IL NUOVO PROTAGONISMO DEL PROLETARIATO ARGENTINO TRA SCIOPERI, INSORGENZE E GUERRIGLIA (1960-1975) (7)

Pubblichiamo la settima puntata della ricostruzione della storia della lotta di classe In Argentina, a cura di G. Giusti.

Parte prima: I presupposti del “Cordobazo”

Nelle rievocazioni storiche del periodo più “alto” fin’ora espresso dalle lotte del proletariato argentino (1960-’75) è abbastanza diffusa l’abitudine di datare l’inizio di tutto dal famoso “Cordobazo” del maggio 1969. Quando cioè, come vedremo, un’intera città (seconda come importanza alla sola Buenos Aires) si rivolta contro il governo militare di Onganìa, costringendolo di lì a poco alle dimissioni.

Non vogliamo di certo sminuire l’importanza di quell’evento. Anzi. Si tratta però di comprendere in primo luogo come si giunga ad esso; e di riconsiderare criticamente tutto un lavoro di preparazione che porterà l’Argentina ben dentro una guerra civile di “lunga durata”. Una situazione per alcuni aspetti pre-rivoluzionaria, stroncata solo dalla macelleria del Golpe militare del marzo 1976.

E’ indubbio come a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso il capitalismo argentino attraversi un periodo di “crisi”. La “dollarizzazione” dell’economia derivante dalla sua dipendenza dall’imperialismo USA, il mancato aggancio al ciclo espansivo del capitale internazionale, l’insuccesso del riformismo di Frondizi e Illia (vedi articoli precedenti) si scaricano in un nuovo giro di vite autoritario impersonato dal governo del generale Onganìa (1966).

Ci preme mettere a fuoco come sia opportuno smarcarsi dalla visione economicista e meccanicista per cui la crisi capitalistica metterebbe automaticamente in moto le classi, prefigurandone rigidamente la direzione di marcia e le forme di lotta.

Ora, a prescindere dal fatto che il capitalismo, stando sulle generali, è potenzialmente sempre in crisi (per cui occorre definire in cosa consista tale concetto), il discorso di fondo è che tale diretta determinazione – nei fatti – non esiste.

Le crisi del capitalismo (da quelle particolari a quelle generali) si manifestano appieno, e dunque politicamente, quando le dinamiche “economiche” impattano sulle classi e sulle frazioni di classe in maniera tale da rendere impraticabile la mediazione borghese tradizionalmente svolta dai partiti, dallo Stato e, nel caso argentino, dalle stesse FFAA.

E’ allora che la crisi dà libero corso al suo agire; scatenando però movimenti sociali e politici per molti versi imprevedibili nella forma e nei tempi di maturazione, aventi caratteristiche spesso incontrollabili. Riconducibili al multiforme e dialettico “riflesso” che le sovrastrutture esercitano sulla struttura.

Ciò non significa mettere in discussione il principio di determinazione (determinazione “in ultima analisi” specifica Engels) della seconda rispetto alla prima, ma semplicemente non affidarsi a meccanismi preconfezionati che non aiutano a cogliere la complessità del reale.

Nel caso specifico, tutto lascia presumere che si vada verso un forte innalzamento dello scontro sociale e politico in Argentina. Ma da qui a ritenere che la situazione sia perciò rivoluzionaria, frutto della crisi inarrestabile dell’imperialismo, e che la classe proletaria sia pronta allo “scontro finale”…vi è un bel pezzo di strada da percorrere. Strada tra l’altro assai accidentata.

Quella che per M. Novaro (Op. cit.) è una esplosione di “conflitti corporativi” all’ombra dell’ “alta occupazione da parte di imprese non competitive, di buoni contratti di lavoro, di poca produttività” grazie “alla speculazione al riparo dello Stato”, trattasi in realtà della resa dei conti cui è chiamato un capitalismo (quello argentino appunto) che sta accumulando profitti senza dare risposte accettabili ad una proletarizzazione/urbanizzazione di enormi dimensioni. E non può dare tali risposte proprio perché è aumentato il suo grado di dipendenza dall’imperialismo americano. Cosa che gli impedisce, ad esempio, di aggredire la questione agraria (saldamente in mano all’oligarchia), incanalandolo nella spirale mortifera deficit/debito/inflazione.

Come abbiamo più volte rilevato, il più grosso squilibrio politico che investe la società argentina di quel periodo consiste sicuramente nella ricerca – da parte della classe dominante – di una “sintesi” appena sostenibile esautorando più della metà del corpo elettorale, composto in prevalenza da proletari.

Cioè, il cercare la soluzione politica gettando fuori dalla finestra il peronismo, previo il doverci comunque fare accordi di sottobanco. Si adottano alla bisogna, dopo o contestualmente alla dura repressione, tutta una serie di sotterfugi e collusioni i quali, spaccando il Partito peronista (P.J.) – e soprattutto l’influente e imprescindibile CGT- danno come risultato un caos all’ennesima potenza.

Occorre ricordare che siamo in una fase di enorme proletarizzazione e urbanizzazione, nonché di forti contrasti sociali e politici, in cui il sistema borghese non è ancora preparato – come lo è oggi nelle metropoli “mature” – ad assorbire (voto o non voto) la non partecipazione alla vita politica della stragrande maggioranza della popolazione.

Tra l’altro, l’impronta generazionale della proletarizzazione porta alla ribalta le giovani e giovanissime generazioni. Non solo nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, ma anche nei quartieri e soprattutto nella scuola.

Vengono messi così in primo piano il ruolo della donna, la revisione dei costumi, un nuovo modo di vivere i rapporti, la rottura dei vecchi schemi. Si fa largo insomma l’esigenza diffusa di una laicizzazione della società. I vicini fermenti continentali, assieme a quelli internazionali (Cina, Vietnam, le lotte anticoloniali), fanno sì che anche l’Argentina si avvii al suo “’68”…

Fatto nuovo è anche il naufragio delle “illusioni riformiste” da parte delle classi medie (M. Carmagnani, Op. cit.)

Sempre Carmagnani: “L’incremento dello sviluppo demografico e il rallentamento dello sviluppo economico particolarmente nel settore agrario provocarono un ristagno della popolazione attiva nelle zone rurali mentre raddoppiò la popolazione attiva nelle zone urbane…ma poiché il tasso d’espansione dell’urbanesimo era superiore a quello delle attività economiche urbane, il gruppo sociale che si sviluppò più rapidamente fu il sottoproletariato urbano, che diventò più numeroso della classe operaia e non poté più essere ignorato dai governi.”

Non ci convince il discorso del “sottoproletariato più numeroso della classe operaia”, quando con ogni evidenza trattasi della feroce urbanizzazione di una massa di miseria salariata sradicata dalle campagne e dalle province. Ma qui interessa mettere in evidenza il fenomeno e la sua dirompente portata; al punto che, in dieci anni (1950-’60), a livello continentale, nelle città, si passa da 61 milioni di abitanti a ben 91 milioni!

E’ importante sottolineare questi aspetti perché non siamo qui a fare una storia “romantica” della nostra classe, ma a cercare di riannodare il filo di una storia materialistica (che non vuol dire, appunto, economicista).

Alla base dell’incendio sociale che divamperà in Argentina sta un tale processo demografico/urbanistico/industriale il quale farà esplodere il “contenitore” peronista, mettendo in moto fenomeni di “radicalismo politico” inediti. Tali da superare le fino allora posizioni acquisite dai gruppi minoritari della sinistra rivoluzionaria.

Antonio Annino, sotto la voce “movimento operaio” della “Storia dell’America Latina” (La Nuova Italia -1979) mette opportunamente in luce come la fase di cui stiamo trattando consista in una “seconda industrializzazione” rispetto a quella “sostitutiva delle importazioni” iniziata negli anni ’30…e come essa sia una industrializzazione ”volta al mercato internazionale”.

Tutto ciò comporta una massiccia espansione delle aree urbane, con i relativi squilibri tra “occupazione permanente, sottoccupazione, consumi”.

Perciò “l’urbanizzazione precede l’industrializzazione”, facendo emergere una cosa diversa dalla “maggioranza sottoproletaria” sostenuta dal Carmagnani.

Scrive Annino: “Il rapporto tra classe operaia propriamente detta e proletariato sottoccupato e disoccupato (marginale) è sempre stato a vantaggio di quest’ultimo. I riflessi a livello politico di una simile struttura della mano d’opera sono stati decisivi per l’evoluzione della lotta di classe nel subcontinente.” (Op. cit.)

Tutto ciò, se da un lato non ha favorito il radicamento di una aristocrazia operaia col suo codazzo opportunista, dall’altro l’estrema fluttuazione del proletariato “marginale” non ha di contro facilitato il compito della sedimentazione e maturazione politica della classe.

Va da sé che il grosso del lavoro è stato alla fine compiuto dalle forze “legali” ed “extra-legali” della borghesia.

Ma occorre richiamare altri due aspetti complementari che ci possono facilitare nell’interpretazione degli avvenimenti che ci accingiamo a narrare:

1) il peso crescente del terziario (il cui tasso d’incremento supera quello dell’industria, seppur sia un settore altamente fluttuante);

2) la accentuata “snazionalizzazione” dell’economia e la brusca riduzione del mercato interno. Cosa che porta i governi (in particolare quello di Onganìa) ad una serie di affondi, sempre più crudi, sul costo della forza-lavoro.

La fase che si apre negli anni ’60 non è semplicemente un “millenovecento-sessantotto allargato e radicale”. E’ qualcosa di più e di meglio. E’ l’irruzione sulla scena politica di un proletariato che non solo rompe i vecchi schemi, non solo rigetta al mittente gli effetti della crisi della “sua” borghesia, non solo fa saltare la cappa di piombo dei militari al potere, ma pone con forza – seppur confusamente – la sua candidatura a guidare una società “altra”, libera dall’oppressione capitalistica. Di più: affratellata coi movimenti antimperialisti che stanno attraversando l’America Latina ed il mondo intero.

La “confusione” consiste in primo luogo nell’aver “ereditato” il peronismo in maniera acritica, prendendolo per ciò che non è (una forma di socialismo argentino).

Inoltre, direttamente collegato a ciò, la confusione ha messo purtroppo solide radici tra il minoritarismo e il frazionismo estremo in cui si trovano i gruppi rivoluzionari (tutti riconducibili al filone trotskysta, con il fresco innesto del guevarismo).

La rivolta proletaria che vedrà nel “Cordobazo” la sua icona, la si può dunque ricondurre ad un passato più o meno recente, in cui si intrecciano le motivazioni economiche e sociali “di fase” con quelle più propriamente “soggettive” di una classe operaia in rapida trasformazione. Epperò, al contempo (com’è inevitabile) essa è vincolata, oltre che al precipitare degli eventi,al suo bagaglio storico, politico, culturale, psicologico…portato alle estreme conseguenze.

Nel 1968-’69 la situazione economica del paese, pur dentro le criticità di fase che abbiamo richiamato, non è disastrosa. Per effetto di quei fenomeni che portano il malato a vivere brevi periodi di repentini “miglioramenti” prima di ripiombare nel coma, il PIL argentino segna un + 9,9% e un’inflazione del “solo” 7%. (F. Silvestrini, Op. cit.)

Ma i benefici di ciò, pur passeggeri, non riguardano la maggioranza della popolazione: del proletariato in primis, ma anche delle classi medie (commercianti al dettaglio), arrivando a toccare persino le stesse FFAA (che guidano il governo!).

Per i proletari non si tratta solo di lavorare di più e vedere i salari praticamente al palo, ma anche di dover affrontare la liberalizzazione degli affitti e la stagnazione occupazionale. L’incremento produttivo dei colossi del capitale “estero” è infatti ottenuto preferibilmente con nuovi macchinari e tecnologie e non con immissione massiccia di mano d’opera.

Il già citato Annino calcola che nel 1966, nelle cosiddette “villas miserias” di Buenos Aires (il termine dice tutto) vivano accatastate più di 700.000 persone…

Delle rivolte studentesche abbiamo già accennato. Le Università sono in fermento. La scolarizzazione di massa porta alla ribalta una generazione di giovani (e giovanissimi delle scuole inferiori) non più disposti a tollerare il giogo dei militari. Se nel ’55 le Università si erano schierate contro Peròn, ora avviene esattamente il contrario, scatenando la reazione del governo. Già nel luglio del ’66 la polizia ha assaltato l’Università di Cordoba, uccidendo uno studente.

Dal canto loro, anche in virtù della scissione sindacale in CGT (Vandor “collaborazionista” contro Ongaro “anticapitalista, vedi articolo precedente) le nuove leve sindacali (social-cristiane e rivoluzionarie) cominciano a diffondere i “Comitati di Fabbrica”, che rivendicano una autonomia contrattuale, anche provinciale, in grado di spiazzare i vertici della CGT “vandoriana”.

Emergono così nuovi quadri operai che entrano facilmente in contatto con una miriade di formazioni politiche “peroniste di sinistra” o “marxiste” le quali assumono, in un breve volgere di tempo, il ruolo di opposizione intransigente non solo al governo dei militari ma a tutta l’impalcatura politica e sociale del paese.

Teniamolo presente: siamo di fronte non solo a quadri proletari e studenteschi di una sinistra radicale finalmente emergente, ma principalmente aspezzoni consistenti del peronismo i quali (sotto l’iniziale placet di Peròn) si spostano organizzativamente e politicamente sul terreno di uno scontro frontale che implica anche la lotta armata.

Le formazioni rivoluzionarie argentine, pur guadagnandosi eroicamente il loro spazio di influenza e di lotta, non riusciranno a prevalere sul “peronismo di sinistra”.

Già dagli inizi degli anni ’60 è tutto un ribollire di agitazioni che aspettano solo di essere saldate.

Si muovono le leghe agrarie dei contadini di Misiones, El Chaco, Corrientes, le quali fanno ala agli scioperi dei portuali di Buenos Aires, a quelli dei lavoratori petroliferi statali di Ensenada, La Plata e Berisso cui aderiscono Comodoro, Rivadavia, Santa Cruz e Mendoza. Si sciopera nello zuccherificio di Arno (S. Fé), nelle industrie di auto (Cordoba), nel Tucumàn (da dove emergono, a cavallo tra il ’59 ed il ’60, quei guerriglieri “Uturuncos” di cui abbiamo già parlato).

A proposito di guerriglia, si cominciano ad a condurre i primi esperimenti. Uno dei primi gruppi è il MPL (Movimiento Peronista de Liberacìon), il quale a sua volta fa capo a l’ARP (Acciòn revolucionaria peronista). Si conducono attacchi a caserme e fabbriche straniere prima di sciogliersi.

Sarà l’inizio di un susseguirsi considerevole di sigle guerrigliere che porteranno scompiglio tra la polizia e l’esercito, ma non poco disorientamento anche tra il proletariato argentino.

Il quale – a dire il vero – non si sente per il momento coinvolto in iniziative di questo genere, se si fa eccezione del FRIP (1961, Frente Revolucionario Indoamericano Popular) di Roberto Santucho, che cerca effettivamente un collegamento con le agitazioni dei lavoratori zuccherieri.

Le caratteristiche politiche di simili formazioni “non marxiste” o addirittura “anti” (parte dei peronisti “di sinistra” rimarranno sempre anti-marxisti), caratteristiche che pervaderanno tutta l’opposizione peronista (armata o no), possono essere così sintetizzate:
1) nazionalismo; 2) guevarismo in quanto antiamericanismo; 3) rivitalizzazione populista del peronismo.

Nel 1963 si forma il MNT (Movimiento Nacionalista Tacuara), che raccoglie “centinaia di aderenti e simpatizzanti.” (R. Diez, Op. cit.)

Rifiuta l’antiebraismo (componente presente nel peronismo) e comincia ad attaccare le banche. L’episodio più eclatante è l’assalto al Banco Central di Buenos Aires (due morti e tre feriti, 14 milioni di pesos requisiti). Braccato dalla polizia, di disperde rapidamente, “distribuendo” i suoi aderenti tra “destra” e “sinistra”.

L’anno dopo è il turno dell’EGP (Ejercito Guerrillero del Pueblo), condotto dal guevarista José Ricardo Masetti (“comandante Segundo”), che opera nella foresta di Salta. Il gruppo è distrutto in poco tempo.

Sempre nel ’63, dal MRP (Movimiento Revolucionario Peronista) sorge la JRP (Juventud Revolucionaria Peronista), che raccoglie al suo interno molti giovani provenienti dal cattolicesimo, in gran parte simpatizzanti per Cuba, Cina, Vietnam e sostenitori del ritorno di Peròn attraverso la combinazione tra mobilitazione delle masse e lotta armata.

Un’ala di tale organismo giovanile, quella più “socialista”, guidata da Gustavo Rearte, si stacca dal MRP per fondare il MR-17 (Movimiento Revolucionario 17 de Octobre), con l’idea di formare un “partito della classe operaia” (lavoro sindacale clandestino + lotta armata).

Come si vede da queste brevi note, che possono solo rendere l’idea del fermento politico in atto, il peronismo “di sinistra” comincia a gettare le basi di un conflitto a 360°, senza esclusione di colpi. Un conflitto che sfuggirà di mano non solo al suo apprendista stregone (Peròn si ritiene un padreterno, sicuro di accendere o spegnere i conflitti come schiacciare l’interruttore della luce), ma a tutto l’establishment argentino, ormai avvezzo a trattare col peronismo – per dividerlo – utilizzando la tattica del bastone e della carota.

Sul fronte marxista gli anni ’60 sono anni di uscita dal ghetto e di fattiva preparazione. Del FRIP di Santucho e della PO (Palabra Obrera) di Nahuel Moreno abbiamo accennato. Riporta M. Morlacchi (Op. cit.) che quest’ultima (aderente alla IV° Internazionale) è attiva nelle fabbriche delle grandi città, in particolare nella capitale, a Cordoba e Rosario.

Fa parte degli ambienti sindacali peronisti, “seppur in chiave tattica”.

Già nel 1963 avviene l’incontro tra le due formazioni: quello che il FRIP mette sul terreno della determinazione e dell’organizzazione ferrea, la PO lo mette come influenza tra i lavoratori su un terreno più vasto del Tucumàn. Tra l’altro Moreno, di lì a poco, si deciderà a finirla con l’entrismo politico nel movimento peronista. (O. Coggiola, Op. cit.)

Attraverso percorsi diversi le due correnti si sono entrambe emancipate dal complesso di inferiorità verso il peronismo. Non si può dire che l’abbiano definitivamente superato (e lo si vedrà negli anni a venire), però è abbastanza diffusa al loro interno l’idea (corroborata dai fatti) che vi siano spazi percorribili per una politica comunista indipendente in Argentina.

In quel contesto di forte ripresa delle lotte proletarie e di discussione sulle forme di lotta (la repressione statale è durissima, spietata) matura l’acquisizione di trasformare la guerriglia di stampo guevarista in guerriglia urbana (sullo stile dei Tupamaros uruguagi).

Se per PO la violenza è parte di un incrudimento delle lotte operaie nella prospettiva dello sciopero generale “insurrezionale”, per il FRIP essa assume una valenza strategica: affrancatrice, anticipatrice della presa di coscienza rivoluzionaria…”oltre ad essere uno strumento imprescindibile per la formazione militare dei quadri, in attesa dell’estendersi del conflitto e dei nuovi compiti che ne sarebbero scaturiti.” (Morlacchi, Op. cit.)

Come si vede, il bagaglio storico della formazione anarco-sindacalista delle avanguardie di classe pesa eccome nella implementazione degli strumenti di lotta. Con tutti i suoi pregi ed i suoi limiti.

Se essa infatti garantisce un grado di reattività e di radicalizzazione più che mai opportune di fronte al livello dello scontro che va delineandosi, tende però d’altro canto a militarizzare in maniera forse troppo pervasiva un movimento che non può ancora definirsi compiutamente rivoluzionario, operante in una situazione già matura dal punto di vista rivoluzionario.

Coggiola mette più volte in evidenza come la sinistra argentina sia troppo confinata nei settori studenteschi, limitandosi a influenzare qualche avanguardia di fabbrica. Il che è troppo poco se lo rapportiamo al livello dello scontro ed alle masse proletarie che questo mette in moto. La maggioranza operaia è ancora peronista.

Comunque, nel maggio del 1965, con la fusione tra PO e FRIP, nasce il PRT (Partido Revolucionario de los Trabajadores).

Sono 150 i delegati che partecipano al suo primo Congresso, in cui prevale la linea “morenista”. “La Verdad” è il periodico di partito.

Si formano le prime strutture semiclandestine (di addestramento militare e di logistica interna) in una situazione incandescente: gli zuccherifici sono in lotta contro la chiusura di 12 stabilimenti e il licenziamento di 200 mila lavoratori. Si occupano gli edifici e ci si scontra ai cancelli con polizia ed esercito. Sorgono, con il concorso delle varie sigle di opposizione, i “Gruppi di Autodifesa Operaia”. La guerriglia urbana è una realtà:

Enormi fionde comparivano nelle retrovie dei cortei e scagliavano molotov da un litro fino a 120 metri di distanza. Le fionde avevano una base di cemento armato ed erano realizzate con le camere d’aria delle automobili e dei camion.” (Morlacchi). Esordiscono i “miguelitos”, chiodi a tre punte sparsi per strada atti a bucare le gomme dei blindati…”per impedire l’attacco della polizia a cavallo, si preparavano impacchi di pepe nero che, liberati in aria, facevano imbizzarrire i cavalli e – soprattutto – la polizia.” (Ibidem)

Sono descrizioni che già prefigurano ciò che avverrà negli anni a venire. Ma al di là delle tecniche guerrigliere e della eccessiva fiducia che i rivoluzionari riserbano al connubio rivoluzione permanente/guerriglia contadina (sul modello cubano e cinese), il fatto politicamente rilevante è la messa in moto di una massa operaia mai vista nel paese. E non dietro ad un colonnello come nel 1943, ma dietro a piattaforme di lotta classiste, elaborate nel vivo della lotta contro Stato e padronato (interno ed esterno). Che poi in molti di loro ancora identifichino tale lotta col ritorno di Peròn è altro discorso.

Conviene comunque precisare che Peròn, subodorando la marcia trionfale del suo ritorno in patria, si schiera decisamente col “gangsterismo” della destra sindacale di Vandor, dando addosso a Ongaro. Ma se la CGT è per la pace sociale, la CGTA diventa protagonista del nuovo corso di agitazioni, e con essa i numerosi Consigli di Fabbrica e sindacati “di base” nati (o rinati) in tal frangente.

Uno di questi è il FOTIA (Federacìon Obrera Tucumana de la Industria del Azùcar). Il leader è Leandro Fote (prima FRIP poi PRT). Il programma che diffonde è “contro il governo, per il potere proletario e popolare”. (Morlacchi) Si candiderà al parlamento presentando una legge contro le industrie zuccheriere, per il loro esproprio senza indennizzo.

Diez cita anche il sindacato “Luz y Fuerza”, guidato da Augustìn Tosco, ritenuto “il più valoroso sindacalista argentino della seconda metà del secolo”. Sarà in prima fila nella insurrezione di Cordoba. Alla FIAT dello stesso capoluogo, centro nevralgico dell’industria dell’auto, prende forma un altro sindacato: il SITRAC-SITRAM di Carlos José Massera, attestato su una chiara linea di classe, ostile a padroni, militari e burocrati della CGT.

Sono solo alcuni esempi del montare dell’insofferenza operaia che rompe gli argini del controllo sociale.

Il 12 maggio ’69 il governo Onganìa vara un decreto che fa passare l’orario di lavoro settimanale da 44 a 48 ore. Inoltre si aumentano le tasse universitarie, facendo esplodere una bomba a orologeria. Nelle piazze gli studenti si uniscono agli operai, coinvolgendo pure settori dei ceti medi che nelle province si ribellano volentieri al “centralismo” dei militari.

Il 29 maggio Cordoba, città che conta un milione di abitanti, insorge.

Quasi tutti gli storici concordano nel valutare in almeno 50 mila i manifestanti, i quali in pratica occupano la terza città del paese. La fabbrica Xerox è data alle fiamme. La Forza Pubblica uccide un lavoratore. Sorgono le barricate nel mentre gli scontri, anche armati, tra popolazione e unità repressive si diffondono in tutto il centro urbano. La parola d’ordine è: “Via Onganìa!” La lotta è contro il governo. La lotta è politica. Intervengono esercito e aviazione. E’ il “Cordobazo”!

Le vittime complessive variano a seconda delle fonti (si va da 14 a 30 morti, non si hanno dati certi). Centinaia i feriti e gli arrestati, tutti condotti davanti ai Tribunali militari.

Gli accusati si difendono citando la Dichiarazione della Conferenza Episcopale di Medellìn: “La violenza, quando è dei poveri, è un atto di giustizia.” (Morlacchi)

Corradi (Op. cit.) annota come tra gli insorti vi siano “frange significative del clero” e come lo scontro aperto porti socialisti, radicali, comunisti (del PCA), cristiano-sociali “a rompere col passato e riconciliarsi col peronismo.”

L’insurrezione di Cordoba, repressa nel sangue, da il là a tutta una serie di rivolte che investono Rosario (il “Rosariazo”, 250 mila in piazza), Tucumàn, La Plata, Mendoza…

Il 30 giugno un commando peronista uccide il capo della CGT, il collaborazionista Vandor.

Onganìa decreta lo stato d’assedio e chiude le sedi dei sindacati combattivi.

Si spalancano le porte di una guerra civile senza esclusione di colpi.

Articoli precedenti:
Argentina 1. L’ARGENTINA PRIMA DI PERON
Argentina 2. L’ASCESA DI PERON
Argentina 3. IL REGIME PERONISTA
Argentina 4. LA CADUTA DI PERON
ARGENTINA 5: “REVOLUCION LIBERTADORA”
L’ARGENTINA DI ONGANIA: I RETROTERRA DI UNA CRISI (6)