CORRIERE Sab. 3/2/2006 FRANCO
VENTURINI
L’unità dell’Occidente e i diversi interessi
Al di là della proclamata unità d’intenti
fra EUROPA, USA, RUSSIA e CINA, ogni potenza ha interessi diversi in IRAN (UE,
ma soprattutto CINA e RUSSIA hanno fatto forti investimenti) o contro di esso
(USA): l’unità per fermare la corsa nucleare iraniana è più apparente che
reale.
I più ottimisti dicono che Mahmoud
Ahmadinejad ha fatto un miracolo: ha ricreato l’Occidente, ha sovrapposto ai
vecchi dissidi iracheni una nuova unità transatlantica contro le ambizioni
nucleari dell’Iran e ha persino allargato i confini dell’alleanza facendovi
entrare la Russia e la Cina. La marcia di Teheran verso la prima atomica sciita
(il primato islamico appartiene già al Pakistan) spaventa in effetti quasi
tutti. Ma davvero l’Occidente è compatto, davvero Mosca e Pechino lo
spalleggiano? Più esatto sarebbe ricordare quel che Ciu En-lai diceva ai tempi
della prima distensione Usa-Urss: «Dormono nello stesso letto, ma non fanno gli
stessi sogni». Gli anglo-franco-tedeschi, gli americani e i russo-cinesi
decideranno oggi a Vienna di far rapporto al Consiglio di sicurezza dell’ONU
sulla questione iraniana. Con qualche interessante intesa supplementare: il
deferimento formale al Consiglio, se ci sarà, comporterà nuove consultazioni e
non avrà luogo prima del 6 marzo; fino ad allora verrà offerta a Teheran una
«ultima occasione» negoziale; in assenza di accordo sarà il Consiglio (dove
Russia e Cina hanno il veto) a valutare ulteriori passi. La cornice comune c’è,
ma il quadro è incompleto. Tanto più che al riparo dalle fanfare unitarie
emergono posizioni distinte e distinti interessi.
L’America dal ’79 non ha rapporti con Teheran, e nel suo ruolo di
superpotenza si erge a difesa di quanto resta del regime di non proliferazione
nucleare. Washington sa bene che un Iran con l’atomica stuzzicherebbe le
ambizioni dell’Arabia Saudita, dell’Egitto, forse un giorno dell’Iraq, trasformando
il Medio Oriente in una regione ancor più instabile di quanto già non sia.
Inoltre George Bush deve dimostrare che il pantano iracheno non paralizza gli
Usa, e vuole confermare la sua stretta alleanza con Israele tenendo d’occhio
nel contempo una possibile risposta unilaterale dell’aviazione di Gerusalemme.
Non stupisce dunque che da Oltreatlantico venga una linea di intransigenza.
Gli europei (al netto dei malumori che la formula dei «Tre» suscita, per
esempio in Italia) sono formalmente sulla stessa lunghezza d’onda. Ma gli
accenti, gli umori e soprattutto le speranze sono diversi. È forte la
contrarietà all’ipotetico e non facile uso della forza. Si caldeggia una
«soluzione diplomatica». E poi, dietro la facciata, non possono non pesare
gli interessi. Dieci miliardi di dollari investiti nell’esplorazione
petrolifera (con l’Eni in prima fila), un quarto delle esportazioni iraniane di
petrolio consumate in Europa, un interscambio commerciale robusto che vede
Germania e Italia contendersi il primato. Non meraviglia che gli europei
guardino con timore all’ipotesi delle sanzioni economiche, che potrebbero
consolidare il nazionalismo iraniano e innescare una crisi petrolifera
mondiale.
La Russia e la Cina. Putin costruisce centrali nucleari in Iran, e a Teheran
ha persino venduto missili antiaerei: il suo obbiettivo è di salvare gli affari
e di ergersi a salvatore della comunità internazionale, convincendo Teheran ad
arricchire l’uranio per uso civile in territorio russo. Questa soluzione
piacerebbe anche a Pechino, che importa dall’Iran il 12 per cento del suo
petrolio e ha concluso da poco un accordo energetico trentennale con Teheran.
Se si arrivasse alle sanzioni, come voterebbero Russia e Cina?
Su ogni potenziale crepa nel muro antinucleare l’Iran di Ahmadinejad conta
di far leva. Il miracolo, quello vero e auspicabile, sarebbe che non ci
riuscisse.