[Italiano-English]
La Cina è la prima o seconda potenza mondiale (a seconda di quali parametri si utilizzano). Dalla sua presenza e influenza è oggi impossibile prescindere in qualsiasi campo, dell’economia come della politica. Senza fragore ma con sistematicità lo Stato cinese, in parallelo con le imprese cinesi, è andato ampliando la sua sfera di influenza nel mondo, formando un proprio “campo” geopolitico concorrente con quello dei vecchi imperialismi occidentali + Giappone.
Per noi internazionalisti rivoluzionari è una consegna fondamentale, intoccabile che il “nemico è in casa nostra”: il capitalismo made in Italy, il suo apparato statale e, con esso, il suo sistema di alleanze, Unione europea e NATO. Ma si pone egualmente il problema di quale atteggiamento tenere nei confronti dei capitalismi e degli stati che sono fuori dall’Occidente, e gli contendono il primato nel mondo, a cominciare proprio dal capitalismo e dallo Stato cinese. Rifiutiamo infatti la logica “il nemico del mio nemico è mio amico” perché i nostri riferimenti non sono gli stati (capitalistici – altri stati nel mondo oggi non ne esistono), ma le classi sociali. E qui inizia una serie di interrogativi. Quali rapporti sociali di produzione e di riproduzione, quali classi sociali e rapporti tra le classi sociali, esistono oggi in Cina: rapporti sociali capitalistici, o di quale altro differente tipo? Si può sostenere, come fa il PCC e ripetono in Italia gruppi che si pretendono comunisti, che la Cina stia tuttora attraversando una transizione verso una forma sociale progressiva, non capitalistica, o addirittura “socialista”? Cos’è mai, alla fin fine, il “socialismo con caratteristiche cinesi”? La potenza cinese è davvero qualcosa di diverso dalle potenze occidentali, che sono espressioni del grande capitale? I criteri della politica interna ed estera dello Stato cinese sono diversi da quelli delle vecchie potenze capitalistiche? Oppure la Cina è un nuovo concorrente imperialista che è entrato – senza far chiasso, come suggeriva la volpe Deng -nella contesa, industriale, commerciale, finanziaria, militare per il dominio nel mercato mondiale, portando inevitabilmente lo scontro inter-capitalistico ad un livello più alto e distruttivo? E nel grande rivolgimento in atto nell’economia e nella politica mondiale, sempre più indirizzato verso un apocalittico sbocco bellico, quale è il ruolo del gigante proletario cinese, in Cina e nel mondo?
Quello che segue è il primo di una serie di articoli che vogliono dare una risposta a queste domande. Ed è opportuno anticipare qui la nostra risposta: sull’onda lunga della più grande rivoluzione contadina-popolare e della più sanguinosa guerra di liberazione nazionale della storia mondiale, in Cina si è progressivamente affermato, attraverso durissimi scontri di classe nei quali il proletariato cinese, pur battendosi con ardore, è uscito sconfitto, una forma peculiare (ma non troppo) di capitalismo, con forte ruolo centralizzatore dello Stato. In pochi decenni questo capitalismo che, visto il peso della storia pregressa ritiene tuttora utile camuffarsi da “socialismo alla cinese”, ha realizzato – attraverso lo sfruttamento della più numerosa classe operaia del mondo – una ciclopica accumulazione di capitali, di dimensioni mai viste nella storia, che ne fa di gran lunga la prima potenza industriale del mondo e l’ha spinta, da decenni ormai, a proiettarsi sul mercato mondiale. Sebbene ingenti investimenti di capitali occidentali abbiano contribuito a questo sviluppo, raffigurare l’attuale Cina alla stregua di una colonia o di una semi-colonia dell’Occidente, fa semplicemente sorridere: perché prescinde totalmente dalla realtà dei fatti, ed in particolare dalle specifiche condizioni che la Cina – a differenza della quasi totalità dei paesi ex-colonie – ha saputo e potuto imporre agli investitori esteri, grazie alla sua grande storia precedente il “secolo delle umiliazioni” (ancora al 1820 la Cina era di gran lunga la prima potenza manifatturiera del mondo) e all’impulso non ancora esaurito della sua rivoluzione anti-coloniale.
Questo tormentato e accelerato cammino di sviluppo capitalistico ha messo capo ad una tipica “maturazione imperialista” che sta facendo entrare la Cina in un’inesorabile rotta di collisione con le vecchie potenze imperialiste – una collisione che non ha certo come posta in gioco il socialismo internazionale, la rivoluzione sociale anti-capitalista, bensì il primato sul mercato mondiale. Totalmente demagogica, se espressa dai governanti di Pechino, semplicemente demenziale se espressa da “comunisti” metropolitani ignari di tutto, è la tesi che da questa contesa possa venir fuori un capitalismo multipolare “più equo e pacifico”, benefico anche per i lavoratori. Tutto ciò che da questa rotta di collisione può venir fuori, alla fine, è – lo si sta vedendo in Ucraina e in Palestina – un’accelerazione della corsa ad un nuovo scontro militare a scala globale.
No, non è sull’ascesa di questa nuova potenza del capitale che sta accelerando i tempi della guerra globale, che possono riporre le loro speranze la classe lavoratrice, le masse sfruttate e oppresse del mondo che hanno giustamente in odio la secolare dominazione degli imperialismi occidentali. E’ solo facendo affidamento sulla propria organizzazione indipendente, in Italia, in Cina e in tutto il mondo, battendosi contro lo sfruttamento del lavoro, la pretesa di dominare altre nazioni e la guerra. Noi internazionalisti puntiamo tutte le nostre fiches, anziché sull’ascesa industriale, diplomatica, militare della Cina capitalista, sull’ascesa politica del proletariato cinese e mondiale, sulla sua capacità di ridiventare protagonista della storia del mondo. E siamo certi che non ci deluderà.
Il DNA della Cina d’oggi: capitalismo, o cosa?
La questione della natura sociale della Cina presenta due corni, entrambi di fondamentale importanza. Il primo riguarda l’esistenza (o meno) di rapporti sociali capitalistici, e quindi l’esistenza (o meno) di una classe operaia sfruttata al pari di quella dei paesi capitalistici più maturi, e con la quale sia possibile un collegamento internazionalista.
Il secondo riguarda la natura dello Stato cinese, e dei gruppi economici cinesi: è la medesima degli Stati dei paesi a capitalismo maturo? Si può parlare di imperialismo cinese alla stregua di quello americano, italiano o giapponese?
Dalla risposta a queste domande deriva anche la collocazione rispetto ai conflitti economici, politici e militari che vedono coinvolta e sempre più protagonista la Cina. La tesi che svilupperemo in una serie di articoli risponde sì agli interrogativi sopra posti, anche se sull’ultimo si dovrà dialettizzare e storicizzare, nel senso che le trasformazioni degli ultimi decenni con la formazione di nuove concentrazioni di potere finanziario internazionale, con i rispettivi stati, modificano i caratteri del fenomeno “imperialismo” rispetto a un secolo fa.
In questo primo articolo cerchiamo di rispondere alla domanda se la Cina sia un paese capitalista oppure socialista, e la risposta che anticipo è che si tratta di una società pienamente capitalista. Il criterio di giudizio, sulla base del metodo marxista, non è quello che il governo o i dirigenti del Partito Comunista cinese al potere dicono della società cinese (“socialismo di mercato con caratteristiche cinesi”), ma è quello dei rapporti di produzione effettivamente esistenti. Non è il nome che si dà alle cose, ma la realtà effettiva delle “cose sociali”, dei rapporti sociali di produzione e di riproduzione. Se nel processo di produzione e riproduzione sociale vi sono due classi, con una maggioranza che per vivere vende l’uso della sua capacità lavorativa (la forza lavoro) a coloro che posseggono i mezzi di produzione; se questi a loro volta utilizzando la forza lavoro altrui nel processo produttivo si appropriano del prodotto e del plusvalore in esso realizzato, arricchendosi, vuol dire che siamo in una società capitalistica, con proletariato e borghesia quali classi fondamentali. Dove il proletariato è subordinato alla borghesia, che tranne che in momenti eccezionali detiene anche il potere politico, oltre a quello economico-sociale. Nel caso della Cina il PCC assume il ruolo di arbitro assoluto, apparentemente al di sopra delle classi. Vedremo come esso rappresenti in realtà gli interessi della classe dominante borghese nel suo complesso.
La realtà attuale d’altra parte è il risultato di profonde trasformazioni sociali e politiche aperte dalla Rivoluzione Cinese, che nel corso di tre quarti di secolo hanno portato la Cina, diventato uno dei paesi più poveri del mondo a seguito di un secolo di multiple e spietate aggressioni coloniali alle quali prese parte anche la “nostra” miserabile Italietta, a diventare la prima o seconda potenza capitalistica mondiale.
In prossimi articoli cercheremo di approfondire le caratteristiche specifiche di questo capitalismo, con particolare attenzione alle imprese a capitale statale, e dello Stato cinese, e quindi di dimensionare e qualificare il suo ruolo come potenza economica, politica e militare nel confronto internazionale. Ritorneremo infine a approfondire composizione, condizioni e lotte del proletariato cinese, il grande assente dalle analisi e dalle considerazioni di quanti tifano, da “compagni”, per l’ascesa e la vittoria della Cina capitalista.
Partiamo dai dati ufficiali su popolazione e lavoro.
Nel 2022 la Cina contava 1 miliardo 411 milioni 750 mila abitanti: per la prima volta in calo rispetto all’anno precedente (-850 mila), e per la prima volta superata dall’India al primo posto nella classifica mondiale. Un segnale dell’inizio del declino demografico, effetto tipico della “transizione demografica” di tutte le società capitalistiche avanzate, accelerato in Cina dalla “politica del figlio unico” imposta con modalità spietate tra il 1980 e il 2016 – che sta determinando l’ “invecchiamento precoce” della società cinese destinato a proseguire nei prossimi decenni, influenzando l’economia e la società cinese.
Tab. 1 – Popolazione urbana/rurale, 1978-2022
Milioni | Composizione % | Variaz. 1978-2022 | ||||||
1978 | 2000 | 2022 | 1978 | 2000 | 2022 | milioni | 1978 = 100 | |
Popolazione | 962,6 | 1267,4 | 1411,8 | 100 | 100 | 100 | 449,2 | 147 |
– urbana | 172,5 | 459,1 | 920,7 | 18 | 36 | 65 | 748,2 | 534 |
– rurale | 790,1 | 808,4 | 491 | 82 | 64 | 35 | -299,1 | 62 |
Tab. 1 evidenzia l’enorme processo di urbanizzazione avvenuto nel periodo: la popolazione urbana è cresciuta di 750 milioni di persone, moltiplicandosi per sei volte, quella rurale è diminuita di 317 milioni negli ultimi 22 anni. In due generazioni la Cina è passata da un paese rurale dove 8 abitanti su 10 vivevano in campagna, a un paese dove 2 su 3 vivono in città, con tutti i fenomeni che accompagnano un processo di urbanizzazione di questa velocità e dimensione.
Negli ultimi 20 anni si è rovesciato il rapporto tra occupati nelle zone rurali e nelle zone urbane: gli occupati delle aree urbane sono saliti da 273 a 470 milioni, quelle nelle zone rurali sono diminuiti da 470 a 270 milioni.
Tab. 2 – Occupati zone urbane e rurali
Dati in milioni di persone | 2004 | 2023 |
Occupati | 742,6 | 740,4 |
Occupati aree urbane | 272,9 | 470,3 |
Occupati aree rurali | 469,7 | 270,1 |
Il motore di questa immane migrazione interna dalle campagne alle città è stato il processo di accumulazione del capitale, prima con l’industrializzazione, quindi con lo sviluppo del settore terziario.
Tab. 3 – Occupati per macro-settori 1978-2022
Occupati | Milioni | Composizione % | Variaz. 1978-2022 | |||||
1978 | 2000 | 2022 | 1978 | 2000 | 2022 | milioni | 1978=100 | |
Totale occupati | 401,5 | 720,9 | 733,5 | 100 | 100 | 100 | 332,0 | 183 |
Agric, miniere | 283,2 | 360,4 | 176,6 | 71 | 50 | 24 | -106,6 | 62 |
Industria, costr. | 69,5 | 162,2 | 211,1 | 17 | 22 | 29 | 141,6 | 304 |
Servizi | 48,9 | 198,2 | 358,7 | 12 | 27 | 49 | 309,8 | 734 |
Gli occupati nel 2022 erano 733 milioni, di cui 177 milioni nell’agricoltura, 211 milioni nell’industria, 359 milioni nel terziario; nei 44 anni considerati gli occupati in agricoltura sono scesi dal 71% al 24% (da 7 su 10 a 1 su 4), dimezzando nell’ultima generazione (nel 1952 erano l’83,5% nel 1952); l’industria è salita dal 17% al 29%, triplicando in numero assoluto, con un aumento di 142 milioni di lavoratori; il terziario è cresciuto dal 12% al 49% moltiplicandosi per oltre 7 volte, con 310 milioni di nuovi lavoratori. Anche per la Cina come nelle maggiori metropoli sono i “servizi” a occupare il numero maggiore di lavoratori, ed è prevedibile che nei prossimi decenni i servizi accresceranno ulteriormente il loro peso a scapito dell’agricoltura, secondo un percorso seguito da tutti i paesi industrializzati, anche se con diversi dosaggi dei pesi di industria e servizi. Anticipiamo che quando si parla di “servizi” non si tratta in gran parte di lavoro improduttivo dal punto di vista capitalistico (come è per il pubblico impiego, i servizi finanziari e quelli alle famiglie), ma di produzione che non si traduce nella creazione di oggetti materiali, tangibili, ma di “servizi” pure venduti sul mercato come merci per ricavarne un profitto.
Lasciamo ad altro articolo l’analisi degli aspetti economici. Qui ci interessa analizzare la composizione sociale, la “formazione economico-sociale” della Cina, ufficialmente definita “Socialismo di mercato con caratteristiche cinesi”. Potremmo smontare l’ossimoro “socialismo di mercato” da un punto di vista teorico, a partire dal Marx della Miseria della filosofia, ma il nostro approccio qui è quello dell’analisi concreta (materialistica) della situazione concreta, sulla base, certamente, delle categorie socio-economiche marxiste.
Le statistiche cinesi sulle forze lavoro e sugli occupati sono molto carenti, soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, e non forniscono il numero dei lavoratori dipendenti distinto da quello degli occupati. Sembra che Lenin nel suo studio su Lo sviluppo del capitalismo in Russia disponesse, attraverso le statistiche zariste degli zemstvo, di materiale molto più approfondito e dettagliato di quanto sia oggi disponibile nelle statistiche cinesi. Un fatto indicativo di quanto poco rilievo lo Stato cinese dia alla classe operaia, e al proletariato in generale, quasi a volerne ignorare l’esistenza. Anche i contadini, i protagonisti della grande Rivoluzione Cinese, con la dissoluzione delle Comuni sono da decenni in balia del mercato, e lo Stato non vuol sapere più di tanto quanti di essi sono stati costretti ad emigrare in massa (circa 200 milioni) verso le grandi città e i poli industriali venendosi a trovare molto spesso, a causa delle leggi dello stato, in una condizione di irregolarità. Del resto già al Congresso del PCC nel 1956 Deng Xiaoping – il principale riferimento ideologico degli attuali dirigenti, aveva affermato che le classi sociali stavano scomparendo…
Le statistiche sull’occupazione forniscono però il dato dei lavoratori autonomi, ma solo fino al 2019, anno nel quale si ferma anche il dato delle società di persone (la forma societaria più semplice [1]). La Tab. 4 mostra che il numero maggiore degli addetti nelle aree urbane lavora proprio nelle società di persone: 146 milioni nel 2019, pari al 32% del totale degli occupati. Quindici anni prima, nel 2004 risultavano avere solo 30 milioni di addetti; in 15 anni sarebbero cresciute di 5 volte. Il numero di queste società di persone risulta essere di 30 milioni: se ciascuna avesse un singolo padrone, avremmo 30 milioni di padroncini con 116 milioni di dipendenti, meno di 4 per azienda. Una situazione molto vicina a quella della piccola impresa italiana.
L’altro settore in forte crescita è quello dei lavoratori autonomi: sono cresciuti di quasi 5 volte nei 15 anni, da 25 a 116 milioni (dal 9% al 26% del totale occupati) nelle aree urbane, mentre nelle aree rurali sarebbero 60 milioni – non è chiaro se inclusi o meno i contadini coltivatori diretti, per un totale di 176 milioni di lavoratori indipendenti pari a uno su 4 occupati, una composizione analoga a quella dell’Italia. Oltre alla quasi totale assenza di dati sull’occupazione rurale e agricola in particolare, la definizione stessa di “lavoratore in proprio” o indipendente è alquanto vaga[2], e sembra includere non solo i coadiuvanti, ma anche i dipendenti delle micro-imprese a carattere familiare. Il fatto che vengono rilevate solo le attività registrate e autorizzate fa intendere che vi è un sottobosco di attività non registrate né autorizzate, dove vige il lavoro irregolare, che sfugge alle statistiche ufficiali – fenomeno del resto ben noto in Italia come “lavoro nero”. Pur non potendo valutare, neppure qui, quanti siano i lavoratori autonomi veri e propri (che lavorano da soli, senza dipendenti), quanti i padroncini e quanti i dipendenti, emerge da questi dati l’esistenza di una diffusa piccola impresa che nelle aree urbane occupa quasi 300 milioni di persone[3], i due terzi della forza lavoro urbana cinese, dove i rapporti di lavoro sono quelli tipici padrone/operaio che ben conosciamo nella piccola impresa italiana (e in quelle cinesi trapiantate in Italia): sfruttamento e dispotismo padronale, con poche regole. Del “socialismo” qui neanche l’ombra…
Un’altra tipologia aziendale cresciuta nell’ultimo ventennio è quella delle “società a responsabilità limitata” (che possono essere costituite anche con capitale statale): in 20 anni sono passate da 14 a 65 milioni di addetti, raggiungendo il 14% del totale. Dimezza invece il peso delle imprese statali (dal 24,6% al 12,2% degli addetti, con una perdita di 10 milioni di lavoratori. In forte declino, fino a divenire irrilevanti, anche le imprese a “proprietà collettiva”, le cooperative e quelle a proprietà mista. Mantengono rilevanza, per quanto minoritaria quanto a numero di addetti, le società per azioni private (17 milioni di addetti, 3,7%), le società controllate da Hong Kong, Macao e Taiwan (11 milioni, 2,4%) e quelle controllate da capitali di altri paesi (11,6 milioni, 2,5%).
Tab. 4 – Addetti per tipologia della proprietà dell’impresa
Occupati aree urbane | Milioni di occupati | Composizione % | ||||||
2022 | 2019 | 2014 | 2004 | 2022 | 2019 | 2014 | 2004 | |
Totale | 459,3 | 452,5 | 397,0 | 272,9 | 100 | 100 | 100 | 100 |
Proprietà statale | 56,1 | 54,7 | 63,1 | 67,1 | 12,2 | 12,1 | 15,9 | 24,6 |
Proprietà collettiva | 2,4 | 3,0 | 5,4 | 9,0 | 0,5 | 0,7 | 1,4 | 3,3 |
Cooperative | 0,6 | 0,6 | 1,0 | 1,9 | 0,1 | 0,1 | 0,3 | 0,7 |
Proprietà mista | 0,2 | 0,1 | 0,2 | 0,4 | 0,0 | 0,0 | 0,1 | 0,2 |
Imprese a resp. limitata | 65,1 | 66,1 | 63,2 | 14,4 | 14,2 | 14,6 | 15,9 | 5,3 |
Società per azioni | 16,8 | 18,8 | 17,5 | 6,3 | 3,7 | 4,2 | 4,4 | 2,3 |
Società di persone | n.d. | 145,7 | 98,6 | 29,9 | 32,2 | 24,8 | 11,0 | |
Capitali di H K, Macao, Taiwan | 11,1 | 11,6 | 13,9 | 4,7 | 2,4 | 2,6 | 3,5 | 1,7 |
Capitali esteri | 11,6 | 12,0 | 15,6 | 5,6 | 2,5 | 2,7 | 3,9 | 2,1 |
Lavoratori autonomi | n.d. | 116,9 | 70,1 | 25,2 | 25,8 | 17,7 | 9,2 | |
Società di persone + lav. autonomi | 295,4 | 285,6 | 217,1 | 163,6 | 64,3 | 63,1 | 54,7 | 59,9 |
Il criterio marxista fondamentale per la definizione di una società è quello dei rapporti di produzione, ossia come entrano in rapporto tra di loro le persone attraverso il processo produttivo. Come evidente anche da queste statistiche, la produzione avviene sulla base di imprese, che dal punto di vista giuridico e amministrativo si distinguono per le varie forme di proprietà: statale, “collettiva”, “cooperativa”, e di privati (distinti in nazionali o esteri), nelle diverse formule giuridiche: società impersonali per azioni, società a responsabilità limitata (dove i proprietari non rispondono di eventuali debiti con il proprio patrimonio personale), e “imprese private” che nell’accezione cinese corrisponde alle nostre “società di persone”, dove i proprietari rispondono con il proprio patrimonio personale. Queste imprese, la cui direzione è in mano ai proprietari, si avvalgono dell’attività lavorativa prestata da lavoratori salariati, che cioè vendono la propria “forza lavoro” in cambio di un salario/stipendio.È una struttura sociale-organizzativa del tutto analoga a quella dichiaratamente capitalistica dei paesi europei e americani. La stessa vigente Legge sulle società della Cina, all’Art. 4 stabilisce che “Gli azionisti di una società, in qualità di apportatori di capitale, godono dei diritti di proprietà quali il godimento dei beni della società, l’adozione di decisioni importanti e la selezione del personale dirigente in base all’ammontare del rispettivo capitale investito nella società.” E all’Art. 5 che: “Una società, con tutti i suoi beni di persona giuridica, opera in modo indipendente ed è responsabile dei propri profitti e delle proprie perdite in conformità alla legge. Una società, sotto il controllo macroeconomico dello Stato, organizza la propria produzione e il proprio funzionamento in modo indipendente in base alla domanda del mercato, allo scopo di aumentare i benefici economici e la produttività del lavoro e di mantenere e aumentare il valore dei propri beni.” È chiaro che a una società (ai suoi proprietari, azionisti) viene riconosciuta “indipendenza” nella funzione di realizzare profitti e aumentare il capitale degli azionisti attraverso l’utilizzo del lavoro dei dipendenti. Ossia di appropriarsi della differenza tra il valore prodotto dal lavoro e il salario pagato alla forza lavoro utilizzata (quello che Marx chiamava “sfruttamento”).
Nel capitalismo il salario è un “costo”, con il segno meno, da comprimere per quanto possibile per incrementare il profitto, fine della produzione; nel socialismo la quota del prodotto sociale che sarà a disposizione dei produttori per il consumo individuale e sociale, sarà invece l’obiettivo da massimizzare, insieme alla riduzione del tempo di lavoro. Così come le decisioni su cosa produrre non saranno determinate dalla redditività, ma dai bisogni sociali.
Come in tutti i paesi capitalisti, al vertice del processo decisionale delle imprese è l’assemblea degli azionisti, che nomina il Consiglio di amministrazione. Solo nelle imprese a partecipazione statale, e dove ci sono due o più azionisti pubblici nel caso delle Srl, è prevista la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori ai CdA , senza indicazione numerica e comunque in posizione minoritaria, e la loro “consultazione” in caso di ristrutturazioni con tagli occupazionali. In Germania la legge sulla Mitbestimmung (co-determinazione) prevede la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori al Consiglio di Sorveglianza in tutte le aziende, anche private, con più di 500 dipendenti, come parte del modello capitalistico “economia sociale di mercato”, con lo scopo di coinvolgere i lavoratori nelle strategie aziendali ed evitare che i lavoratori si contrappongano al capitale. Da questo punto di vista la versione cinese limita il coinvolgimento alle sole imprese statali, che secondo l’Ufficio Statistico Nazionale occupano ormai solo il 12% degli occupati.
Mercato della merce forza lavoro
Le cronache di numerose fonti ci raccontano situazioni di “normale sfruttamento” cui sono sottoposti i lavoratori delle grandi fabbriche cinesi, con orari di lavoro estenuanti, bassi salari, stabiliti unilateralmente dalle imprese, dispotismo aziendale. Si possono immaginare, anche sulla base delle condizioni nelle piccole imprese di casa nostra (incluse quelle cinesi – vedi Prato), le condizioni esistenti tra i lavoratori dei milioni di piccole e medie imprese cinesi, anche se le loro storie non arrivano alle cronache dei media.
Il fatto che anche in Cina, come in Italia e in tutto questo mondo capitalistico, i lavoratori sono costretti a vendere la propria forza lavoro sul mercato in cambio di un salario, risulta evidente anche dal fatto che troviamo in Cina le stesse differenze aziendali, settoriali e territoriali tra i salari che troviamo nei paesi a vecchio capitalismo. Il salario medio annuo lordo nelle metropoli Pechino e Shanghai è intorno a 210 mila yuan (quasi 27 mila euro al cambio corrente), nel Guangdong 125 mila yuan, nell’Henan 78 mila, poco più di un terzo rispetto alle maggiori metropoli. Posta = 100 la retribuzione media urbana, nel turismo e nell’agricoltura è meno di 50, nelle costruzioni è pari a 69, nell’industria 87, nei trasporti e commercio è intorno a 100, nell’istruzione 106, nella finanza 153, nell’informatica 193: differenziali salariali superiori a quelli esistenti nei paesi occidentali a capitalismo maturo. Anche in Cina il salario corrisponde al prezzo che un determinato tipo di forza lavoro ha sul mercato, come per tutte le altre merci.
La presenza di lavoro salariato e capitale quali poli opposti nel processo produttivo è alla base dei rapporti di produzione capitalisti: i possessori del capitale acquistano sul mercato la forza lavorativa al prezzo pattuito (salario), la utilizzano per il tempo contrattuale (e spesso molto oltre) e si appropriano del prodotto dell’attività lavorativa, vendendolo sul mercato e realizzando un profitto. La generalizzazione di questo rapporto a tutte le attività produttive è la “prova” che anche in Cina le persone si relazionano tra loro in quanto lavoratori salariati da una parte e capitalisti dall’altra; che anche in Cina la società è divisa nelle due classi fondamentali: lavoratori salariati e borghesia, e il rapporto tra le due classi è quello della subordinazione del lavoro al capitale.
Se davvero la Cina fosse un paese “socialista”, o comunque al “primo stadio del socialismo” (pur con “caratteristiche cinesi”) ci si dovrebbero aspettare una serie di misure che garantiscono ai lavoratori la possibilità di difendere le proprie condizioni di lavoro e di vita – innanzitutto attraverso la libera auto-organizzazione sindacale, per porre dei limiti al potere del capitale – oltre che per far prevalere in qualche modo nella società l’interesse dei lavoratori e della società nel suo complesso rispetto agli interessi degli imprenditori capitalisti, privati e statali.
Un esame della Legge sui sindacati del 1992, della citata Legge sulle società del 1993, con i numerosi successivi emendamenti, della Legge sul lavoro del 1995, della Legge sui contratti di lavoro del 2007 ci mostra un quadro legislativo molto simile a quello che troviamo nei paesi a capitalismo maturo, con libertà di firmare contratti di lavoro individuali (anche dopo un mese di lavoro senza contratto, senza sanzioni), anche a tempo determinato senza vincoli, o a progetto, e la possibilità di fornitura di manodopera da parte di specie di agenzie di lavoro interinale. L’art. 37 della Legge sul lavoro prevede la possibilità del lavoro pagato a cottimo, senza le limitazioni previste dallo “Statuto dei lavoratori” italiano. Per una serie di questioni (a es. licenziamenti collettivi) alle imprese viene chiesto di consultare sindacato e/o assemblea dei lavoratori, ma mai di contrattare con essi determinate soluzioni. Il rapporto di subordinazione del lavoro salariato al capitale è sancito da tutta la legislazione cinese, come da quella dei paesi “democratici” occidentali, anche se imbellettato ideologicamente (vedasi la italiana “repubblica fondata sul lavoro”) con il concetto di “pari dignità” o “collaborazione” tra lavoro e capitale.
Sindacato produttivista di Stato
Se la Cina fosse un paese in cui i lavoratori sono al potere, o anche solo hanno un’influenza sullo Stato tale da contenere il rapporto di subordinazione rispetto al capitale, la prima misura che dovremmo aspettarci, a livello dei luoghi di lavoro, sarebbe quella di garantire ai lavoratori la piena libertà di organizzazione e di lotta per porre un argine alle pretese del capitale.
Ma i lavoratori cinesi godono della libertà di organizzazione sindacale? Da mille episodi di lotte operaie arrivati alle cronache sappiamo che non esiste libertà di organizzazione sindacale e che ogni tentativo di creare una organizzazione sindacale indipendente, auto-organizzata da parte dei lavoratori che andasse oltre i confini di una singola azienda sono stati duramente repressi dagli organi dello Stato. La Legge sulle società sancisce il diritto dei lavoratori a organizzarsi in sindacati a livello aziendale, ma con l’obbligo di affiliarsi al sindacato di Stato, la Federazione dei Sindacati di Tutta la Cina, dove il potere viene esercitato dall’altro verso il basso, e la subordinazione del sindacato al Partito Comunista Cinese.
La Legge sui Sindacati della R.P.C. stabilisce: “Articolo 2 – I sindacati sono organizzazioni popolari della classe operaia formate dai lavoratori di loro spontanea volontà sotto la guida del Partito Comunista Cinese (di seguito PCC) e fungono da ponte e legame tra il PCC e i lavoratori. […]
Articolo 4 – I sindacati osservano e salvaguardano la Costituzione, agiscono nel suo quadro, assumono lo sviluppo economico come compito centrale, si mantengono sulla strada socialista, aderiscono alla dittatura democratica del popolo, sostengono la leadership del PCC e seguono il marxismo-leninismo, il pensiero di Mao Zedong, la teoria di Deng Xiaoping, la teoria delle tre rappresentanze, la Prospettiva Scientifica dello Sviluppo e il Pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con Caratteristiche Cinesi per una Nuova Era … Quindi sindacati non come forma di auto-organizzazione dei lavoratori, ma come organismi di controllo sui lavoratori da parte dello Stato, finalizzati a promuovere “lo sviluppo economico”, secondo le decisioni del PCC. La citata “teoria delle tre rappresentanze” , elaborata da Jiang Zemin nel 2000 e inserita nella Costituzione cinese del 2004, prevede l’inclusione non solo degli “intellettuali”, ma anche degli “imprenditori” o “capitalisti” nel PCC.
L’articolo 5, che definisce la Cina “un Paese socialista di dittatura democratica del popolo sotto la guida della classe operaia basata sull’alleanza tra operai e contadini” afferma che i lavoratori sono “padroni del paese” [sic!] e quindi i sindacati devono “salvaguardare il potere statale”, e allo stesso tempo (Art. 7) ”I sindacati devono mobilitare e organizzare i lavoratori affinché partecipino allo sviluppo economico e adempiano ai loro compiti nella produzione e in altri lavori.” L’Art. 8 arriva a sostenere che i sindacati “garantiscono la loro [dei lavoratori industriali] posizione di padroni delle loro imprese, in modo da coltivare una forza lavoro industriale su larga scala che abbia ideali e convinzioni, comprenda la tecnologia, faccia innovazioni e lavori con un forte senso di responsabilità e dedizione.” I capitalisti di tutto il mondo sarebbero entusiasti di questo tipo di “sindacati”.
La Legge sulle società sancisce la libera iniziativa imprenditoriale dei capitalisti, e la finalità della realizzazione e accumulazione dei profitti. Come i lavoratori, tramite il sindacato di Stato, possano a loro volta essere “padroni” delle imprese, nonché della società, come asserisce la legge sui sindacati, è un mistero rivelatore di una ideologia il cui vero scopo è impedire la formazione di sindacati indipendenti, e di organizzazioni politiche indipendenti, dei lavoratori per la lotta contro i capitalisti. Nel caso di controversie nei rapporti di lavoro, la legge prevede il ricorso all’arbitrato o in casi estremi ai tribunali.
Lo sciopero non è previsto come strumento a disposizione dei sindacati. Esso è contemplato dall’art. 28 in questi termini: “In caso di interruzione o rallentamento del lavoro in un’impresa, in un’istituzione pubblica o in un’organizzazione sociale, il suo sindacato deve consultare l’impresa, l’istituzione pubblica o l’organizzazione sociale o le parti interessate a nome dei lavoratori, presentare le opinioni e le richieste dei lavoratori e proporre soluzioni. Detta impresa, istituzione pubblica o organizzazione sociale darà soluzione alle richieste ragionevoli dei lavoratori. Il sindacato assiste l’impresa, l’istituzione pubblica o l’organizzazione sociale nel processo, in modo da contribuire a ripristinare il prima possibile il normale ordine della produzione e del lavoro.” Non è il sindacato a organizzare lo sciopero, ma nel caso che uno sciopero o rallentamento esploda nonostante la presenza del sindacato, che dovrebbe prevenirlo, il sindacato deve “consultare” l’impresa e proporre soluzioni, “assistere” l’impresa allo scopo non di far valere gli interessi dei lavoratori contro quelli del capitale, ma di ”ripristinare il prima possibile” la produzione interrotta. Concetto ribadito anche dall’Articolo 29: “I sindacati partecipano alla mediazione delle controversie di lavoro nelle imprese.” Il sindacato quindi non come rappresentante dei lavoratori in sciopero, ma come mediatore tra i lavoratori in sciopero e l’impresa. L’impresa capitalistica esercita liberamente lo sfruttamento dei lavoratori salariati, subordinati, ma non vi è cenno alcuno alla lotta di classe necessaria per contenere lo strapotere del capitale.
Il diritto di sciopero, che troviamo persino nella Costituzione italiana (e che i vari governi hanno sempre più limitato e vogliono ulteriormente limitare) è stato eliminato dalla Costituzione cinese del 1982, redatta sotto l’egida di Deng Xiaoping, il quale già negli anni ’50 aveva sostenuto che le classi stavano scomparendo.
“Articolo 32 – I sindacati forniscono una guida teorica e politica ai loro lavoratori in collaborazione con i datori di lavoro, educano i lavoratori a svolgere il loro lavoro e a proteggere la proprietà delle loro entità e dello Stato in quanto padroni del Paese, organizzano attività pubbliche per i lavoratori per formulare proposte razionali e innovazioni tecniche, organizzano gare professionali e di abilità, conducono studi culturali e tecnici fuori orario e formazione professionale, incoraggiano la partecipazione all’istruzione professionale e alle attività culturali e sportive, e promuovono l’educazione alla sicurezza e alla salute sul lavoro, nonché la protezione del lavoro.
Articolo 33 – Su incarico del governo, i sindacati, insieme alle autorità competenti, selezionano, elogiano, coltivano e gestiscono i lavoratori modello e i produttori avanzati …
Un sindacato con funzione produttivistica, per il quale sono previsti distacchi a tempo pieno nelle aziende a partire da 200 addetti, e il versamento al sindacato di una quota aziendale pari a ben il 2% del monte salari. La burocrazia sindacale ha gli stessi privilegi di quella del PCC ai fini del pensionamento.
Avremo modo di entrare più a fondo e nel concreto nelle condizioni di lavoro e di vita della classe operaia e delle stratificazioni salariali cinesi, e delle loro risposte di lotta. Ciò che è fin d’ora fuori dubbio è che quella cinese è una società capitalistica sempre più polarizzata attorno alle due classi fondamentali, proletariato e borghesia, nella quale vige, nei rapporti materiali come sul piano giuridico, la separazione e contrapposizione tra forza lavoro e capitale, in cui il profitto è il vero motore e guida della produzione, in cui il processo di produzione è al tempo stesso processo di sfruttamento in senso marxista, cioè di estrazione di pluslavoro, di plusvalore – per il capitalismo cinese e per il capitale globale insieme, con la quota appropriata dal capitale globale via via decrescente. L’ideologia ufficiale del “socialismo di mercato” maschera questa essenza capitalistica dei rapporti sociali attraverso due peculiarità o “caratteristiche cinesi”: il ruolo del capitale di Stato e quello del Partito Comunista Cinese. Saranno oggetto di prossimi articoli.
[1] L’Ufficio Statistico Nazionale della Cina così definisce quelle che in inglese chiama “private enterprises”, che traduciamo con “società di persone”: “si riferiscono a unità economiche a scopo di lucro finanziate e costituite da persone fisiche, o controllate da persone fisiche che utilizzano manodopera dipendente. Rientrano in questa categoria le società private a responsabilità limitata, le società private di partecipazione azionaria, le imprese private di partenariato e le imprese a finanziamento privato registrate in conformità alla Legge sulle società, alla Legge sulle imprese di partenariato e ai Regolamenti provvisori sulle imprese private”.
[2] “I lavoratori autonomi nelle aree urbane si riferiscono a persone in possesso di certificati di residenza nelle aree urbane o che hanno risieduto nelle aree urbane per lungo tempo e che sono stati registrati presso i dipartimenti dell’amministrazione industriale e commerciale e autorizzati a svolgere un’attività industriale o commerciale individuale, compresi i lavoratori autonomi, nonché gli aiutanti e i lavoratori assunti che lavorano nelle singole famiglie impegnate in attività industriali o commerciali.”
Da: https://www.stats.gov.cn/english/ClassificationsMethods/Definitions/200204/t20020424_72390.html
[3] Mancando il dato disaggregato per il 2022, nell’ultima riga della Tab. 4 abbiamo calcolato la somma di “società di persone”+”lav. autonomi” quale differenza tra il totale e tutte le altre forme di proprietà.
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Today China’s DNA: Capitalism, or What?
China is the world’s first or second power (depending on which parameters you use). Its presence and influence is now impossible to disregard in any field, in economy as in politics. Without clamour but systematically, the Chinese state, in parallel with Chinese enterprises, has been expanding its sphere of influence in the world, forming its own geopolitical ‘field’ competing with that of the old Western imperialisms + Japan.
To us revolutionary internationalists, it is a fundamental, untouchable consignment that the ‘enemy is at home’: made-in-Italy capitalism, its state apparatus and, with it, its system of alliances, the European Union and NATO. But there is also the problem of what attitude to take towards capitalisms and states that are outside the West, and contend with it for supremacy in the world, starting with China’s capitalism and state. We reject the logic of ‘the enemy of my enemy is my friend’ because our references are not (capitalist) states – other states in today’s world do not exist – but social classes. And here begins a number of questions. What social relations of production and reproduction, what social classes and relations between social classes, exist in China today: capitalist social relations, or of which other different type? Can it be argued, as the CCP does and groups claiming to be communist in Italy repeat, that China is still going through a transition to a progressive, non-capitalist, or even ‘socialist’ social form? What, after all, is ‘socialism with Chinese characteristics’? Is the Chinese power really something different from the Western powers, which are expressions of big capital? Are the criteria of the Chinese state’s domestic and foreign policy different from those of the old capitalist powers? Or is China a new imperialist competitor that has entered – without making a fuss, as Deng the fox suggested – the industrial, commercial, financial, military contest for dominance in the world market, inevitably taking the inter-capitalist confrontation to a higher and more destructive level? And in the great upheaval taking place in the world economy and politics, increasingly directed towards the apocalyptic outcome of war, what is the role of the Chinese proletarian giant, in China and in the world?
What follows is the first in a series of articles intended to answer these questions. And it is opportune to anticipate our answer here: on the long wave of the greatest peasant-peasant revolution and the bloodiest war of national liberation in world history, a peculiar (but not overly so) form of capitalism, with a strong centralising role for the state, has gradually asserted itself in China, through very harsh class clashes in which the Chinese proletariat, though fighting bravely, was defeated. In just a few decades, this capitalism, which, given the weight of its past history, still finds it useful to disguise itself as ‘socialism with Chinese characteristics’, has achieved – through the exploitation of the world’s largest working class – a cyclopean accumulation of capital on a scale never before seen in history, making it by far the world’s leading industrial power and pushing it, for decades now, to project itself onto the world market. Although massive Western capital investments have contributed to this development, to portray today’s China as a colony or semi-colony of the West simply makes one smile: because it totally disregards the reality of the facts, and in particular the specific conditions that China – unlike almost all former colony countries – has been able to impose on foreign investors, thanks to its great history prior to the ‘century of humiliations’ (still in 1820 China was by far the world’s leading manufacturing power) and the not yet exhausted impulse of its anti-colonial revolution.
This tormented and accelerated path of capitalist development has set in motion a typical ‘imperialist maturation’ that is putting China on an inexorable collision course with the old imperialist powers – a collision where certainly there is no international socialism, or anti-capitalist social revolution, at stake, but rather supremacy on the world market. Utterly demagogic, when expressed by Beijing’s rulers, simply demential when expressed by unknowing metropolitan ‘communists’, is the thesis that a ‘fairer and more peaceful’ multi-polar capitalism, beneficial also to the workers, can emerge from this contention. All that can ultimately come out of this collision course is – we are seeing it in Ukraine and Palestine – an acceleration of the race to a new military confrontation on a global scale.
No, it is not on the rise of this new power of capital, which is accelerating the pace of global war, that the working class, the exploited and oppressed masses of the world, can place their hopes, albeit rightly hating the secular domination of western imperialisms. They only need to rely on their own independent organisation, in Italy, in China and throughout the world, to fight against the exploitation of labour and the claim to dominate other nations, and war. We internationalists are staking all our chips, not on the industrial, diplomatic, military rise of capitalist China, but on the political rise of the Chinese and world proletariat, on its ability to once again become a protagonist in world history. And we are certain that it will not disappoint us.
Today China’s DNA: Capitalism, or What?
The question of the social nature of China has two horns, both of fundamental importance. The first concerns the existence (or non-existence) of capitalist social relations, and thus the existence (or non-existence) of an exploited working class like that of more mature capitalist countries, and with which an internationalist connection is possible.
The second concerns the nature of the Chinese state, and Chinese economic groups: is it the same as the states of mature capitalist countries? Can one speak of Chinese imperialism in the same way as American, Italian or Japanese imperialism?
From the answer to these questions also derives the position with respect to the economic, political and military conflicts in which China is involved and increasingly protagonist. The thesis that we will develop in a series of articles answers yes to the questions posed above, although on the last one we will have to dialecticise and historicise, in the sense that the transformations of recent decades with the formation of new concentrations of international financial power, each with their respective states, modify the characteristics of the ‘imperialism’ phenomenon with respect to a century ago.
In this first article we try to answer the question of whether China is a capitalist or socialist country, and the answer we anticipate is that it is a fully capitalist society. The criterion of judgement, on the basis of the Marxist method, is not what the government or the ruling Chinese Communist Party leaders say about Chinese society (‘market socialism with Chinese characteristics’), but that of the actually existing relations of production. It is not the name given to things, but the actual reality of ‘social things’, the social relations of production and reproduction. If in the production and social reproduction process there are two classes, with the majority selling the use of their labour capacity (labour power) to those who own the means of production for a living; if the latter in turn, using the labour power of others in the production process, appropriate the product and the surplus value realised therein, enriching themselves, it means that we are in a capitalist society, with proletariat and bourgeoisie as the fundamental classes. Where the proletariat is subordinate to the bourgeoisie, which except for exceptional times also holds political as well as socio-economic power. In the case of China, the CCP plays the role as an absolute arbiter, seemingly above the classes. We will see how it actually represents the interests of the bourgeois ruling class as a whole.
On the other hand, the current reality is the result of profound social and political transformations initiated by the Chinese Revolution, which in the course of three quarters of a century have led China – which had become one of the world’s poorest countries following a century of multiple and ruthless colonial aggressions in which even ‘our’ miserable little Italy took part – to become the world’s first or second capitalist power.
In future articles, we will attempt to delve into the specific characteristics of this capitalism, with particular attention to state-owned enterprises, and of the Chinese state, and thus to size and qualify its role as an economic, political and military power in international confrontation. We will finally return to examine the composition, conditions and struggles of the Chinese proletariat, the great absentee from the analyses and considerations of those who cheer, as ‘comrades’, for the rise and victory of capitalist China.
Let’s start with the official data on population and labour.
In 2022 China counted 1 billion 411 million 750 thousand inhabitants: for the first time down on the previous year (-850 thousand), and for the first time overtaken by India in first place in the world ranking. This is a sign of the beginning of demographic decline, a typical effect of the ‘demographic transition’ of all advanced capitalist societies, accelerated in China by the ‘one-child policy’ ruthlessly imposed between 1980 and 2016 – which is leading to the ‘premature ageing’ of Chinese society set to continue in the coming decades, affecting the Chinese economy and society.
Table 1 –Urban/rural population, 1978-2022
Millions | Composition, % | 1978-2022 change | ||||||
1978 | 2000 | 2022 | 1978 | 2000 | 2022 | millions | 1978=100 | |
Population | 962.6 | 1267.4 | 1411.8 | 100 | 100 | 100 | 449.2 | 147 |
– urban | 172.5 | 459.1 | 920.7 | 18 | 36 | 65 | 748.2 | 534 |
– rural | 790.1 | 808.4 | 491 | 82 | 64 | 35 | -299.1 | 62 |
Table 1 highlights the enormous process of urbanisation that has taken place over the period: the urban population has grown by 750 millions, multiplying six-fold; the rural population has decreased by 317 million in the last 22 years. In two generations, China has gone from a rural country where 8 out of 10 inhabitants lived in the countryside, to a country where 2 out of 3 live in cities, with all the phenomena that accompany an urbanisation process of this speed and size.
Over the past 20 years, the ratio of rural to urban employment has reversed: urban employment has risen from 273 to 470 million, rural employment has fallen from 470 to 270 million.
Table 2 – Employed in urban and rural areas
Millions of people | 2004 | 2023 |
Total employed | 742.6 | 740.4 |
In urban areas | 272.9 | 470.3 |
In rural areas | 469.7 | 270.1 |
The driving force behind this huge internal migration from the countryside to the cities has been the process of capital accumulation, first with industrialisation, then with the development of the tertiary sector.
Tab. 3 – Persons employed by macro-sectors, 1978-2022
Millions | % Composition | 1978-2022 Change | ||||||
1978 | 2000 | 2022 | 1978 | 2000 | 2022 | millions | 1978=100 | |
Total employed | 401.5 | 720.9 | 733.5 | 100 | 100 | 100 | 332.0 | 183 |
Agric, mining | 283.2 | 360.4 | 176.6 | 71 | 50 | 24 | -106.6 | 62 |
Manufacturing, construction | 69.5 | 162.2 | 211.1 | 17 | 22 | 29 | 141.6 | 304 |
Services | 48.9 | 198.2 | 358.7 | 12 | 27 | 49 | 309.8 | 734 |
The number of people employed in 2022 was 733 million, of which 177 million were in agriculture, 211 million in industry, 359 million in the tertiary sector; in the 44 years under consideration, those employed in agriculture fell from 71% to 24% (from 7 out of 10 to 1 out of 4), halving in the last generation (in 1952 they were 83.5%); industry rose from 17% to 29%, tripling in absolute numbers, with an increase of 142 million workers; the tertiary sector grew from 12% to 49%, multiplying by more than 7 times, with 310 million new workers. In China, as in the major metropolises, it is ‘services’ that employ the largest number of workers, and it is foreseeable that in the coming decades services will further increase their weight at the expense of agriculture, following a path followed by all industrialised countries, albeit with different weights of industry and services. Let us anticipate that when we speak of ‘services’, we are not dealing for the most part with unproductive labour from the capitalist point of view (as is the case with public service, financial and household services), but with production that does not translate into the creation of material, tangible objects, but of pure ‘services’ sold on the market as commodities in order to make a profit.
We will leave the analysis of the economic aspects to another article. Here we are interested in analysing the social composition, the ‘social-economic formation’ of China, officially called ‘market socialism with Chinese characteristics’. We could dismantle the oxymoron ‘market socialism’ from a theoretical point of view, starting with Marx’s Misery of Philosophy, but our approach here is that of a concrete (materialistic) analysis of the concrete situation, based, of course, on Marxist socio-economic categories.
Chinese labour force and employment statistics are very poor, especially in rural areas, and do not provide the number of employees as distinct from the total number of employed. It seems that Lenin in his study on The Development of Capitalism in Russia had much more in-depth and detailed material from the Tsarist zemstvo statistics than is now available in the Chinese statistics. A fact indicative of how little importance the Chinese state gives to the working class, and to the proletariat in general, almost as if it wants to ignore its existence. Even the peasants, the protagonists of the great Chinese Revolution, with the dissolution of the Communes, have for decades been at the mercy of the market, and the state does not want to know how many of them have been forced to emigrate en masse (about 200 million) to the big cities and industrial poles, very often finding themselves in a condition of irregularity due to state laws. After all, already at the CCP Congress in 1956, Deng Xiaoping – the main ideological reference of the current leaders – claimed that social classes were disappearing…
However, the employment statistics provide the figure for the self-employed, but only until 2019, in which year the figure for “private enterprises” (the simplest form of company)[i] also stops. Table 4 shows that the largest number of people employed in urban areas work precisely in “private enterprises”: 146 million in 2019, or 32% of total employment. Fifteen years earlier, they only employed 30 million in 2004; in 15 years they have grown fivefold. The number of these private enterprises turns out to be 30 million: if each had a single boss, we would have 30 million bosses with 116 million employees, less than 4 per company. A situation very close to that of Italy’s small business.
The other fast-growing sector is that of the self-employed: they have grown almost 5 times in 15 years, from 25 to 116 million (from 9% to 26% of the total employed) in urban areas, while in rural areas they apppear to be 60 million – it is not clear whether or not they include independent farmers, for a total of 176 million self-employed, or one in 4 employed people, a similar composition to that in Italy. In addition to the almost total absence of data on rural and agricultural employment in particular, the very definition of ‘own-account worker’ or self-employed is rather vague[ii], and seems to include not only family helpers but also employees of micro-family businesses. The fact that only registered and authorised activities are surveyed suggests that there is an undergrowth of unregistered and unauthorised activities, where irregular work is taking place, which escapes official statistics – a phenomenon that is also well known in Italy as ‘undeclared work’. Even though it is not possible to estimate, even here, how many true self-employed workers there are (working alone, without employees), how many small employers and how many employees, what emerges from these data is the existence of a widespread fabric of small businesses that employ almost 300 million people in urban areas[iii], two-thirds of the Chinese urban workforce, where working relations are those typical of the boss/worker relationship that we know so well in small Italian enterprises (and in Chinese enterprises transplanted in Italy): exploitation and boss despotism, with few rules. There is not even a shadow of ‘socialism’ here…
Another type of company that has grown in the last twenty years is that of ‘limited liability companies’ (which can also be set up with state capital): in 20 years they have risen from 14 to 65 million employees, reaching 14% of the total. On the other hand, the weight of state-owned enterprises halved (from 24.6% to 12.2% of employees, a loss of 10 million workers. Also declining sharply, to the point of becoming irrelevant, are ‘collectively owned’ enterprises, cooperatives and mixed-ownership enterprises. Private joint-stock companies (17 million employees, 3.7%), subsidiaries of Hong Kong, Macao and Taiwan (11 million, 2.4%) and those controlled by capital from other countries (11.6 million, 2.5%) remained significant, albeit a minority in terms of number of employees.
Table 4 – Persons employed by enterprise ownership type
Employed in urban areas | Millions | Composizione % | ||||||
2022 | 2019 | 2014 | 2004 | 2022 | 2019 | 2014 | 2004 | |
Total | 459.3 | 452.5 | 397.0 | 272.9 | 100 | 100 | 100 | 100 |
State owned | 56.1 | 54.7 | 63.1 | 67.1 | 12.2 | 12.1 | 15.9 | 24.6 |
Collective ownership | 2.4 | 3.0 | 5.4 | 9.0 | 0.5 | 0.7 | 1.4 | 3.3 |
Cooperatives | 0.6 | 0.6 | 1.0 | 1.9 | 0.1 | 0.1 | 0.3 | 0.7 |
Mixed ownership | 0.2 | 0.1 | 0.2 | 0.4 | 0.0 | 0.0 | 0.1 | 0.2 |
Limited liability corporations | 65.1 | 66.1 | 63.2 | 14.4 | 14.2 | 14.6 | 15.9 | 5.3 |
Joint-stock corporations | 16.8 | 18.8 | 17.5 | 6.3 | 3.7 | 4.2 | 4.4 | 2.3 |
Private enterprises | n.d. | 145.7 | 98.6 | 29.9 | 32.2 | 24.8 | 11.0 | |
Units with Funds from Hong Komg, Macao, Taiwan | 11.1 | 11.6 | 13.9 | 4.7 | 2.4 | 2.6 | 3.5 | 1.7 |
Foreign Funded Units | 11.6 | 12.0 | 15.6 | 5.6 | 2.5 | 2.7 | 3.9 | 2.1 |
Self-employed individuals | n.d. | 116.9 | 70.1 | 25.2 | 25.8 | 17.7 | 9.2 | |
Private enterprises + Self-employed | 295.4 | 285.6 | 217.1 | 163.6 | 64.3 | 63.1 | 54.7 | 59.9 |
The fundamental Marxist criterion for defining a society is that of relations of production, i.e. how people enter into relations with each other through the production process. As is also evident from these statistics, production takes place on the basis of enterprises, which from a legal and administrative point of view are distinguished by the various forms of ownership: state, ‘collective’, ‘cooperative’, and private (distinguished as domestic or foreign), in the various legal formulas: impersonal joint-stock companies, limited liability companies (where the owners are not liable for any debts with their personal assets), and ‘private enterprises’ which in the Chinese meaning corresponds to our ‘partnerships’, where the owners are liable with their personal assets. These enterprises, the management of which is in the hands of the owners, make use of the labour activity performed by wage workers, i.e. who sell their ‘labour power’ in exchange for a wage/ salary. It is a social-organisational structure entirely similar to the overtly capitalist structure of European and American countries. China’s current Company Law states in Art. 4 that “Shareholders of a company, as capital contributors, enjoy property rights such as the enjoyment of the company’s assets, the making of important decisions, and the selection of management personnel according to the amount of their respective capital invested in the company.” And in Art. 5 that: “A company, with all its assets as a legal person, operates independently and is responsible for its profits and losses in accordance with the law. A company, under the macroeconomic control of the state, shall organise its production and operation independently according to market demand, with the aim of increasing economic benefits and labour productivity and maintaining and increasing the value of its assets.” It is clear that a company (its owners, shareholders) is accorded ‘independence’ in the function of making profits and increasing shareholder capital through the use of employee labour. That is, appropriating the difference between the value produced by labour and the wages paid for the labour force used (what Marx called ‘exploitation’).
In capitalism, wages are a ‘cost’, with a minus sign, to be squeezed as much as possible to increase profit, the end of production; in socialism, the share of the social product that will be available to producers for individual and social consumption, will instead be the objective to be maximised, together with the reduction of working time. Likewise, decisions on what to produce will not be determined by profitability, but by social needs.
As in all capitalist countries, at the apex of corporate decision-making is the shareholders’ meeting, which appoints the board of directors. Only in state-owned companies, and where there are two or more public shareholders in the case of limited liability companies, there is the provision for participation of workers’ representatives in the board of directors, without numerical indication and in any case in a minority position, and their ‘consultation’ in the case of restructuring with job cuts. In Germany, the Mitbestimmung (co-determination) law provides for the participation of workers’ representatives on the Supervisory Board in all companies, including private ones, with more than 500 employees, as part of the capitalist ‘social market economy’ model, with the aim of involving workers in company strategies and preventing workers from setting themselves against capital. In this respect, the Chinese version limits their involvement to state-owned enterprises, which according to the National Bureau of Statistics now employ only 12% of the workforce.
Labour market
The chronicles from numerous sources tell us of ‘normal exploitation conditions’ to which workers in large Chinese factories are subjected, with gruelling working hours, low wages, unilaterally set by companies, and corporate despotism. One can imagine, even on the basis of the conditions in small enterprises at home (including those in China – see Prato), the conditions that exist among the workers of the millions of small and medium-sized Chinese enterprises, even if their stories do not make it to the media headlines.
The fact that also in China, as in Italy and throughout this capitalist world, workers are forced to sell their labour power on the market in exchange for wages, is also evident from the fact that we find in China the same company, sectoral and territorial differences in wages as we find in the old capitalist countries. The average annual gross wage in the megacities Beijing and Shanghai is around 210,000 yuan (almost 27,000 euro at the current exchange rate), in Guangdong 125,000 yuan, in Henan 78,000, a little more than a third of the major metropolises. Set = 100 the average urban wage, in tourism and agriculture it is less than 50, in construction it is 69, in manufacturing 87, in transport and trade it is around 100, in education 106, in finance 153, in information technology 193: such wage differentials are higher than in Western countries with mature capitalism. Also in China, wages correspond to the price that a certain type of labour has on the market, as with all other commodities.
The presence of wage labour and capital as opposite poles in the production process is the basis of capitalist relations of production: the owners of capital buy labour power on the market at the agreed price (wages), use it for the contractual time (and often much longer) and appropriate the product of labour activity, selling it on the market and making a profit. The generalisation of this relationship to all production activities is ‘proof’ that in China too, people relate to each other as wage labourers on the one hand and capitalists on the other; that in China too, society is divided into the two basic classes: wage labourers and the bourgeoisie, and the relationship between the two classes is one of subordination of labour to capital.
If China were really a ‘socialist’ country, or at least at the ‘first stage of socialism’ (albeit with ‘Chinese characteristics’), one would have to expect a series of measures to ensure that workers are able to defend their working and living conditions – first and foremost through free trade union self-organisation, to set limits on the power of capital – as well as to ensure that the interests of workers and society as a whole somehow prevail in society over the interests of capitalist entrepreneurs, either private or the state.
An examination of the Trade Union Act of 1992, the aforementioned Companies Act of 1993, with its many subsequent amendments, the Labour Act of 1995, and the Labour Contract Law of 2007 shows us a legislative framework very similar to what we find in mature capitalist countries, with freedom to sign individual employment contracts (even after one month of work without a contract, without sanctions), even fixed-term contracts without limitations, or project contracts, and the possibility of supplying labour by temporary employment agencies of sorts. Article 37 of the Labour Law provides for the possibility of piecework, without the limitations of the Italian ‘Workers’ Statute’. For a number of issues (e.g. collective redundancies) companies are required to consult trade unions and/or workers’ assemblies, but never to bargain with them for binding solutions. The subordination of wage labour to capital is enshrined in all Chinese legislation, as in that of western ‘democratic’ countries, even if ideologically embellished (see Italy’s ‘republic founded on labour’) with the concept of ‘equal dignity’ or ‘collaboration’ between labour and capital.
State Productivist Trade Union
If China were a country in which workers are in power, or even have enough influence over the state to contain the relationship of subordination to capital, the first measure we should expect, at the level of the workplace, would be to guarantee workers full freedom of organisation and struggle to put a check on capital’s claims.
Do Chinese workers enjoy freedom of trade union organisation? From a thousand episodes of workers’ struggles that have made it to the news, we know that there is no freedom of trade union organisation and that every attempt to create an independent, self-organised trade union by workers that went beyond the gates of a single company was harshly repressed by state agencies. The Law on Trade Unions enshrines the right of workers to organise into trade unions at the company level, but with the obligation to affiliate to the state trade union, the All-China Federation of Trade Unions, where power is exercised from the top down. The Law also provides for the subordination of the trade union to the Communist Party of China.
The All-China Trade Union Law states: ‘Article 2 – Trade unions are people’s organizations of the working class formed by the workers of their own free will under the leadership of the Communist Party of China (hereinafter referred to as CPC) and serve as a bridge and bond linking the CPC with the workers. […]
Article 4 – Trade unions shall observe and safeguard the Constitution, act within its framework, take economic development as the central task, keep to the socialist road, adhere to the people’s democratic dictatorship, uphold leadership by the CPC and follow Marxism-Leninism, Mao Zedong Thought, Deng Xiaoping Theory, the Theory of Three Represents, the Scientific Outlook on Development, and Xi Jinping Thought on Socialism with Chinese Characteristics for a New Era …” So trade unions should not be a form of workers’ self-organisation, but bodies for the state control on workers, aimed at promoting ‘economic development’, according to the CCP’s decisions. The quoted ‘theory of the three representats’ developed by Jiang Zemin in 2000 and included in the Chinese Constitution of 2004, provides for the inclusion not only of ‘intellectuals’ but also of ‘entrepreneurs’ or ‘capitalists’ in the CCP.
Article 5, which defines China as “a socialist country of people’s democratic dictatorship under the leadership of the working class based on an alliance of workers and farmers” states that workers are the “masters of the country” [sic! ]and therefore trade unions must “safeguard state power”, and at the same time (Art. 7) “Trade unions shall mobilize and organize workers to take part in economic development and to fulfill their tasks in production and other work.” Art. 8 goes so far as to argue that unions “guarantee [industrial workers’] position as masters of their enterprises, so as to cultivate a large-scale industrial workforce that has ideals and convictions, understands technology, makes innovations, and works with a strong sense of responsibility and dedication.” Capitalists around the world would be thrilled with this kind of ‘unions’.
The Company Law enshrines the free enterprise of capitalists, and the purpose of profit realisation and accumulation. How the workers, through the state trade union, can themselves be the ‘masters’ of enterprises, as well as of society, as the Law on Trade Unions claims, is a revealing mystery of an ideology whose real purpose is to prevent the formation of independent trade unions, and independent political organisations, of workers to fight against the capitalists. In the case of labour relations disputes, the law provides for resorting to arbitration or in extreme cases to the courts.
Strike action is not envisaged as an instrument available to trade unions. It is provided for in Article 28 in these terms: “In case of a work stoppage or slowdown in an enterprise, public institution, or social organization, its trade union shall hold consultation with said enterprise, public institution, or social organization or the parties concerned on behalf of workers, present the opinions and demands of workers, and propose solutions. Said enterprise, public institution, or social organization shall solve whatever reasonable demands workers have made. The trade union shall assist the enterprise, public institution, or social organization in the process so as to help restore the normal order of production and work as soon as possible.”
It is not the union that organises the strike, but in the event that a strike or slowdown breaks out despite the presence of the union, which is supposed to prevent it, the union must ‘consult’ the enterprise and propose solutions, ‘assist’ the enterprise in order not to assert the interests of the workers against those of capital, but to ‘restore as soon as possible’ the interrupted production. This concept is also reiterated in Article 29: “Trade unions shall participate in the mediation of labor disputes in enterprises.” The trade union therefore not as a representative of the striking workers, but as a mediator between the striking workers and the enterprise. The capitalist enterprise freely exerts exploitation of subordinate wage workers, but there is no mention of the class struggle needed to curb the overwhelming power of capital.
The right to strike, which we find even in the Italian Constitution (and which the various governments have increasingly restricted and want to further restrict) was deleted in the Chinese Constitution of 1982, drafted under the aegis of Deng Xiaoping.
“Article 32 – Trade unions shall provide theoretical and political guidance for their workers in conjunction with employers, educate workers to do their work and protect the property of their entities and the state as the masters of the country, organize public activities for workers to make rational proposals and technical innovations, hold occupational and skill competitions, conduct off-hour cultural and technical studies and vocational training, encourage participation in vocational education and cultural and sports activities, and promote education on occupational safety and health, as well as labor protection.
Article 33 – Entrusted by the government, trade unions shall, together with relevant authorities, select, commend, cultivate and manage model workers and advanced producers …
Hence, a trade union with a productivity function, for which full-time posts are provided for in companies with 200 or more employees, and the payment to the trade union of a company quota of no less than 2% of the total payroll. The union bureaucracy has the same privileges as the CCP bureaucracy for retirement purposes.
We will have the opportunity to go deeper and more concretely into the working and living conditions of the Chinese working class and its strata, and their struggle responses. What is beyond doubt as yet is that China’s is a capitalist society increasingly polarised around the two fundamental classes, proletariat and bourgeoisie, where the separation and opposition between labour power and capital rules, in material relations as well as at the legal level, in which profit is the real driving force and guide for production, in which the process of production is at the same time a process of exploitation in the Marxist sense, i.e. of extraction of surplus labour, of surplus value – for Chinese capitalism and global capital together, with the share appropriated by global capital gradually decreasing. The official ideology of ‘market socialism’ masks this capitalist essence of social relations through two peculiarities or ‘Chinese characteristics’: the role of state capital and that of the Chinese Communist Party. These will be the subject of forthcoming articles.
[i] China’s Statistical Office so defines “private enterprises”: Private Enterprises refer to profit-making economic units invested and established by natural persons, or controlled by natural persons, using employed labour. Included in this category are private sole-proprietorship enterprise, private partnership enterprise, private limited liability companies, private limited-liability company by shares and individual sole-proprietorship enterprise registered in accordance with the Company Law, the Law on Partnership Business and the Law on Individual Proprietorship Enterprises.
[ii] “The self-employed individuals in urban areas refer to persons who hold the certificates of residence in urban areas or have resided in the urban areas for a long time and have been registered at the departments of industrial and commercial administration and approved to be engaged in individual industrial or commercial business, including self-employed persons as well as helpers and hired laborers who work in the individual households engaged in industrial or commercial business.” See: https://www.stats.gov.cn/english/ClassificationsMethods/Definitions/200204/t20020424_72390.html
[iii] Lacking the disaggregate data for 2022, in the bottom line of Table 4 we have calculated the sum of “private enterprises” and “self-employed individuals” by subtracting all the other items from the total employment.