Riccardo Staglianò
Bush: "Decisione in base alle condizioni sul
terreno"
Disimpegno solo con un governo libero, alleato degli Usa
contro il terrorismo
Democratici al contrattacco: i repubblicani prima ci
accusano poi ci copiano
La violenza non si ferma:
solo negli ultimi quattro giorni 262 morti e 480 feriti
Il piano per il ritiro esiste ma è «solo una delle
opzioni possibili». La Casa Bianca conferma la rivelazione del New York Times:
via dall´Iraq a partire da settembre, il grosso delle truppe a casa entro il
2007. Per subito ridimensionarne la portata. «La decisione sarà presa dal
generale Casey (l´autore del rapporto anticipato dal quotidiano) assieme al
governo sovrano iracheno basandosi sulle condizioni sul terreno» ha detto
George Bush. Dipende da come sarà la situazione da qui ai prossimi mesi. Se
la mattanza che ha fatto solo negli ultimi quattro giorni 262 morti e 480
feriti finirà. «Ogni raccomandazione del capo delle nostre forze armate in Iraq
punta solo a raggiungere la vittoria», ha aggiunto il presidente. Che
nell´accezione di Washington prevede un governo libero capace di reggersi e
difendersi da solo, alleato degli Usa nella lotta al terrorismo e contro Al
Qaeda in particolare.
Raggiunti questi obiettivi il disimpegno potrà iniziare. E niente vieta che sia
proprio nelle forme illustrate venerdì scorso da Casey al presidente, ovvero
con la riduzione entro il prossimo anno e mezzo dalle 14 brigate attuali a 5
o 6. Ognuna conta circa 3500 soldati e il totale passerebbe dagli attuali 130
mila effettivi a poco più di 80 mila (la differenza numerica è spiegata
dalla presenza di militari non inquadrati in brigate). Potrebbe andare così ma
anche diversamente. «Se qualcuno pensa che sia un piano inciso nella roccia,
non lo è», ha ribadito il portavoce Tony Snow, «non possiamo, al momento
attuale, predirlo». Da una parte l´Amministrazione si preoccupa del fronte
interno, con la popolarità in picchiata di Bush da risollevare prima delle
elezioni di midterm a novembre. Dall´altra il presidente non vuole rinunciare
alla sua qualifica sin qui politicamente più redditizia, quella di commander in
chief. «Quando gli Stati Uniti danno la loro parola – ha dichiarato – la
mantengono. Non ce ne andremo in fretta e furia».
Niente "cut and run", quindi, accusa che i repubblicani hanno
rivolto in queste settimane proprio contro i piani di ritiro presentati dai
democratici. Che adesso vanno al contrattacco. «Gli unici americani che
ritengono che non ci debba essere un calendario per il disimpegno – ha tuonato
sulla Cbs la parlamentare Barbara Boxer – sono i repubblicani nel Congresso».
Ed è stato proprio il senato a maggioranza conservatrice a impallinare la
settimana scorsa una risoluzione presentata da John Kerry e Russel Feingold,
uno dei liberal più attivi che aveva già chiesto l´impeachment di Bush, che
prevedeva la scadenza del primo luglio 2007 per il "tutti a casa".
«Hanno invaso l´etere attaccandoci in tutti i modi – ha dichiarato l´ex
candidato presidenziale del Massachusetts – e adesso i loro piani assomigliano
terribilmente ai nostri. La campagna di veleno e disinformazione si scatenerà
anche contro il generale Casey?».
Tuttavia fissare una data resta un´operazione delicata anche per il resto del
paese. Stando all´ultimo sondaggio Washington Post-Abc infatti, pur ipercritici
nei confronti della gestione Bush della guerra, il 51% degli americani non
vuole fissare un termine per il ritiro (sette mesi fa era il 60%). Anche tra
chi è favorevole, solo metà lo vorrebbe rapido, entro i prossimi 6 mesi. Ed è
su questo senso di responsabilità popolare che il presidente gioca la sua
scommessa.