Mentre un milione di libanesi sfolla dalle proprie case e diverse centinaia muoiono sotto i bombardamenti israeliani (motivati con la solita ipocrita formula che si stanno stanando i terroristi qui di Hezbollah, a Gaza di Hamas) i commentatori italiani concentrano la loro solidarietà umana sui “nostri” soldati italiani, presenti in Libano dal 2006 nell’ambito della missione Unifil. Si teme per le loro vite! L’uomo della strada direbbe che dopotutto sono militari di mestiere, assoldati a 130€ al giorno più vitto e alloggio.
Unifil con partecipazione italiana iniziò nel 1979 (Israele aveva invaso il Libano l’anno prima). L’Italia fornì 4 elicotteri e 50 uomini, con compiti di ricognizione, ricerca e soccorso, trasporto sanitario e collegamento. Un’azione di supporto a Francia e Usa che erano i responsabili della missione.
Il salto “di qualità” dal punto di vista dell’imperialismo italiano avvenne nell’82, quando l’intervento fu “alla pari” con gli Usa e la Francia, nella Forza multinazionale “di pace”. Lo scopo ufficiale era di scortare Arafat e gli uomini dell’Olp fuori dal Libano verso la Tunisia. [1] Lo scopo reale era di inserirsi nel paese, importante non in sé, ma perché era (in parte ancora è) la cassaforte e la porta del Medio Oriente, un po’ come lo è (con dimensioni e ruolo ovviamente diversi) Hong Kong rispetto alla Cina. Lì si firmano i contratti più interessanti con tutti i paesi mediorientali, si spartiscono i pozzi, si contratta sui riciclaggi nelle ospitali banche libanesi. Venne ripescata l’oleografica immagine degli italiani “brava gente”, amati dalle popolazioni cui corrono in soccorso. Nei fatti i 600 militari italiani rimasero consegnati sulle navi dall’11 al 26 settembre, mentre i falangisti libanesi, col silenzio-assenso dell’esercito israeliano, massacravano i palestinesi a Sabra e Chatila. A massacro consumato i militari italiani tornarono in forze e ci rimasero fino all’84. Già allora fu chiaro che di umanitario quelle spedizioni avevano ben poco, non potevano o non volevano impedire alcuna violenza. In cambio la spedizione fu una passerella per il lancio pubblicitario delle navi da guerra italiane.
Nel 2006 Israele, col pieno favore degli Usa, invase ancora una volta il sud del Libano, in risposta ad azioni di guerriglia alla frontiera[2] di Hezbollah, ma anche preoccupato per l’aumentata influenza iraniana in Medio Oriente (risultato non voluto della guerra americana in Iraq). Israele si confrontò con Hezbollah e non riuscì ad averne ragione, ma provocò anche allora più di 800 mila sfollati, diverse migliaia di morti fra i civili libanesi e una distruzione sistematica di case e infrastrutture. Dopo 34 giorni di guerra, Israele accettò un cessate il fuoco di compromesso, proposto dall’Onu, cioè un ritiro parziale[3] e il coinvolgimento di forze di interposizione internazionali.
In questo contesto fu varata UNIFIL2, a cui l’Italia ovviamente partecipò in forze, forte di un significativo radicamento economico e diplomatico nel paese. Il governo Prodi vara la seconda spedizione italiana in Libano, sempre sotto “l’egida dell’Onu”, nell’agosto 2006. All’epoca Prodi presenta Hezbollah come “l’alfiere dell’indipendenza nazionale libanese”, il difensore dei palestinesi contro il Moloch israeliano. Il comando della missione andò alla Francia di Chirac, ma nel marzo 2007 passò all’Italia [4].
Fu l’inizio di un condominio franco-italiano; sotto traccia una rivalità senza esclusione di colpi, perché entrambi i paesi vogliono fare da locomotiva. L’Italia si caricò dei rischi e dei costi del 40% della spedizione, ma l’investimento fu comunque redditizio visto che oggi è il secondo partner economico del Libano, dopo gli Usa, grazie a un “lavoro di squadra fra militari, addetti commerciali, ambasciata”.
L’intervento diventò ancora più prezioso per l’imperialismo italiano nel dicembre 2017, con la scoperta del petrolio davanti alle coste di Gaza e del Libano meridionale. Il premier Hariri concesse a all’italiana Eni, alla francese Total e alla russa Novatek i diritti di esplorazione per due dei cinque blocchi offshore di sicura competenza libanese dei giacimenti posti a metà fra Libano e Israele (chiamati Tamar e Leviathan) [5].
Con Unifil 2 l’Italia aveva l’incarico di controllare che l’esercito libanese bloccasse i carichi di armi diretti verso le postazioni e gli arsenali dei miliziani sciiti a sud del Litani: “Una funzione a metà tra quella delle belle statuine e dei bersagli mobili” ha scritto il Giornale del 2 ottobre.
Oggi la borghesia italiana si divide sul da farsi: chi dice di ritirare i soldati, tanto lì non hanno niente da fare, chi dice invece che occorre cambiare le regole di ingaggio e trasformare il contingente (1200 uomini) in un vero strumento di intervento[6]. Dopotutto, dice qualcuno, “ci abbiamo speso un sacco di soldi!”. Solo l’anno scorso 160 milioni di €. Non esistono cifre ufficiali per i 18 anni complessivi, si stima 3,5 4 miliardi; comunque una delle più costose.
Naturalmente il “noi” precedente è virtuale. I lavoratori italiani pagano con le loro tasse (direttamente e tramite la specifica accisa sulla benzina per Unifil) la spedizione. La borghesia italiana calcola come sfruttare l’investimento sia in vista delle nuove estrazioni petrolifere sia in generale in termini di penetrazione economico militare. Con la benedizione del governo americano si intende, sia questo di Biden sia il prossimo di Harris o Trump. Quando si tratta di Israele infatti non ci sono grosse diversità[7].
Per Israele non è in gioco solo il controllo di coste e retroterra ricchi di petrolio, ma in primo luogo il progetto della “Grande Israele” che vuol dire conquista territoriale al fine di espiantare fino all’ultimo palestinese, fino all’ultima “opposizione”, e questo trova la solida alleanza del sostenitore numero uno, gli Usa.
Scrivevamo nel n.14 di PM (agosto-ottobre 2006): “Non saranno le forze Unifil, espresse da due imperialismi europei, a impedire la ripresa delle ostilità…. Perdenti saranno il proletariato libanese, quello palestinese e anche quello israeliano…”
Oggi a Gaza e in Libano sono sotto gli occhi di tutti le distruzioni e i morti (mai così tanti anche bambini) e come le chiacchere diplomatiche coprano la complicità di chi dicendo di volere la pace, prepara la guerra.
E’ nostro dovere denunciare innanzitutto le responsabilità del “nostro imperialismo” sottovalutato e tenuto in ombra da sovranisti e da campisti di varia taratura (anche nel campo della cosiddetta sinistra parlamentale). In quanto difensori dello “interessi nazionali” (con o senza accenti patriottardi), costoro contribuiscono a far dimenticare che, qualsiasi decisione l’Italia prenda a proposito di Unifil, non sarà certo a vantaggio delle vittime, ma dei profitti recenti e futuri delle classi dominanti. Ai lavoratori al massimo toccherà il ruolo di carne da cannone.
Per questo siamo scesi in piazza per la Palestina e per il Libano, ma anche contro il DDL 1660, con cui si tenta una stretta repressiva anche rispetto alla semplice denuncia, per agevolare spinte guerrafondaie.
[1]L’Italia fornì 2 incrociatori, due caccia d’altura 4 fregate e varie navi di sostegno. Una media di 600 soldati presenti che ruotavano.
[2] Hezbollah aveva ucciso alcuni soldati israeliani di pattuglia alla frontiera e ne aveva rapiti 2, poi deceduti.
[3] Israele mantenne l’occupazione di alcune aree nel sud del Libano fino al 2000.
[4] Per le notizie di fonte governativa della spedizione del 2006 Cfr https://documenti.camera.it/leg18/dossier/Testi/DI0124.htm
[5] Si stima che il primo possegga riserve pari a 238 miliardi di metri cubi di gas mentre il secondo ne contenga circa 535 miliardi. Ovviamente infuriano le contese per definire gli esatti confini territoriali fra Libano e Israele e la ricerca di appoggi internazionali per sostenere l’una o l’altra capitale. Israele ha intensificato la pressione su Gaza anche per ribadire il suo controllo sul mare antistante e sul “tesoro” di idrocarburi che contiene. Contemporaneamente si è aperta la disputa con il Libano per definire la spartizione. Ma se riuscisse a svuotare Gaza e rioccupare il sud del Libano azzerando Hezbollah non ci sarebbe nessun bisogno di spartizione.
[6] Per uno sguardo complessivo sulle spedizioni italiane (numero di uomini, peso della spedizione nell’ambito del totale degli interventi italiani cfr. https://documenti.camera.it/leg18/dossier/Testi/DI0286.htm
[7] Il 28 settembre, il presidente della Camera Usa, il repubblicano Mike Johnson ha esortato l’amministrazione Biden “a porre fine alle sue controproducenti richieste di cessate il fuoco”, mentre secondo il genero di Donald Trump – e suo responsabile per la politica in Medio Oriente – Jared Kushner “La mossa giusta per l’America ora sarebbe dire a Israele di finire il lavoro”.