Danilo
Taino
Bhumibol
Il sovrano venerato come un dio
Provate a non alzarvi, in un cinema di Bangkok,
quando, prima della proiezione, viene suonato l’inno reale (non l’inno
nazionale). Le proteste che solleverete non saranno formali: i thailandesi
hanno per il loro re, Bhumibol Adulyadej il Grande (Rama IX), una venerazione
sincera.
Quest’anno, sessantesimo anniversario della sua incoronazione, il Paese si è
coperto di giallo — bandiere, coccarde, striscioni —, il colore della
monarchia. Parlarne male è vietato. Le sue foto vi guardano a ogni angolo.
Inaugura scuole, è un esperto di agricoltura, visita villaggi. Soprattutto, negli
ultimi anni ha garantito il passaggio verso la democrazia in un Paese per
decenni destabilizzato da colpi di Stato militari.
In queste ore, dopo il golpe di ieri, la domanda è: cosa ne pensa il sovrano?
Appoggia i militari? Perché una cosa è certa: se Bhumibol si esprimesse
contro il colpo dei generali, la ribellione fallirebbe. Le voci, da Bangkok,
indicano però che il monarca non è così contrario alla soluzione imboccata ieri,
anche se è evidente che un colpo di Stato non aiuterà la Thailandia, nei
prossimi anni, a presentarsi come un Paese attraente per gli investitori
internazionali.
Qualcosa che, al contrario, le servirebbe molto, soprattutto di fronte alla
concorrenza economica emergente di vicini aggressivi come il Vietnam.
Da mesi, il sovrano era palesemente preoccupato dalla situazione di
instabilità politica e dalle mosse del primo ministro Thaksin Shinawatra, che
fino a ieri ha ondeggiato tra la decisione di ritirarsi dalla politica e quella
di ricandidarsi (e probabilmente rivincere) alle prossime elezioni. Nelle
ultime settimane, il suo primo consigliere reale da 18 anni, il generale Prem
Tinsulanonda, avrebbe preparato il terreno per fargli accettare la soluzione
scelta dai vertici dell’esercito e dal suo alleato, il comandante in capo
Sondhi Boonyaratglin. Le bandiere gialle, omaggio alla monarchia, che
sventolavano ieri sui carri armati di Bangkok volevano essere un segnale
diretto a lui. La mossa resta comunque rischiosa.Il magnate dei media che volle farsi premier
A fine agosto, la polizia thailandese arresta un
ufficiale dell’esercito che se ne sta su un’automobile piena di esplosivo in un
parcheggio non lontano dall’abitazione del primo ministro, Thaksin Shinawatra.
L’opposizione denuncia il fatto come una messa in scena. Il premier accusa
invece una serie di ufficiali di volerlo uccidere. Nei giorni successivi,
quattro alti ufficiali — di esercito, aeronautica e marina — si appellano al
generale Prem Tinsulanonda, potente presidente del Consiglio Privato del re,
per protestare contro le supposte manovre di Thaksin in fatto di nomine dei
vertici militari. È il segno che la situazione sta scivolando verso esiti
pericolosi. Lunedì notte, voci da Bangkok parlano di movimenti nelle caserme.
Ieri, il colpo di Stato e i carri armati in città.
Al centro del golpe, Thaksin, capo di un governo risultato da un voto
elettorale annullato ma, dal 2001, vincitore di tre consultazioni consecutive,
le prime due regolari. Un uomo che prende i voti, tanti, soprattutto nelle campagne.
Ma probabilmente il thailandese meno adatto per accompagnare nella transizione
verso la piena democrazia un Paese che ha vissuto 23 colpi di Stato negli
ultimi decenni.
Nato nel 1949 da una famiglia cinese di mercanti di seta, Thaksin ha una lunga
storia prima di arrivare alla politica. Nel 1973 entra in polizia, poi vince
una borsa di studio per un’università del Kentucky. Diventa colonnello. Nell’87
si dimette per darsi agli affari: vende computer alla polizia, dove ha buoni
contatti. Costruisce un impero nelle telecomunicazioni, diventa uno degli
uomini più ricchi di Thailandia. Nel 1998, fonda il suo partito – Thai Rak
Thai, I thailandesi amano i thailandesi. Nel 2001 vince le elezioni promettendo
servizi sociali e salari migliori ai poveri. Nel 2005, vince di nuovo e il suo
partito è il primo a conquistare una maggioranza assoluta in Parlamento.
Stringe il controllo sulla tv di Stato, cancella programmi che ritiene
«irresponsabili».
Nel frattempo, l’opposizione si organizza, accusa il governo di essere
corrotto, autoritario e di governare con un conflitto di interessi gigantesco:
Thaksin, di fatto, guida ancora il suo impero, oltre al governo. Nel gennaio di
quest’anno, la famiglia vende il controllo della Shin Corp, telecomunicazioni,
alla società di investimenti statale di Singapore, Temasek Holdings, per 1,9
miliardi di dollari tra accuse di insider trading e di non avere pagato le
tasse. In febbraio, grandi manifestazioni anti- Thaksin attraversano le
maggiori città. Il primo ministro scioglie il Parlamento e va alle elezioni
anticipate, tra proteste e manifestazioni continue. L’opposizione alza
il livello dello scontro, sceglie di non partecipare. Ma in aprile la
consultazione si tiene e Thai Rak Thai sostiene di avere il 57% dei voti.
Crisi istituzionale: Thaksin promette al re Bhumibol di dimettersi alla fine
delle proteste, si prende un break di sette settimane e torna come primo
ministro incaricato degli affari correnti, in attesa di nuove elezioni. Le
relazioni con il re si raffreddano. Il voto è fissato per il 15 ottobre ma, nei
giorni scorsi, viene non ufficialmente rinviato di un mese o più. In tutto il
periodo, l’insurrezione delle province del Sud, lanciata da forze musulmane
radicali, cresce, semina morti (1.700 in due anni) e richiede una presenza
sempre più massiccia dell’esercito. Troppo, per i militari, vecchio bastione
del potere thailandese. Ieri, il colpo di Stato mentre Thaksin era a New York,
al Palazzo di Vetro, in attesa di parlare da capo del governo.