Il vertice «Cina-Africa» in Egitto + altri

Le Figaro       091107
Il vertice «Cina-Africa» in Egitto

Dal nostro corrispondente da Pechino, Arnaud de la Grange

Scambi commerciali Cina-Africa in miliardi di $; oltre 900 le imprese cinesi in Africa; 750 000-1 000 000 di cinesi in Africa;

Principali settori di investimento della Cina (nell’ordine raffigurato): Idrocarburi; Minerali; Infrastrutture; Legname; Agricoltura.

 

–   Dopo il vertice Cina-Africa di di Pechino nel 2006, cui avevano partecipato una trentina di capi di Stato africani, l’incontro attuale in Egitto cui partecipa il primo ministro cinese, sancisce l’alleanza Cina-Africa; definirà le tappe per la cooperazione fino al 2012.

o   Quarta visita del presidente cinese Hu Jintao in africa lo scorso febbraio.

●    In meno di un decennio nelle relazioni tra Cina ed Africa registrati forti progressi, dal terreno politico a quello economico:

o   interscambio commerciale x10, a $107MD nel 2008, +45% in un anno,

o   esso è per la prima volta superiore a quello con gli USA.

o   Investimenti diretti cinesi + $490mn. dal 2003, a $7,8MD nel 2008.

●    Le importazioni cinesi dall’Africa sono pari a $56MD, di cui $39MD di petrolio.

o   La Cina sta costruendo infrastrutture ovunque in Africa si siano disimpegnati gli occidentali; la BM ha riconosciuto nel luglio 2008 che i forti investimenti cinesi contribuiscono a ridurre la povertà nei paesi abbandonati.

–   La Cina è accusata di non dare peso alle violazioni dei diritti umani; ha annunciato $7MD di investimenti in Guinea a pochi giorni dal massacro di 150 manifestanti dell’opposizione.

–   In Africa la Cina non si presenta come grande potenza, ma come il maggior paese PVS in un continente che ha il maggior numero di PVS.

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Le Monde       090907

A Canton, i buoni affari degli immigrati della «piccola Africa»

dall’inviato speciale a Canton, Arnaud de La Grange

●    Le stime sul numero degli africani in Cina sono 20-100 000.

–   Nel Sud Cina, a Canton la maggiore comunità africana; i nigeriani sono il gruppo più numeroso in Cina, 3-4000 attorno a Canton, oltre 7000 in tutta la Cina, sarebbero molto di più secondo altre stime; il quartiere di Canton dove sono concentrati è stato chiamato “piccola Africa”;

o   essi hanno una loro associazione, che ha tessuto una rete di relazioni  nell’amministrazione e nella polizia cinesi, utile anche per gli altri africani in Cina.

o   Alcune settimane fa centinaia di africani hanno attaccato un commissariato di polizia dopo il ferimento di due nigeriani in fuga da un raid della polizia. Le autorità cinesi cercano però di non reprimere troppo la comunità africana, le regole per i visa sono state rese meno rigide.

–   A Canton la maggiore società di trasporto per il Senegal, Teranga Trading Co.;

–   viceversa in Senegal, a Dakar, i piccoli commercianti cinesi fanno concorrenza a quelli locali, alcuni paesi africani cercano di regolamentare la concorrenza autorizzandoli i cinesi solo come grossisti e impedendo loro di aprire negozi al dettaglio.

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Le Monde       091020

Bertrand Badie : "L’Africa, campo di manovra di Cina, India e Brasile"

–   Bernard Badie, professore di Scienze politiche, analizza la diplomazia delle potenze emergenti Cina, India, Brasile Sud Africa, Russia; la loro forza in Africa, le loro debolezze, le ambizioni internazionali.

–   La rivoluzione industriale dei PVS è più accelerata di quanto lo fu per le vecchie potenze, l’interdipendenza è molto maggiore, una sfida fuori da ogni controllo, e fonte di tutte le incertezze per il futuro.

●    Con velocità spaventosa l’Africa è divenuta un campo di manovra delle potenze emergenti:

o   Sud Africa, in primo luogo; poi Cina; Brasile molto presente nei paesi più piccoli; India da tempo presente sulla costa orientale, e che penetra sempre più all’interno.

o   i PVS stanno sostituendo le vecchie potenze coloniali con una neo-colonizzazione a colpi di aiuti e offerte di cooperazione: Francia, in misura minore la GB, Belgio e Portogallo continuano a incassare sconfitte nel loro cortile di casa;

●    Si può ipotizzare che l’Africa sarà la grande vittima di tutto il rimescolamento internazionale di carte, per questo le organizzazioni internazionali devono dare spazio ai paesi più deboli e poveri (per controbilanciare l’influenza dei PVS N.d.T.)

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●    Difficile per gli specialisti definire un’unica lista dei paesi emergenti; tutti concordano su Brasile, Cina, Hongkong, India, Messico, Russia, Singapore, Sud Corea, Taiwan, Turchia, Vietnam (in fieri).

o   Non si concorda su Egitto, Marocco, Perù, etc.

o   Nella definizione di potenze emergenti occorre prescindere dal pregiudizio che il modello occidentale di sviluppo sia l’unico, e dal pregiudizio di tipo geografico, che non vede i divari all’interno di alcuni grandi paesi (vedi aree rurali nell’interno della Cina rispetto a quelle in emersione sulla costa);

o   altro pregiudizio la visione evoluzionista: ad es. sviluppo progressivo in Brasile o Turchia, più violento come in Cina con le riforme di Deng Xiao Ping, o l’India dopo le grandi riforme del 1991.

–   Alcuni criteri su cui concordano istituzioni int.li e accademie:

o   crescita forte e rapida del PIL;

o   ingresso voluto e riuscito nell’economia internazionale, in particolare nella finanza;

o   capacità di creare istituzioni di regolamentazione e coordinamento, in particolare banche centrali.

–   Da definire se si considera una emersione riferita a trasformazioni meramente economiche, o anche sociali e politiche.

–   Storicamente si è iniziato a usare il termine di potenze emergenti per i quattro “dragoni asiatici” (Singapore, Hongkong, Taiwan, Sud Corea), la cui ascesa marcava una frattura nell’opposizione tra Nord sviluppato e Sud sotto-sviluppato;

o   si è poi passati ai “giaguari latino-americani (Messico e Brasile), processi lunghi,

o   rispetto alla rapidità e violenza dei cambiamenti, come per la Cina e presto il Vietnam, o su un piano diverso il Sudafrica.

–   L’India vede accrescere le ineguaglianze, con tensioni sociali a volte esplosive, acuite da divisioni religiose, con 150 mn. di musulmani che faticano ad integrarsi.

–   Le ineguaglianze in Cina rimangono forti e più difficilmente tollerabili in un contesto di sviluppo ed aumento dei consumi. Il carattere non lineare dello sviluppo economico emerge in Cina, come in altri paesi emergenti, dove esso non procede di pari passo con la democratizzazione, come in precedenza ritenuto.

–   Una potenza emergente tende ad affermarsi a livello regionale, ma le ineguaglianze regionali che ne scaturiscono causano forti tensioni: potrà imporsi in Brasile in Sud America, il Sudafrica nell’Africa australe, l’India nel Sud Asia senza scatenare gravi tensioni?

–   Il Sudafrica ad es. sta suscitando una crescente sfiducia in altri paesi africani che lo accusano di allinearsi con le potenze “bianche” del Nord; il Brasile ha tensioni con i “piccoli giaguari latino-americani”; Cina ed India suscitano timori in Asia orientale e meridionale, come in precedenza il Giappone.

–   Sul piano internazionale, i PVS reclamano un posto nelle organizzazioni mondiali, G8/G20, C.d.S. ONU, FMI, etc.

–   Tendenza dei PVS a prendere le distanze dai paesi minori e più deboli, con conseguenti reazioni negative da parte di quest’ultimi. Da qui l’atteggiamento “sudista” delle diplomazie dei PVS per diminuire le tensioni e mantenere la direzione di un blocco unito dei paesi del Sud.

–   Così il Brasile ha una diplomazia attiva verso Africa e paesi arabi; l’India rafforza la sua rete diplomatica; la Cina in Africa, il Sud Africa cerca di presentarsi all’Onu come campione di un neo-afro-asiatismo.

–   Non potendo imporsi politicamente in altra maniera i PVS tendono a creare un fronte unito nell’area contro le grandi potenze, come emerge nel WTO con la creazione di coalizioni sudiste guidate dai PVS.

–   I PVS hanno però spesso bisogno dei più sviluppati per completare la propria transizione: vedi India che si è avvicinata agli Usa, siglando un progetto di cooperazione; la Cina può mostrarsi sprezzante verso gli USA, ma non ha alcun interesse a perdere il mercato americano o a fare affondare le economie occidentali.

–   Le diaspore indiana e cinese sono veri e propri cordoni ombelicali che collegano i paesi di provenienza alla tecnologia occidentale.

–   Il G20 lusinga i nuovi ricchi senza risolvere alcunché ma creando grossi problemi, il vertice di Londra o quello di Pittsburgh hanno solo formalizzato una retorica.

–   L’esibizione di un’oligarchia che rappresenta l’85% del PIL mondiale non serve a nulla: contro i 20 che la rappresentano i rimanenti 172 paesi rappresentano il 90% della conflittualità mondiale, la loro esclusione esibita non serve a risolvere i problemi.

–   I PVS hanno ambizione, capacità e risorse per imporre una ristrutturazione del sistema internazionale, dal punto di vista economico è ormai cosa fatta grazie alla mondializzazione;

meno definita dal punto di vista sociale e politico: a causa di resistenze indipendentiste, spesso promosse dai PVS, ma anche fattori politico-sociali interni, come accade in Cina, accusata di violazioni dei diritti dell’uomo (emblematiche le recenti Olimpiadi).

Le Figaro        091107

La «Chine-Afrique» a rendez-vous en Égypte

De notre correspondant à Pékin, Arnaud de la Grange

06/11/2009 | Mise à jour : 22:27 | Commentaires 26 | Ajouter à ma sélection

Le sommet de Charm el-Cheikh doit sceller l’alliance avec Pékin.

–   C’est la Chine qui va à la rencontre de l’Afrique, pour ce premier sommet sino-africain depuis Pékin en 2006, où s’étaient pressés une bonne trentaine de chefs d’État africains. En compagnie du président égyptien, Hosni Moubarak, le premier ministre Wen Jiabao donnera dimanche le coup d’envoi de ce forum qui se tient à Charm el-Cheikh, sur la mer Rouge. Il doit y dévoiler une «feuille de route» pour la coopération jusqu’en 2012.

–   En moins de dix ans, la relation entre la Chine et l’Afrique a connu un spectaculaire essor. Elle est clairement passée du terrain politique, quand il fallait rivaliser avec Taïwan pour compter les partenaires diplomatiques, au champ économique.

–   Les échanges commerciaux ont décuplé, atteignant 107 milliards de dollars en 2008, en hausse de 45 % sur un an. Ils ont dépassé pour la première fois les échanges avec les États-Unis.

–   Les investissements directs chinois en Afrique ont aussi bondi de 490 millions de dollars en 2003 à 7,8 milliards de dollars l’année dernière.

Investissements massifs

–   Lors de sa quatrième tournée africaine en février dernier, le président Hu Jintao a souligné qu’il allait à la rencontre d’«amis» et non de simples «fournisseurs». On reproche souvent à la Chine de ne voir en Afrique qu’un vaste sous-sol d’où l’on extrait pétrole et minerais stratégiques.

–   De fait, les importations chinoises sont écrasées par l’or noir (39 milliards sur un montant de 56 milliards de dollars).

o    La Chine répond que partout, et notamment dans des pays d’où les Occidentaux se sont désengagés, elle construit routes, ponts ou centrales électriques. En juillet 2008, un rapport de la Banque mondiale a reconnu que les investissements massifs de la Chine contribuaient à réduire la pauvreté dans des pays délaissés d’Afrique.

o    L’autre reproche est celui du peu de cas fait des droits de l’homme. Pékin vient de l’illustrer en annonçant 7 milliards de dollars d’investissements en Guinée, quelques jours après le massacre de 150 manifestants de l’opposition.

o    Avec l’Afrique, la Chine abandonne sa posture de grande puissance montante pour jouer sur le tableau d’un pays encore émergent. C’est ce qu’a exprimé récemment le chef de la diplomatie chinoise, Yang Jiechi, rappelant que «la Chine est le plus grand pays en développement, tandis que l’Afrique comprend le plus grand nombre de pays en développement».

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Le Monde       091107

 

À Canton, les bonnes affaires des immigrés de la «petite Afrique»

De notre envoyé spécial à Canton, Arnaud de La Grange

06/11/2009 | Mise à jour : 22:19 | Commentaires 3 | Ajouter à ma sélection

REPORTAGE – Dans la touffeur méridionale chinoise, les Africains se sentent plus à l’aise que dans la dure Chine du Nord.

–   L’atelier du monde a son «M. Afrique». À Canton, dans le sud de la Chine, Emma Ojukwu s’est naturellement imposé comme l’intermédiaire principal entre la plus grande communauté africaine du pays et les autorités locales. Parce qu’il est le patron de l’Association des Nigérians de Chine, nationalité africaine la plus représentée. Et parce que ses réseaux, dans l’administration et la police chinoises, font que bien d’autres Africains, y compris francophones, viennent frapper à sa porte quand une «embrouille» pointe son nez.

–   Selon Emma Ojukwu, les Nigérians seraient 3 000 ou 4 000 autour de Canton, et plus de 7 000 dans toute la Chine. Certaines estimations sont beaucoup plus hautes. Ses téléphones tressautent sans arrêt. Ici, il s’agit d’aider un compatriote dont le visa a expiré et qui n’a plus un yuan en poche. Là, d’un rendez-vous avec le Criminal Department pour régler un cas plus épineux. «Bien sûr, les problèmes augmentent en même temps que la population africaine, dit-il. Un seul Africain arrêté pour trafic de drogue, cela se voit et nous donne une mauvaise image.»

–   De fait, dans la «petite Afrique», nom donné au quartier de Canton où la diaspora africaine s’est concentrée, des voitures de police stationnent à chaque coin de rue. Il y a quelques semaines, des centaines d’Africains ont attaqué un commissariat après que deux Nigérians se furent blessés en sautant par une fenêtre pour échapper à une rafle. Les autorités chinoises font cependant attention à ne pas agir trop durement, par souci d’image vis-à-vis de ce continent désormais si important. Le grand sujet reste celui des visas. «Les autorités chinoises nous ont promis de nouvelles réglementations plus souples pour bientôt», assure Emma Ojukwu.

–   À Canton, dans la touffeur méridionale chinoise, les Africains se sentent plus à l’aise que dans la dure Chine du Nord. Combien sont-ils au total dans le pays ? Impossible de trouver des statistiques officielles. Les estimations varient entre 20 000 et 100 000 personnes, voire bien plus. Le soir, dans les ruelles africanisées, déambulent des colosses en tee-shirt de basketteur américain ou au contraire très chics, avec tout l’art de la «sape» congolaise. Des femmes opulentes en boubous colorés aussi, attirées par les affiches d’un coiffeur chinois affirmant, dans un drôle de mariage franco-anglais : «Very very good couleur, cheveu lisse style Paris.» Dans les restaurants, les poulets yassa supplantent les raviolis, tandis que des vendeuses chinoises sourient derrière des caisses de DVD pirates d’african movies. Les agences de voyage font de la publicité pour des vols vers Lagos ou Addis Abeba. Souvent informelle, cette économie transcontinentale se porte plutôt bien.

Le développement des flux

–   Une rue plus loin, on est au Sénégal. Dans l’antichambre de Teranga Trading Co., un joli capharnaüm de téléviseurs, chaussures et autres produits. Au mur du bureau du jovial PDG, une photo d’un jeune homme en uniforme de l’armée de l’air sénégalaise serrant la main de l’ancien président Abdou Diouf. «J’avais commencé une formation de pilote au Maroc, puis j’ai bifurqué comme ingénieur électronicien», raconte-t-il. Faute de visa pour l’Australie, le voyage s’est arrêté à Bangkok où Mouhamadou Moustapha Dieng s’est lancé dans le commerce avec son pays d’origine. Avant de gagner Canton, où il est aujourd’hui à la tête de la plus grosse entreprise de transport à destination de Dakar et autres terres avoisinantes. Moustapha se félicite du développement des flux Chine-Afrique, qui lui permettent d’expédier une centaine de conteneurs par mois. Il concède cependant quelques inquiétudes, là-bas. «C’est vrai que de plus en plus de petits commerçants chinois arrivent dans la foulée des employés des grands groupes, explique-t-il. À Dakar, ils ont investi le boulevard du Centenaire ou l’avenue Charles-de-Gaulle. Ils concurrencent fortement les petits marchands locaux». Certains pays africains tentent de régler le problème en autorisant les Chinois à s’installer comme grossistes, pas à ouvrir des magasins.

Les reproches faits à la Chine de vampiriser sans vergogne les ressources africaines en matières premières font hausser les épaules au «M. Afrique» de Canton. «Oui, les Chinois veulent du pétrole ou du minerai en Afrique, lance Emma Ojukwu, mais le volent-ils ? Non, ils le payent. C’est du business tout simplement.» Pour lui, les maux de l’Afrique viennent de la corruption et l’incurie de gouvernements, qui se soucient peu de leurs populations. «C’est là notre grand malheur, dit-il, et ce n’est pas le problème de la Chine !» Là-dessus, les dirigeants de Pékin sont mille fois d’accord.

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Le Monde       091020

 

Bertrand Badie : "L’Afrique, champ de manoeuvre de la Chine, l’Inde et le Brésil"

LEMONDE.FR | 14.10.09 | 16h49 • Mis à jour le 20.10.09 | 13h56

–   Dans un chat au Monde.fr, mardi 20 octobre, Bertrand Badie, professeur à Sciences Po, analyse la diplomatie des puissances émergentes comme la Chine, l’Inde, le Brésil, l’Afrique du Sud ou encore la Russie. Il revient sur leurs atouts, notamment en Afrique, et leurs faiblesses, sans oublier leurs ambitions dans l’espace mondial.

Rachid : Qui sont ces puissances émergentes ? Combien y en a-t-il ?

–   Bertrand Badie : La notion est moins évidente qu’on pourrait le croire de prime abord. Il y a d’abord un parfum de développementalisme qui vient la simplifier. Tout se passerait comme si le modèle occidental de développement était la forme unique et absolue de modernité, et que certains pays en développement plus doués ou mieux dotés que d’autres sortiraient progressivement, au rythme de leur croissance, du sous-développement économique. Il y a aussi une illusion géographique dont il faut savoir se garder : la notion de pays émergent empêche de distinguer des zones qui, dans certains grands pays, peuvent être très décalées les unes des autres.

–   Le cas de la Chine est de ce point de vue tout à fait caractéristique : la Chine en émergence est celle de la côte maritime, qu’il convient de distinguer d’un arrière-pays rural dont on ne peut pas dire brutalement qu’il s’inscrive dans une dynamique d’émergence.

–   Il y a aussi une illusion évolutionniste : comme si chaque pays en développement était promis à sortir progressivement des affres du sous-développement. La réalité est plus complexe : certes, l’émergence peut être progressive quand on prend en compte des pays comme le Brésil ou la Turquie, elle peut être aussi plus brutale car liée à une rupture, comme la Chine avec les réformes de Deng Xiao Ping, voire l’Inde après les grandes réformes de 1991.

–   En gros, cependant, on peut distinguer quelques critères sur lesquels les institutions internationales et les académiques tendent à s’entendre : une croissance rapide et forte du PIB, une entrée volontariste et réussie dans la globalisation, notamment financière, et une bonne maîtrise des constructions institutionnelles régulatrices et coordinatrices, notamment des banques centrales.

–   Si on s’en tient à ces critères économiques, on laisse encore de côté deux distinctions. La première consiste à se demander si l’émergence est uniquement un phénomène économique, si elle doit être liée aussi aux transformations sociales et à la croissance de l’indice de développement humain, si, enfin, les transformations politiques doivent être prises en compte. Il y aurait ainsi des émergents exclusivement économiques, et d’autres dont la transformation et l’entrée dans la modernité seraient davantage multisectorielles.

–   L’autre distinction a trait au processus : historiquement, on a commencé à parler d’émergence à propos de quatre "dragons asiatiques" dont la lente mais solide ascension marquait une rupture dans l’opposition entre un Nord développé et un Sud sous-développé. C’est ainsi que Singapour, Hongkong, Taïwan et la Corée du Sud ont été les premiers à se distinguer.

–   On a ensuite parlé des "jaguars latino-américains", à l’instar du Mexique et du Brésil. Face à ces longs processus,

–   d’autres étonnent par leur rapidité, voire la brutalité des ruptures. C’est le cas, bien entendu, de la Chine, ce pourrait l’être bientôt du Vietnam, ça l’est sur un autre plan de l’Afrique du Sud.

Cela étant dit, toutes ces distinctions et ce flou empêchent les spécialistes de s’entendre sur une liste unique de pays émergents. Ceux déjà mentionnés en font incontestablement partie, mais qu’en est-il de l’Egypte, du Maroc ou du Pérou ?

 

jutika : Quels sont les enjeux autour de ces puissances émergentes ?

Bertrand Badie : C’est là que le sujet se complique à nouveau. Les enjeux sont nationaux, régionaux, mondiaux.

–   Sur le plan national, on aura déjà compris que deux priorités s’affichent : d’une part, que les sociétés suivent les économies ; d’autre part, que les structures politiques viennent s’adapter aux données nouvelles. Or, de ce point de vue, les jeux ne sont pas faits. L’Inde voit présentement les inégalités se renforcer. L’émergence venant en quelque sorte créer une situation sociale plus tendue, plus conflictuelle, parfois explosive, aggravée par le problème identitaire lié aux 150 millions de musulmans qui ont du mal à s’intégrer. Si la Chine voit régresser ses inégalités, celles-ci demeurent encore fortes et probablement beaucoup moins supportables dans un contexte d’émergence et d’accroissement de la consommation.

–   Quant au problème politique, il est encore plus complexe, car là, les objectifs sont infiniment moins nets. On a cru longtemps que développement signifiait démocratisation. Le régime chinois pense résolument le contraire. La montée en puissance de nouveaux émergents dont le processus de démocratisation est pour le moins douteux montre le caractère non linéaire du processus, et donc la complexité du débat qui risque de s’installer.

–   Sur le plan régional, une puissance émergente tend presque mécaniquement à s’ériger en puissance régionale, presque en pôle d’attraction. C’est la raison pour laquelle l’idée contestable de multipolarité est si populaire dans les pays de ce type. Mais les inégalités régionales qui risquent d’en dériver sont source de tensions graves : le Brésil pourra-t-il s’imposer à ses voisins sans susciter des problèmes insolubles ? Et que dire de l’Afrique du Sud au sein de l’Afrique australe, ou de l’Inde en Asie du Sud…

Il ne faut pas non plus négliger l’effet d’isolement. Une puissance émergente sans ouverture à ses frontières risque la crispation autoritaire et identitaire. Belle leçon à méditer à propos de la Turquie…

 

Sur le plan mondial maintenant, la posture est double, presque contradictoire. Conscientes de leur passé et de leur fragilité, comme de leurs potentialités nouvelles, les puissances émergentes revendiquent une souveraineté sourcilleuse qu’on identifie à travers le vocable de "souverainisme".

–   En même temps, les mêmes réclament haut et fort leur entrée dans le club dirigeant du monde (G8 devenu G20, Conseil de sécurité des Nations unies, FMI…). Cette tentation oligarchique conduit les intéressés à combiner de façon scabreuse une indépendance sourcilleuse et un désir de cogestion mondiale qui, circonstance aggravante, les éloigne des autres pays du Sud.

ali_fanfaron : est-ce que vous pensez qu’une diplomatie de ces pays émergents trop tournée vers les grandes puissances peut se faire au dépend des pays déjà en grande difficulté ?

–   Bertrand Badie : Vous avez raison : nous sommes là au cœur de notre sujet. Le risque est très élevé et il est en grande partie conscient. La posture de l’émergence conduit mécaniquement à se couper des plus petits et des plus faibles, et même d’un certain point de vue de les abandonner à leur triste sort, un peu comme des citoyens "passifs" au sein des nouvelles institutions internationales.

–   L’Afrique du Sud le paie très cher, suscitant une méfiance croissante au sein des autres pays africains qui viennent stigmatiser son ralliement aux puissances "blanches" du Nord. Le Brésil connaît des difficultés avec les "petits jaguars latino-américains". La Chine et l’Inde intéressent mais font peur en Asie orientale et méridionale, comme naguère le Japon. Pour pallier cet inconvénient, toutes ces diplomaties émergentes viennent renforcer leur orientation "sudiste". On l’a vu très récemment avec le vote du rapport Goldstone au Conseil des droits de l’homme des Nations unies. Alors qu’aucun pays du Nord (sauf la Russie, mais peut-être celle-ci est-elle une puissance émergente ?) n’a voté en faveur de ce rapport, tous les Etats émergents, de l’Inde au Brésil en passant par l’Afrique du Sud, ont en revanche voté en sa faveur. Cela est remarquable quand on sait combien Delhi s’est rapproché de Tel-Aviv.

–   Tout se passe comme si les puissances émergentes avaient pour principal souci d’entretenir sous leur direction un bloc uni du Sud qui aurait en outre l’avantage de leur donner des atouts que les Etats développés du Nord n’ont plus. Il n’y a qu’à voir comment le Brésil a une diplomatie active en direction de l’Afrique et des pays arabes, à coup de sommets multilatéraux ou de rencontres bilatérales. Il n’y a qu’à prendre la mesure de l’essor du réseau diplomatique indien, de la présence chinoise en Afrique et des efforts consentis par l’Afrique du Sud pour apparaître aux Nations unies comme le champion d’un néo-afro-asiatisme.

chercheur_cnrs : Ces pays sont donc davantage dans une diplomatie de contestation envers le Nord que dans une diplomatie de proposition de solutions aux enjeux globaux ?

Bertrand Badie : Sans être aussi radical, je serais tenté de vous rejoindre. D’une manière générale, la disparition de la bipolarité a laissé libre cours à une forme nouvelle de diplomatie faisant de la contestation une arme redoutable d’expression internationale. Le choix s’est révélé efficace, car la diplomatie contestaire donne à ceux qui la portent un sur-pouvoir qui n’échappera à personne (une contestation "douce" à la Chavez à une autre plus radicale de type iranien).

 

–   Il est probable que les puissances émergentes en fassent leur miel. D’abord pour marquer leur faible capacité de peser, au moins sur les choix politiques mondiaux : face aux cinq membres permanents du Conseil de sécurité (incluant évidemment la Chine, d’ailleurs très passive), les émergents n’ont souvent pas d’autre choix que de jouer la carte de la contestation.

–   Mais surtout, ils mesurent l’avantage qu’ils peuvent retirer d’une fonction de tribuns qu’ils accompliraient au sein du système international en se faisant les porte-parole des plus faibles qui, eux, ne disposent d’aucune ressource pour s’exprimer.

–   Cette surpolitisation de leur diplomatie pénètre même les instances du multilatéralisme économique. On le voit à l’OMC, où de vastes coalitions sudistes emmenées par les émergents correspondent davantage à des logiques politiques qu’à des choix économiques cohérents. Cela étant, les choses peuvent évoluer : les émergents ont de plus en plus leur mot à dire dans la gouvernance globale du monde, notamment sur le plan environnemental, mais aussi sur celui des grandes questions sociales qui affectent la planète (démographie, santé, alimentation…). Les pays du Nord savent qu’il est impossible de ne pas aborder ces questions en harmonie avec les pays du Sud, quitte à perdre une partie de leurs prérogatives. Si cette coopération s’établit, la fonction tribunicienne actuellement accomplie par les diplomaties émergentes s’en trouverait nécessairement atténuée. Mais je reviens à l’essentiel : dans une conjoncture fluide et de transition, les pays du Sud ont tout intérêt à développer l’arme de la contestation.

Jutika : Quelles peuvent être les conséquences de ce que vous venez de dire sur les pays du Nord ?

Student : Pensez-vous que ce bloc uni du Sud, s’il parvient à se développer de plus en plus, pourrait poser quelques problèmes au Nord dans l’avenir ?

–   Bertrand Badie : Il faut être nuancé, car les pays du "Nord" gardent des atouts. Il serait vraiment naïf ou simpliste de penser que les émergents ont toutes les bonnes cartes dans leur jeu : ils ont souvent besoin des pays les plus développés pour parachever leur transition. Ainsi l’Inde a-t-elle cru nécessaire de se rapprocher sensiblement des Etats-Unis et de mettre en place un vrai projet de coopération qui, en l’espèce, est profitable aux deux.

–   La Chine peut tenir la dragée haute à Washington, mais en même temps, n’a aucun intérêt à perdre le marché américain ni à risquer un effondrement des économies occidentales. Si les puissances émergentes disposent de nouveaux atouts sur le plan technologique, elles ne peuvent nullement les utiliser en vase clos. Il faut même souligner le jeu extraordinairement complexe des diasporas indienne ou chinoise, qui constituent de véritables cordons ombilicaux unissant ces deux pays à la technologie occidentale.

En fait, on s’aperçoit que le scénario de la globalisation est respecté : chacun tient l’autre par la "barbichette". Si les pays du Nord acceptent de faire une place aux émergents, la redistribution pourrait être profitable à ces deux ensembles.

Reste maintenant l’essentiel : il ne suffit pas pour régler les problèmes du monde de faire monter les émergents en première division. Encore faut-il éviter que cette redistribution partielle des cartes n’aboutisse à un vrai clivage Nord-Sud qui, pour le coup, en laissant les plus faibles de l’autre côté de la barrière, ne serait vraiment profitable à personne.

 

–   La grande faiblesse des pays du Nord est de gérer la mondialisation à travers une conviction oligarchique mâtinée de supériorité occidentale et qui ne serait modulée que par une ouverture limitée aux sudistes les plus performants. Cette idée, très à la mode aujourd’hui et qui sert de justification à la transformation du G8 en G20, contredit l’essence même de la mondialisation et risque de susciter d’énormes problèmes qui, alors, deviendront totalement insolubles.

Guerinoute : Le G20 est-il une chance pour les pays émergents ?

–   Bertrand Badie : Le G20 flatte les nouveaux riches, mais il ne résout rien tout en créant d’énormes problèmes. En matière de solutions, les illusions n’ont pas tenu longtemps, et on constate que le sommet de Londres ou celui de Pittsburgh, dont on nous avait dit qu’ils allaient révolutionner la planète, n’ont fait que formaliser une rhétorique.

–   En revanche, l’affichage d’une oligarchie qui se targue de 85 % du PIB mondial est totalement improductive. La mondialisation est ainsi faite que les problèmes, les crises, les tensions viennent du plus faible vers le plus fort et réclament d’abord l’association du plus faible. Si les 20 recouvrent 85 % des richesses produites dans le monde, les 172 autres détiennent 90 % de la conflictualité mondiale. L’exclusion ostentatoire de ces derniers n’est certainement pas un début de solution à ces problèmes.

Le multilatéralisme global, qui s’inscrivait avant la lettre dans l’intelligence de la mondialisation, est davantage outillé pour y faire face. Bien dommage que la facilité et l’arrogance en aient décidé autrement.

Vincent_B. : Les puissances émergentes sont-elles capables aujourd’hui d’imposer une révision en profondeur du "système international" ? L’intervention du gouverneur de la Banque centrale chinoise à la veille du sommet du G20 à Londres semble suggérer qu’ils en ont en tout cas l’ambition. Cette ambition a-t-elle des chances d’aboutir ?

–   Bertrand Badie : Ils en ont l’ambition, ils en ont le savoir-faire, ils en ont les ressources.

–   Sur le plan économique, la messe est pratiquement dite, car la mondialisation donne à l’économie mondiale cette logique d’intégration qui permet à celui qui est doté d’atouts d’intervenir quand il le veut et comme il le veut, avec les meilleures chances de répercussions globales.

–   Sur le plan social (qu’il ne faut pas oublier) comme sur le plan politique, les choses sont moins nettes. D’abord, les résistances souverainistes, d’ailleurs prônées par les émergents, atténuent la portée des coups. Ensuite, les ressorts politiques et sociaux mettent en jeu d’autres acteurs qui généralement rendent les puissances émergentes mal à l’aise. Cela est particulièrement vrai pour la Chine, qui ne sait pas comment réagir aux interpellations de l’espace public mondial sur les atteintes portées aux droits de l’homme au sein du Vieil Empire. L’affaire des Jeux olympiques était emblématique : on ne peut pas gagner sur les deux tableaux, profiter de la mondialisation sans s’exposer aux effets corrosifs des discours et des pratiques des acteurs venus de toute part, de toutes les strates de l’espace mondial.

Ce décalage entre la rationalité économique et la rationale politique constitue l’une des grandes inconnues des années, voire des décennies, à venir.

keddar : Y aurait-il un autre système de gouvernance mondiale à mettre en place, plus efficace que le G20 ?

 

Bertrand Badie : Encore une fois, le multilatéralisme mis en place en 1945 est tout désigné pour prendre en charge cette gouvernance globale. Cela d’autant plus que ces institutions issues de la Deuxième Guerre mondiale ménageaient en bonne partie la souveraineté et la puissance, et offrent donc des moyens réalistes et peu révolutionnaires de se saisir des grands dossiers nouveaux. Encore faudrait-il avoir le courage, comme le suggérait Kofi Annan, de réformer les Nations unies.

–   En fait, tout est lié : la grammaire de 1945 est encore valable, mais le contexte a changé, de nouveaux Etats sont apparus, venant précisément du Sud ; de nouveaux enjeux se sont imposés, tels le développement ou l’environnement ; une réforme est donc nécessaire sans qu’elle conduise à une révolution brutale. L’ancien secrétaire général des Nations unies avait compris que le monde pourrait prendre le virage de la mondialisation et faire face à ses logiques d’émergence en réformant ses institutions multilatérales. Le travail n’a pas été fait, le prix à payer est cette montée préoccupante de la diplomatie contestataire et les tergiversations qui frappent les diplomaties émergentes assises entre deux chaises.

 

Bebes : Dans ce "décalage entre la rationalité économique et la rationale politique" doit-on y inclure les problématiques environnementales mondiales ?

–   Bertrand Badie : Bien sûr. On sait qu’à la racine de ces problèmes se trouve le refus politique des pays du Nord de laisser le Sud accomplir le type de révolution industrielle dont ils avaient été jadis les acteurs. Cette inégalité prend très vite une vertu politique et devient évidemment génératrice d’un ressentiment qui structure actuellement l’espace mondial et rend problématique l’intégration des émergents dans l’oligarchie mondiale.

–   Mais à cela s’ajoute un élément d’accélération : l’interdépendance est aujourd’hui infiniment plus forte qu’elle ne l’était hier. Rien ne nous y prépare, ni un droit international très souverainiste ni des diplomaties obsédées par l’idée d’intérêt national, elle-même peu adaptée aux données nouvelles. Cette double tension fait de l’interdépendance un enjeu nullement maîtrisé, et une source de toutes les incertitudes de demain.

Mouss : Que pensez-vous de l’Afrique dans tout ça ? Peut-elle faire entendre sa voix ?

–   Bertrand Badie : C’est bien tout le problème, et c’est ici que se cristallisent toutes les ambiguïtés de notre sujet. L’Afrique est devenue, à une vitesse effrayante, un champ de manœuvre pour les puissances émergentes. L’Afrique du Sud d’abord, dont on a vu cependant les handicaps. La Chine ensuite, dont on se plaît à rappeler la présence forte sur le continent noir. Mais également le Brésil, très présent jusque dans les plus petits Etats africains, au nom d’ailleurs d’une histoire partiellement commune. Et l’Inde, depuis longtemps présente sur la côte orientale africaine, et qui pénètre de plus en plus à l’intérieur même du continent. On peut imaginer que les puissances émergentes sont en train de remplacer les anciennes puissances coloniales.

–   La France, mais aussi, dans une moindre mesure, la Grande-Bretagne, comme bien entendu la Belgique et le Portugal, ne cessent de subir des revers au sein de leur ancien pré carré. L’arrivée en force d’Etats eux-mêmes autrefois victimes de la colonisation est accueillie comme une sorte d’étape nouvelle. Celle-ci risque de conduire à des désillusions. La tentation coloniale, ou plus exactement néocoloniale, est au bout des aides et des offres de coopération délivrées par ces émergents.

Ils ont des atouts qui rendent leur offensive d’autant plus sérieuse : dispensés de gérer le passé colonial, ils se plaisent aussi à s’afficher moins sourcilleux en matière de droits de l’homme ou quant à la nature même des régimes et des dictatures. Il est vrai que les anciennes puissances coloniales savaient fermer les yeux quand cela les arrangeait.

Mais la force des émergents est de se plaire à contourner les vœux de la communauté internationale et à offrir des portes de sortie dans lesquelles les vieux dictateurs, de Khartoum à Harare, aiment à se précipiter.

–   Risquons l’hypothèse que l’Afrique sera la grande victime de tout ce remue-ménage, preuve supplémentaire que les nouvelles relations internationales doivent par priorité faire une place aux faibles et aux pauvres, et que le multilatéralisme global est plus que jamais nécessaire.

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