Il no global dov’è finito?

SLOGAN FUORI MODA La riapertura domani della passerella di Davos porta alla mente quella “contropasserella” dei no-global che negli anni scorsi faceva da eco a ogni raduno internazionale: da Seattle a Praga a Genova, ogni affastellarsi dei potenti della Terra era contestato da uno stuolo nutrito che trovava nel “no” il collante di una protesta facile e variopinta.
Dove sono finiti i noglobal? A che cosa è dovuto il loro insolito silenzio? Fame, miseria, disuguaglianze, sfruttamento continuano a rigare questo mondo complicato; né è cambiato il rispettabile retroterra intellettuale della protesta: il mondo si è globalizzato nelle dimensioni “private” (economiche e finanziarie) mentre latitano le dimensioni “pubbliche” (sovrannazionalità e collaborazione) necessarie per governare la globalizzazione. No, il collasso dei no-global è dovuto a spesse ragioni interne e a sottili ragioni esterne. Le ragioni interne stanno nel fatto che il movimento era in realtà un’armata sdrucita che andava dai pensosi ai facinorosi, radunando attorno a parole d’ordine abbastanza semplici da potersi scrivere su una T-shirt tutti gli oppositori degli ordini costituiti, dagli orfani della rivoluzione ai mistici dell’utopia. Le ragioni esterne stanno nella sempre maggiore evidenza dei benefici della globalizzazione. L’ascesa di Paesi poveri come Cina e India, gli studi della Banca mondiale che correlano crescita e apertura agli scambi, la lotta alla malaria che diventa “bene pubblico globale” (la dimensione intellettuale della globalizzazione come leva di riforma), lo stesso tsunami che riavvicina nel dolore gli abitanti del villaggio globale… tutto questo rende chiaro che la globalizzazione è un fiume che irriga le piane riarse della povertà. Come tutti i fiumi, può straripare, e quindi bisogna costruire argini e scavare il letto. Il bene e il male della globalizzazione sono diventati più chiari. Ma è anche diventato difficile scriverli su una T-shirt.

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