Il futuro transatlantico (II)

Germania, politica estera, Usa, rel. potenza

Gfp     120806
Il futuro transatlantico (II)

–   [Dibattito interno Germania su relazioni transatlantiche/Russia, Cina]

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–   Secondo la tedesca SWP (Fondazione Scienza e Politica) ci sono forti tensioni tra Germania e Usa, sullo sfondo le crescenti difficoltà economiche americane.

–   In occasione del G20, DGAP (Società tedesca per la politica estera) rilevava un visibile calo della manifestazione di potenza degli Usa, che premono su Germania e UE per maggiori consumi interni e importazioni di merci americane e maggiore partecipazione agli interventi militari, con uomini, ma anche con investimenti per la ricostruzione in Irak, Afghanistan e Libia.

o   Se la Germania non partecipa ai piani bellici Usa rischia di perdere influenza, e gli Usa si rivolgeranno altrove o faranno da soli.

–   Date le più dure le posizioni americane verso la Cina, da contenere e circondare allargando la Nato verso l’Asia. Gli Usa cercano a volte con la Germania e a volte in rivalità con essa una maggiore cooperazione con i concorrenti asiatici della Cina (India e Giappone, Asean).

–   La Germania deve rafforzare i legami con questi paesi, che presentano anche una componente militare.

–   In vista delle elezioni presidenziali negli USA, le conclusioni di un’analisi commissionata dalla cancelleria tedesca a SWP sollecitano l’intensificazione della cooperazione Germania-Usa: gli Usa continuano ad essere la maggiore potenza mondiale, indipendentemente dalla rielezione di Obama o dalla vittoria del repubblicano Romney.

o   SWP: Nell’establishment politico internazionale prevale l’incertezza sulla capacità degli Usa di mantenere la posizione leader nella politica internazionale, soprattutto a causa dell’ascesa della Cina;

o   dalla forza economica americana dipende in gran parte il ruolo internazionale degli Usa:

o   dal 2007 è molto alto il deficit strutturale degli Usa, passati nel 2008/2009 dal 1° al 5° posto mondiale dell’indice per la competizione globale del Forum economico internazionale;

o   Washington ha seri problemi economici interni, evidenziati dalla crisi economica iniziata nel 2008: sul sistema economico pesano disfunzioni nel sistema educativo, crescente ineguaglianza sociale, disoccupazione in forte aumento e povertà dilagante, enorme debito statale e l’alto deficit, infrastrutture sempre più malmesse:

o   nei paesi OCDE solo Messico e Turchia hanno un divario sociale maggiore: circa 46 milioni di americani vivono in povertà, particolarmente colpiti gli afro-americani e gli ispanici;

o   in 1/3 delle famiglie ispaniche non c’è cibo a sufficienza

o   secondo l’American Society of Civil Engineers 1 ponte su 4 negli Usa è a rischio di caduta o non utilizzabile;

o   la cattiva situazione delle strade rallenta o rende più costoso il trasporto delle merci;

o   forti carenze della rete elettrica mettono in discussione a lungo termine l’affidabilità e il costo della fornitura all’industria.

–   Per ora gli Usa approfittano del particolare ruolo del dollaro, moneta di riferimento nell’economia internazionale, e fin quando lo sarà non rischiano una crisi nella bilancia dei pagamenti;

o   causa la crisi dell’eurozona, l’euro è per ora fuori gioco come valuta internazionale concorrente; non può ancora esserlo il renmibi, non liberamente convertibile.

–   Difficoltà per gli Usa anche per la forte polarizzazione politica interna: la radicalizzazione della destra del movimento “tea Party” non consente compromessi per una serie di importanti questioni politiche.

–   A tutto ciò si aggiungono inevitabili riduzioni del bilancio militare, attualmente circa 1/5 del bilancio complessivo; il baricentro delle attività militari si sposterà verso l’Asia, per cui 2 delle 4 brigate americane stazionate in Europa, dopo l’Afghanistan non torneranno nelle basi in Germania;

o   dal 2001 la spesa militare americana è aumentata di oltre l’805, contro il 32,5% del resto del mondo;

o   nel 2011 ha superato i $700MD, compresi i costi diretti per le guerre.

–   Secondo SWP, nonostante risparmi e trasferimenti di forze militari, per il prossimo decennio nessun altro paese sarà in grado di competere con le forze militari americane.

–   I problemi suddetti hanno inasprito il dibattito nell’establishment e nei media Usa sul “declino americano”, anche per il diffondersi nell’opinione delle preoccupazioni sul futuro della potenza americana, passata dal 33% nel 2009 al 46% nel 2011.

o   Da un sondaggio in 22 paesi del 2011, in 15 la maggioranza degli intervistati si è detta convinta che la Cina ha già tolto o toglierà a breve agli USA la posizione di maggiore potenza mondiale, posizione diffusa anche tra le elite tedesche.

o   Per SWP, sarebbe tuttavia una fase di debolezza, che gli Usa sapranno superare, come già hanno dimostrato in passato,

o   inoltre da sola la UE non è sufficientemente forte per mantenere un ordine internazionale favorevole ai propri interessi.

–   Altre frazioni della politica estera tedesca sono invece favorevoli a un maggior distacco dagli Usa e ad un avvicinamento a Russia e Cina, per avere un ruolo autonomo come potenza mondiale.

Gfp      120806

Die transatlantische Zukunft (II)

06.08.2012
WASHINGTON/BERLIN

–   (Eigener Bericht) – Mit Blick auf die Präsidentenwahlen in den Vereinigten Staaten sprechen sich Berliner Regierungsberater für eine Intensivierung der deutsch-amerikanischen Kooperation aus. "In der internationalen Politik" herrsche "momentan große Unsicherheit, ob die USA ihre Führungsposition in der Welt aufrecht erhalten können", heißt es in einer aktuellen Studie der Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP). Washington habe gravierende ökonomische Probleme und Schwierigkeiten mit einer starken politischen Polarisierung im Inland; hinzu kämen unvermeidliche Kürzungen im Militärhaushalt.

–   Mit Blick auf den schnellen Aufstieg Chinas habe sich inzwischen in so manchen Ländern die Meinung durchgesetzt, die Volksrepublik werde die USA in naher Zukunft als führende Weltmacht ablösen.

–   Während andere Fraktionen der deutschen Außenpolitik auf eine stärkere Lösung von den USA und auf eine engere Anbindung an Russland und China orientieren – zur Durchsetzung einer eigenständigen Weltmachtrolle -, spricht sich die aktuelle SWP-Studie für eine noch engere Zusammenarbeit mit Washington aus. Die USA hätten oft genug bewiesen, dass sie nach Schwächephasen wieder aufsteigen könnten, heißt es in dem Papier; zudem sei die EU allein nicht stark genug, eine für ihren Wohlstand günstige Ordnung weltweit aufrechtzuerhalten.

Führungsanspruch ungebrochen

–   Wie es in einer aktuellen Studie der vom Bundeskanzleramt finanzierten Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP) heißt, sei "der amerikanische Anspruch auf internationale Führung" nach wie vor "ungebrochen".

–   Dies gelte völlig unabhängig davon, ob US-Präsident Barack Obama im November 2012 wiedergewählt werde oder ob er sein Amt an den Republikaner Mitt Romney abgeben müsse.

–   Allerdings werde "Amerikas traditionelle Führungsrolle" in zunehmendem Maße in Frage gestellt. Man beobachte im globalen Polit-Establishment "momentan große Unsicherheit", ob die USA ihre "Führungsposition in der Welt aufrechterhalten können". Dabei treffe "die Auffassung, die amerikanische Vormachtstellung befinde sich im Niedergang", auf "großen Widerhall". Ursache sei vor allem der Aufstieg der Volksrepublik China.

o    Laut einer Umfrage aus dem Jahr 2011 sei "in 15 von 22 untersuchten Ländern eine Mehrheit der Bevölkerung" überzeugt, "dass China die USA als führende Supermacht ablösen werde oder bereits abgelöst habe".[1] Die Ansicht, Beijing werde in Zukunft ein maßgeblicher Machtfaktor der Weltpolitik sein und die Dominanz Washingtons in Frage stellen, ist auch unter den deutschen Eliten verbreitet (german-foreign-policy.com berichtete [2]).

American decline

–   Anders als in früheren Schwächephasen der Vereinigten Staaten wird, wie die SWP berichtet, ein möglicher dauerhafter Niedergang auch im einheimischen Establishment umfassend und kontrovers diskutiert.

–   Vor allem die seit 2008 dominierende Wirtschaftskrise habe gravierende innere Probleme äußerst "schmerzvoll ins allgemeine Bewusstsein gerückt".[3] Diese reichten tatsächlich "von einer zunehmend maroden Infrastruktur über Schwächen im Bildungssystem und eine wachsende soziale Ungleichheit bis hin zu einer gigantischen Staatsverschuldung".

–   Sie hätten mittlerweile auch in Washington eine größere "Schärfe in die Debatte" über den drohenden amerikanischen Abstieg gebracht. "Die Debatte über den ‘American decline’" in Establishment und Medien habe inzwischen dazu geführt, dass auch in der breiten Öffentlichkeit "die Sorge um die Zukunft der USA wieder zunimmt". Einer Umfrage zufolge äußerte im Jahr 2009 gut ein Drittel der Befragten Bedenken, die Vereinigten Staaten könnten ihre globale Führungsrolle verlieren. Zwei Jahre später waren es schon 46 Prozent.

Gravierende Probleme

–   Wie die SWP urteilt – ähnlich hatten sich bereits zuvor deutsche Außenpolitik-Experten geäußert (german-foreign-policy.com berichtete [4]) -, stehen die Vereinigten Staaten derzeit tatsächlich vor gravierenden "innenpolitischen und binnenwirtschaftlichen Herausforderungen". Dies gelte nicht nur für Blockaden in den politischen Institutionen, die durch die wachsende Polarisierung im Polit-Establishment verursacht worden seien.

–   In der Tat macht die Radikalisierung rechter Milieus in der sogenannten Tea Party-Bewegung inzwischen Kompromisse in einer Reihe bedeutender politischer Fragen unmöglich. Darüber hinaus diagnostiziert die SWP jedoch auch ernste Probleme in der US-Ökonomie und Umbrüche in den Streitkräften, die durchaus das Potenzial besäßen, sich langfristig auf die globale Führungsposition der Vereinigten Staaten auszuwirken.[5]

Einsturzgefährdet

–   Dabei kommt der SWP zufolge der Entwicklung der amerikanischen Ökonomie eine zentrale Rolle zu. "Welche Rolle die USA im internationalen System spielen können, hängt maßgeblich von ihrer wirtschaftlichen Stärke ab", heißt es in der aktuellen Studie; dabei habe die bereits seit dem Jahr 2007 schwelende Wirtschaftskrise "immense strukturelle Defizite in den USA offenbart".

–   Das Land sei nicht nur im Global Competitiveness Index des Weltwirtschaftsforums von Platz 1 im Zeitraum 2008/2009 auf Platz 5 abgerutscht.

–   Auch wirkten sich die deutlich gestiegene Arbeitslosigkeit, eine grassierende Armut und wachsende Missstände im Bildungswesen negativ auf die Wirtschaftskraft des Landes aus.

–   Gravierende Probleme gebe es darüber hinaus im Bereich der Infrastruktur. So sei laut der American Society of Civil Engineers "jede vierte Brücke in den Vereinigten Staaten einsturzgefährdet oder funktionsuntüchtig".

–   Der schlechte Zustand der Straßen führe dazu, dass der "Transport von Waren verlangsamt und verteuert" werde. Erhebliche Mängel im Stromnetz stellten auf lange Sicht die zuverlässige und kostengünstige Versorgung der Industrie in Frage.

–   Schließlich seien das hohe Haushaltsdefizit und die gigantische Staatsverschuldung auf lange Sicht eine Gefahr für die US-Ökonomie.

–   Vorläufig profitierten die USA allerdings noch von der "besonderen Rolle des Dollars in der Weltwirtschaft": "Der Dollar ist die weltweite Leitwährung, die USA zahlen ihre Importe in Dollar und verschulden sich in ihrer eigenen Währung." Solange dies gelte, drohe ihnen "keine Zahlungsbilanzkrise".

–   Der Euro falle aufgrund der Eurokrise als rivalisierende Leitwährung vorläufig aus; der chinesische Renminbi komme, da er nicht frei konvertibel sei, ebenfalls noch nicht in Frage.[6]

Eine andere Liga

–   Umbrüche stehen der SWP zufolge auch den US-Streitkräften bevor. Die Militärausgaben der USA seien seit dem Jahr 2001 um über 80 Prozent gestiegen, gegenüber 32,5 Prozent "im Rest der Welt".[7] Im Jahr 2011 hätten sie – inklusive der unmittelbaren Kosten für die Kriege – weit mehr als 700 Milliarden US-Dollar erreicht.

–   Zwar habe das amerikanische Militär "den steten Geldfluss" genutzt, um "sich umfassend zu modernisieren". Dennoch seien Kürzungen im Militärhaushalt mutmaßlich nicht zu vermeiden – schließlich komme derzeit rund ein Fünftel des US-Etats dem Militär zugute.

–   Dabei habe Washington erklärt, den Schwerpunkt seiner militärischen Aktivitäten in Zukunft nach Asien zu verlagern; so würden "zwei der vier in Europa stationierten Kampfbrigaden des amerikanischen Heeres nach ihrem Einsatz in Afghanistan nicht auf ihre Stützpunkte in Deutschland zurückkehren".

–   Trotz wohl unumgänglicher Einsparungen und trotz Kräfteverlagerung "spielen die USA auf absehbare Zeit militärisch in einer anderen Liga als alle tatsächlichen und potentiellen Rivalen", hält die SWP fest: Ein Vergleich zeige, "dass in den nächsten Jahrzehnten kein anderes Land mit dem amerikanischen Militär konkurrieren kann".

Rückkehr auf die Weltbühne

–   In Berlin wird seit geraumer Zeit diskutiert, wie auf den Aufstieg Chinas und die ökonomische Schwächephase der USA, die vor allem durch die militärische Stärke Washingtons aufgefangen wird, zu reagieren sei.

–   Während eine Fraktion im außenpolitischen Establishment für eine stärkere Hinwendung zu Russland und China und die Platzierung der EU als eigenständige Macht in einer "multipolaren Weltordnung" plädiert (german-foreign-policy.com berichtete [8]), sprechen sich die Autoren der SWP-Studie für eine engere Zusammenarbeit mit den Vereinigten Staaten aus. Die EU sei aufgrund mangelnder Schlagkraft "nicht imstande", eine "Ordnungsfunktion im internationalen System selbst zu übernehmen"; es liege daher im deutsch-europäischen Interesse, "die USA bei der Wahrung ihrer Rolle als internationale Ordnungsmacht zu unterstützen". Dazu gehöre nicht zuletzt die Stärkung der US-Wirtschaft durch eine intensivere transatlantische Wirtschaftskooperation. Es sei durchaus möglich, die bisherige transatlantische Ordnung mit all ihren Vorteilen – insbesondere auch für die Bundesrepublik – zu erhalten, heißt es bei der SWP: "Oft bedarf es nur eines kleinen Anstoßes, damit die USA auf die Weltbühne zurückkehren."[9]

[1] Stormy-Annika Mildner, Henriette Rytz, Johannes Thimm: State of the Union[e]. Innenpolitische und binnenwirtschaftliche Herausforderungen für die Führungsrolle der USA in der Welt, SWP-Studie S16, Juli 2012

[2] s. dazu Der wankende Hegemon

[3] Stormy-Annika Mildner, Henriette Rytz, Johannes Thimm: State of the Union[e]. Innenpolitische und binnenwirtschaftliche Herausforderungen für die Führungsrolle der USA in der Welt, SWP-Studie S16, Juli 2012

[4] s. dazu Die transatlantische Zukunft

[5], [6], [7] Stormy-Annika Mildner, Henriette Rytz, Johannes Thimm: State of the Union[e]. Innenpolitische und binnenwirtschaftliche Herausforderungen für die Führungsrolle der USA in der Welt, SWP-Studie S16, Juli 2012

[8] s. dazu Russlands Erdgas-Botschafter und Europas Abstieg (III)

[9] Stormy-Annika Mildner, Henriette Rytz, Johannes Thimm: State of the Union[e]. Innenpolitische und binnenwirtschaftliche Herausforderungen für die Führungsrolle der USA in der Welt, SWP-Studie S16, Juli 2012

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Die transatlantische Zukunft

20.02.2012
BERLIN/WASHINGTON

–   (Eigener Bericht) – Mit Blick auf die diesjährige Präsidentenwahl in den USA diagnostizieren deutsche Regierungsberater erhebliche Spannungen in den Beziehungen zwischen Berlin und Washington. Hintergrund sind gravierende ökonomische Schwierigkeiten der Vereinigten Staaten, die um einschneidende Sparmaßnahmen nicht mehr umhinkommen; zudem ist unklar, wie lange der Dollar seine weltweite Sonderstellung noch halten kann. Bereits beim letzten G20-Gipfel habe sich gezeigt, dass "die Machtfülle der USA" aufgrund der chronischen Schwäche ihrer Wirtschaft "spürbar geschrumpft" sei, urteilt ein Experte von der Deutschen Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP).

–   Die US-Regierung werde daher weiterhin Druck auf Deutschland und die EU ausüben, in größerem Umfang amerikanische Waren abzunehmen, und auf einer erheblich stärkeren Beteiligung an Militärinterventionen bestehen.

–   Zudem sei wegen des härteren US-Kurses gegenüber Beijing damit zu rechnen, dass Washington auf einer formellen oder informellen NATO-Erweiterung nach Asien bestehen werde – zur Einkreisung Chinas.

Eine verlorene Generation

Hintergrund der aktuellen Verschiebungen in den Beziehungen zwischen Berlin und Washington sind schwerwiegende ökonomische Schwierigkeiten in den Vereinigten Staaten.

–   Wie Josef Braml, wissenschaftlicher Mitarbeiter des Programms USA/Transatlantische Beziehungen der Deutschen Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP), in einer aktuellen Analyse schreibt, habe die Finanz- und Wirtschaftskrise die USA seit 2008 hart getroffen. So sei die Arbeitslosigkeit stark gestiegen. Die jüngere Generation, in "oftmals maroden Bildungseinrichtungen" nur schlecht ausgebildet, sei nicht in der Lage, "im erforderlichen Umfang zum Bruttonationaleinkommen beizutragen".

–   Furcht mache sich breit, "dass die Jugendlichen von heute einer ‘verlorenen Generation’ angehören könnten". Eine "kleine Elite" erhalte "überproportional viel vom Einkommenskuchen", während sich "sehr viele mit sehr wenig zufriedengeben" müssten.

–   Unter den OECD-Staaten klaffe nur in Mexiko und der Türkei die soziale Schere weiter auseinander. Rund 46 Millionen US-Amerikaner lebten in Armut, darunter insbesondere afro-amerikanische und hispanische Bevölkerungsteile.

–   "In einem Drittel der hispanischen Haushalte gibt es nicht mehr genügend zu essen", berichtet DGAP-Experte Braml. Die desolate soziale Situation verschlimmere zudem die ökonomische Perspektive: "Wenn nämlich stimmt, dass die amerikanische Wirtschaft zu zwei Dritteln durch Nachfrage, also vom Privatkonsum, angetrieben wird, dann ist die soziale Schieflage Gift für die wirtschaftliche Erholung."[1]

Drei Leitwährungen

–   Wie Braml weiter schreibt, betreibe Washington zur Krisenbewältigung derzeit vor allem zweierlei: Exportförderung, um den mangelnden Inlandskonsum zu ersetzen, und eine "lockere Geldpolitik", um die Staatsverschuldung per Inflationierung zu lindern. Auf die US-Exportförderung führt Braml das Bestreben der Obama-Administration zurück, die EU-Staaten, besonders auch Deutschland, zur Ausweitung des Inlandskonsums und damit auch der Einfuhr amerikanischer Produkte anzutreiben. Die lockere Geldpolitik hingegen untergrabe die Stellung des US-Dollar als weltweit dominierende Währung. Die chinesische Regierung, die in den nächsten zehn Jahren Shanghai als internationales Finanzzentrum etablieren wolle, strebe danach, die Alleinstellung des Dollar als Weltleitwährung in der nächsten Zeit zu unterminieren und die Gleichrangkeit dreier globaler Währungen zu erreichen: des Dollar, des Euro und des Renminbi. Tatsächlich haben China und Japan, die Volkswirtschaften Nummer zwei und drei weltweit, Ende 2011 vereinbart, ihre bilateralen Geschäfte nicht mehr über den Dollar, sondern direkt abzuwickeln. Damit könnten sie ihre Währungsreserven, "die sie bislang zu einem Gutteil den USA zur Verfügung gestellt haben", in Zukunft mehr "zum Wohle der eigenen Volkswirtschaften" einsetzen. Braml weist darauf hin, dass Beijing diesen Weg erst zu beschreiten begann, als seine Bemühungen endgültig gescheitert waren, sogenannte Special Drawing Rights – "Sonderziehungsrechte des Internationalen Währungsfonds" – "als supranationale Reservewährung aufzubauen". Diesen Versuch hatten insbesondere zwei um die eigene Hegemonie bemühte Mächte sabotiert – die USA und Deutschland.[2]

Koalition der Zahlungswilligen

–   Berlin werde sich, sagt DGAP-Experte Braml voraus, in Zukunft einem zunehmendem Drängen Washingtons gegenübersehen, dessen Haushalt, der krisenbedingt harten Sparzwängen ausgesetzt sei, mit einer stärkeren Beteiligung an den globalen westlichen Militärinterventionen zu entlasten. Dies könne durch die Entsendung einer größeren Zahl von Soldaten geschehen, aber auch durch eine stärkere finanzielle Kriegsbeteiligung oder zumindest durch umfangreichere Investitionen in den "langfristigen Wiederaufbau im Irak, in Afghanistan und in Libyen".

–   Auch die zukünftige US-Regierung werde sich bemühen, "eine ‘Koalition der Zahlungswilligen’ zu schmieden", sagt Braml voraus. Beteilige Berlin sich nicht, riskiere man, auf die US-Kriegspläne gar keinen Einfluss mehr nehmen zu können: Washington werde dann "seine außenpolitischen Ziele auf anderen Wegen durchsetzen, wenn nötig im Alleingang".[3]

Manöver in Südostasien

–   Die Sparzwänge beim Militär sind ganz besonders aufgrund der sich verhärtenden US-Chinapolitik von Bedeutung. Die Vereinigten Staaten bemühen sich – teils gemeinsam, teils auch in Rivalität zur Bundesrepublik [4] – um eine immer engere Kooperation mit asiatischen Konkurrenten Chinas.

–   Die Bindung an Japan etwa soll verdichtet werden. Indien haben die USA ein Atomabkommen gewährt und verlangen dafür "einen hohen Preis": New Delhi müsse "seine eigenständige und unabhängige Außenpolitik aufgeben und sich als strategischer Partner der USA als Gegengewicht zu China (…) positionieren".

–   Auch die Staaten des südostasiatischen Bündnisses ASEAN würden immer enger an die USA angebunden, berichtet Braml: ASEAN begrüße dies, da es die "Handlungsspielräume" der Mitgliedstaaten "nicht zuletzt gegenüber China" erweitere.

–   Dabei enthält die Kooperation auch eine militärische Komponente. Bereits 2007 hätten, schreibt der DGAP-Experte, die Vereinigten Staaten gemeinsam mit Indien, Japan, Singapur und Australien ein Seemanöver an der Straße von Malakka durchgeführt. Bei dieser handelt es sich um eine zentrale Seehandelsroute zwischen China und dem europäischen Westen. US-Experten erwarteten, dass Beijing versuchen werde, "die beiden anderen Seewege zum Indischen Ozean" zu sichern, die zwischen indonesischen Inseln verlaufende Sunda- und die gleichfalls indonesische Lombok-Straße. Dazu müsse China "eine gewisse Militärpräsenz im Seegebiet nahe der Nordküste Australiens" aufbauen.[5] Erst unlängst hat US-Präsident Obama angekündigt, in Nordaustralien Spezialkräfte des US-Militärs zu stationieren.[6]

Globalisierung der NATO

Beteiligt sich Berlin schon heute an der Aufrüstung prowestlicher Staaten Süd- und Südostasiens [7], so werde es, mutmaßt Braml, in Zukunft auch zu gegen China gerichteten bündnispolitischen Vorstößen der USA Stellung beziehen müssen. So forderten einflussreiche Kreise in Washington, die NATO habe sich aus einem transatlantischen Pakt "in eine globale Allianz freier Nationen" zu transformieren. "Demokratien wie Japan, Australien und Indien in die NATO einzubinden, würde nicht nur die Legitimität globaler Einsätze, sondern auch die dafür notwendigen personellen und finanziellen Ressourcen des Bündnisses erhöhen." Am Ende der Entwicklung könne eine "Allianz der Demokratien" stehen, ein erweiterter westlicher Kriegspakt, der schließlich "mit den Vereinten Nationen konkurrieren oder als Alternative bereitstehen" werde. Wie Braml in Erinnerung ruft, hat US-Präsident Obama den "prominenteste(n) Verfechter dieser Idee", Ivo Daalder, zum Botschafter der Vereinigten Staaten bei der NATO ernannt. Beim NATO-Gipfel im November 2010 seien neue "Partnerschaften" bereits ein zentrales Thema gewesen.

–   "Sollten die Europäer nicht bereit oder fähig sein, die ihnen zugedachten Lasten zu schultern", erklärt der DGAP-Experte über erweiterte militärische Aktivitäten Deutschlands und anderer EU-Mitglieder, "hätten sie weniger stichhaltige Argumente gegen eine Globalisierung der NATO" – per formeller Bündniserweiterung oder durch eine neue "Allianz der Demokratien".[8] Stimmen Deutschland und die übrigen EU-Staaten dieser NATO-Erweiterung jedoch zu, dann verliert die deutsch-europäische Position im Kriegsbündnis an Einfluss – eine Entwicklung, der Berlin kaum Vorschub leisten wird.

[1], [2], [3] Josef Braml: Amerika wählt, in: Hanns Seidel Stiftung: Politische Studien 441, Januar/Februar 2012

[4] s. dazu Auf nach Asien! (II) und Koalition gegen China

[5] Josef Braml: Die "Rückkehr der USA": Obamas Asienpolitik; ASIEN 122, Januar 2012

[6] s. dazu Das pazifische Jahrhundert

[7] s. dazu Kriegsstrategien (II), Offensiven gegen China (III) und Verbündete gegen Beijing

[8] Josef Braml: Die "Rückkehr der USA": Obamas Asienpolitik; ASIEN 122, Januar 2012

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