Baia di San Francisco, negli anni 60, chi aveva una casa e un’auto
rendeva grazie al cielo, lieto che la Grande Depressione fosse solo un ricordo.
Czeslaw Milosz, futuro Nobel polacco della letteratura ( 1980), annotava e
capiva l’esorcismo, dopo aver trovato laggiù un’ospitalità più generosa che in
Europa, senza mai sottoscrivere il mito dell’assoluta e universale prosperità
del Nuovo mondo.
« Questa amministrazione
oggi, qui e adesso, dichiara guerra senza quartiere alla povertà in America » ,
annunciava l’ 8 gennaio del 1964, portando avanti un progetto abbozzato da John
F. Kennedy, il presidente Lyndon B. Johnson. I poveri erano allora 35
milioni, come da definizione statistica.
E sono oggi, dati ufficiali 2004, un poco oltre i
37 milioni. Con una popolazione passata da 185 a 295 milioni di abitanti, questo
vuol dire un drastico calo dal 18 al 13% circa; ma vuole anche dire la dolorosa persistenza di un
blocco inattaccabile di tre quattro decine di milioni di abitanti, negri,
ispanici e indiani, ma anche molti bianchi, per i quali il sogno americano è
rimasto un’illusione.
Quel
12% più che raddoppia poi e diventa un 27% nell’area della grande New Orleans, nettamente più
arretrata della media dello Stato, dove i poveri sono il 19 per cento.
Il
30% della popolazione urbana è sotto gli standard minimi di reddito. Gli anni ‘
90, a differenza di quanto accaduto in altre sacche, non hanno visto
miglioramenti sensibili se non per una piccola minoranza. Mentre il 26% dei minori della
Luisiana vive in povertà, a New Orleans sono il 38 per cento. Non
risulta inspiegabile quindi il degrado sociale e la violenza di una comunità
che ha, dati 2003 dell’Fbi, 7,5 volte più omicidi della già alta media
nazionale. E di cui si sono sempre, come per Napoli del resto, celebrati la
musica, il meticciato di culture, il mardi gras, e una creola joie de vivre che
i disordini e la disperazione del dopo Katrina hanno fatto vedere sotto una
luce sinistra e ai più sconosciuta.
L’americano povero,
davvero povero, è un personaggio atipico. Neppure statisticamente è
semplice da definire.
È un’ombra a tratti invisibile nella grande epopea della conquista del
benessere, scritta come sempre dai vincitori. Lo stesso Census Bureau ritiene
troppo vaga nella sua Acs ( American community survey) la vecchia definizione
ufficiale basata sul reddito minimo in rapporto al nucleo familiare. Secondo
questa, si è ufficialmente poveri nel 2005 con meno di 9.570 dollari
all’anno per un single, con meno di 19.350 per una famiglia di quattro persone
e con meno di 12.800 per una famiglia di due ( l’Istat indica in Italia per
due persone una soglia minima di spesa di circa 10.500 euro l’anno, che in
parità di potere d’acquisto equivalgono allo stesso ammontare in dollari spesi
negli Usa, e fissa in poco meno del 12% dei residenti il numero dei
statisticamente poveri).
L’Acs ritiene più indicativa per gli Stati Uniti un’altra misura. Questa
divide i poveri in quelli che sono al livello della soglia o sopra, ma non
oltre il 125%, e quelli sotto il 50% della soglia. Si sale così al 13,1%
del totale della popolazione. E nella categoria dei poveri fra i poveri è inchiodato
il 12,6% dei negri, l’ 11,4 degli indiani d’America, l’ 8,6 degli ispanici, l’
8,2 dei some other race ( altro ceppo etnico, non definito), il 3,6 degli
asiatici, il 3,4 dei bianchi non ispanici e il 2,7 degli hawaiani e degli altri
isolani del Pacifico. Data la ben maggiore consistenza del gruppo etnico, sono poverissimi quindi, sotto
il 50% della soglia di povertà, circa 12 milioni di bianchi e 5 milioni di
neri.
Geograficamente il Paese è tagliato da Est a Ovest a metà, con gli Stati
sotto la soglia ufficiale di povertà concentrati nel Sud, dall’Arizona compresa
alla North Carolina, Florida esclusa ( si veda la cartina) e con al Nord
compresi solo New York State, Montana, Idaho e Oregon. L’America dei poveri
vive nei vecchi centri urbani degradati ( poco meno del 20% dei residenti è
sotto la linea di povertà) e in piccoli centri in zone depresse. Nella grande
America dei suburbs e degli exurbia i poveri arrivano invece appena al 6 per
cento.
« Gli Stati Uniti hanno in genere la più alta incidenza di povertà cronica e
permanente, la Germania la più bassa, con il Canada e la Gran Bretagna in
posizione mediana » , sostiene Robert G. Valletta della Federal reserve
bank di San Francisco, che ha studiato recentemente le dinamiche nei quattro
Paesi. Negli Stati Uniti, cioè, chi entra veramente in povertà, sotto la soglia
pari al 50% del livello ufficiale, ha più difficoltà a uscirne che non in
Europa o nel Canada.
Eppure la Guerra alla povertà di Johnson dal ‘ 64 al ‘ 68, con aiuti di
ogni genere e il perfezionamento dello Stato sociale americano concluso poi nel
‘ 71 73, non fu senza risultati. Il tasso ufficiale di povertà passò dal 22%
del 1959, anno delle prime statistiche, a poco più del 10 nel ‘ 74 per salire
al 15 nel ‘ 93, ritornare vicino al 10 nel 2000 e riprendere quota l’anno
scorso fino al 12,7 per cento. Dai 40 milioni del ‘ 49 a un minimo di 23
milioni nel ‘ 74 ai 37 milioni attuali.
Anche gli anni 90 hanno visto un notevole miglioramento per i poveri,
con la disoccupazione scesa a quel 4 5% indispensabile secondo Richard B.
Freeman, economista del lavoro a Harvard, per avere effetti positivi sul tasso
di povertà. E questo
mentre il numero di persone sussidiate crollava, grazie al lavoro e alla
riforma del Welfare firmata da Bill Clinton, dai 14,4 milioni del ‘ 93 ai 6,9
milioni del ‘ 99. Più che dimezzato, dal 5,5% al 2,5 della
popolazione.
Ma la fortunata congiunzione tra un quinquennio di forte crescita e la riforma
del ‘ 96, assai diversa dai piani originali del Presidente e con il deciso segno
del Congresso repubblicano che spostò il peso finanziario dell’assistenza
pubblica da Washington agli Stati, è conclusa. Ed è sempre più evidente che è
stata la crescita della new economy a compiere il miracolo. Dal 2001 il numero
dei poveri è in aumento. E i gloriosi meccanismi americani di mobilità sociale—
raccontava in primavera con una lunga serie di articoli il « Wall Street
Journal » — sembrano appesantiti e lenti.
Gli anziani stanno decisamente meglio di una volta, con il 28% degli
oltre 65enni sotto il livello di povertà nel 1966 e il 10,1% oggi, grazie
soprattutto al Medicare ( in funzione dal ‘ 65) e al miglioramento della
pensione pubblica ( Social security). Stanno meglio i giovanissimi sotto i
18 anni, poveri al 23% nel ‘ 64 e al 16,3 oggi, grazie soprattutto al forte
calo negli anni 90 delle maternità precoci. Ma per la fascia fra i 18 e i 64 anni il livello di
povertà è sceso solo marginalmente dai tempi di Johnson, dal 10,5 al 10,1 per
cento.
« Fino a quando questo non ci farà arrossire, fino a quando non ci spingerà
all’azione — scriveva Michael Harrington nel suo The Other America, il libro
che ispirò Kennedy e Johnson — l’altra America continuerà a esistere, un
mostruoso esempio di inutile sofferenza nella nazione più avanzata del mondo »
. Non poco è stato fatto. Ma ormai, e da oltre 20 anni, il Paese ha deciso a
maggioranza che occorre affidarsi di più al mercato e meno all’ingegneria
sociale di Washington per assicurare anche ai meno fortunati una legittima
porzione di sogno americano. Nella speranza che non siano troppi, fra loro,
quelli immuni al progresso. A New Orleans gli indigenti sono il doppio della
media nazionale e gli omicidi 7,5 volte più numerosi