Ripubblichiamo dal sito del Pungolo Rosso questo articolo sulle rivolte di questi giorni negli USA.
Mentre decine di grandi città degli Stati Uniti sono piene di giovani neri, ma non solo neri, in rivolta; mentre la loro incontenibile furia costringe il duro Trump a rintanarsi come un coniglietto qualsiasi nel bunker della Casa Bianca; mentre la loro minacciosa forza costringe un certo numero di poliziotti a onorare in ginocchio George Floyd; vale la pena riprendere il nostro cortometraggio sul crack della società statunitense proprio dal sistema dell’istruzione, per poi occuparci della inaudita polarizzazione sociale e chiudere le nostre riprese sui punti di forza dell’Amerika, e sui nessi con i suoi punti deboli – sempre, si capisce, con l’aiuto di Massimo Gaggi, giornalista del Corriere della sera. Dopo lo lasciamo libero …
La bolla dell’istruzione (di classe)
Partiamo da una citazione-shock per chi non sa nulla della faccenda: “Dodici anni dopo quella dei mutui subprime che innescò la spaventosa crisi finanziaria del 2008, un’altra bolla creditizia incombe sull’America: quella dei prestiti di studio contratti da 44 milioni di studenti ed ex studenti (soprattutto universitari) che secondo i dati della Federal Reserve, la Banca centrale Usa, sono ormai indebitati per 1.600 miliardi di dollari (1.440 miliardi di euro al cambio dell’inizio del 2020: una cifra pari a oltre i due terzi del reddito nazionale dell’Italia)” (p. 129).
Non ci sono errori di stampa, né iperboli: sono i dati ufficiali ricostruiti e diffusi dal santuario del capitale monetario statunitense. Il fatto è che negli Usa le università hanno tutte “costi spaventosi”. Nelle private, le più ambite, la media delle tasse è di 51.000 dollari l’anno, in quelle statali è circa la metà. Per cui, a laurea conseguita, ci si trova sul groppone un debito che può arrivare a centinaia di migliaia di dollari, da pagare in “comode rate” anche per 20-30 anni. Il caso di chi non è riuscito a laurearsi è, evidentemente, il più drammatico. Ma la prova è durissima da superare anche per quei tanti che ce l’hanno fatta (negli States gli iscritti ai college e alle università sono circa 20 milioni) e che, una volta laureati, si trovano spesso davanti a retribuzioni e impieghi e inferiori, o molto inferiori, a quelli sperati. Per la massa degli occupati dipendenti, anche in possesso di laurea, i salari e gli stipendi sontuosi sono sempre più un lontano ricordo. Gli anni ’70, quando Nixon poteva sbandierare con orgoglio che i salari statunitensi erano tre volte superiori a quelli della Germania e degli altri paesi competitor, sembrano appartenere a un’altra era geologica – del resto, un fanatico del Pentagono come Luttwak ammetteva già vent’anni fa, in La dittatura del capitalismo, che i salari statunitensi stavano convergendo “lentamente” verso quelli dei “paesi del Terzo mondo”. E da allora la tendenza non si è invertita. Anzi.
Eric Ramirez lives in a trailer park for migrant farm workers in Firebaugh, California, where he shares a narrow trailer with his two siblings and his grandparents. According to the US Census, 36 percent of children in Fresno County, where Firebaugh is located, are poor, and 43 percent of children in Firebaugh live below the poverty level. The land here is one of the most fertile in the country and the Ramirez family work in the fields picking fruits and vegetables. Still, Eric has to walk more than two miles with his grandmother to a community center where they wait in line for hours to receive free food.
Non si tratta più soltanto dei metalmeccanici della Chrysler ai quali, profittando della crisi del 2008, Marchionne impose il secco dimezzamento dei salari orari passati, per i nuovi assunti, da 28 a 14 dollari l’ora. Si tratta pure di non pochi professori, incluso un certo numero di docenti precari delle università (sono la grande maggioranza dei docenti), “costretti a chiedere i food stamps [i buoni per l’acquisto di alimenti], l’assistenza alimentare per i poveri, o a integrare con lavori notturni. Molti la sera fanno gli autisti per Uber”. Del resto, ci risiamo, le università sono diventate aziende; e come tutte le aziende, anche quelle giuridicamente statali, “inseguono fatturato e profitto con la durezza tipica del capitalismo americano” – perché in Italia e in Europa non si sta andando nella stessa direzione? Nel capitolo dedicato all’istruzione, bisogna dirlo, Gaggi dà il meglio di sé con rapidi ritratti di professori poveri, perfino homeless, studenti alla fame (ben il 30% degli studenti non è in grado di assicurarsi un’alimentazione adeguata con i soli propri mezzi) e “accademie che sembrano hedge fund” – su tutte Harvard, che ha accumulato un patrimonio di 40,9 miliardi grazie ai legami sempre più stretti e vincolanti con le multinazionali, l’industria militare, e le fondazioni e le donazioni di facoltosi ex-allievi, che in questo modo si assicurano un’influenza permanente su tali istituzioni e spianano la strada all’accesso dei propri figli. E proprio su questi accessi “eccellenti”, a pagamento diretto o indiretto, è scoppiato di recente uno scandalo giudiziario.
In realtà questa è solo la forma più scoperta del carattere spietatamente classista della macchina dell’istruzione statunitense. Con il 15% della popolazione ferma al minimo livello di alfabetizzazione o in un’area di analfabetismo funzionale; con le scuole statali (elementari, medie, superiori) frequentate da giovani neri e dai figli degli immigrati e della classe operaia bianca, sempre più a corto di finanziamenti e spesso fatiscenti; con le università che hanno cessato da tempo, per chi proviene dalle classi lavoratrici, di essere il tanto vantato “ascensore sociale”, e sono diventate un “motore di disuguaglianze”, se è vero che a 24 anni il 77% dei figli delle famiglie più ricche è già in possesso della laurea, a fronte di un misero 9% delle famiglie più povere. Su una simile struttura dell’istruzione, nel paese leader delle scommesse finanziarie, non poteva mancare chi pensasse di far denari investendo sulle prevedibili carriere degli studenti più promettenti. È nato così l’Isa, Income share agreement: agli studenti è data la possibilità di non indebitarsi per studiare, cosa attraente dal momento che “ci sono pensionati che ancora pagano le rate dell’università”, ma a condizione di versare alla società che investe su di loro una parte del loro futuro stipendio per alcuni anni. E se su un tale nuovo strumento finanziario ci si sta fiondando il fondo Blackstone, state certi: promette bene.
Di homeless, neri/e, proletari/e
Del resto, che gli States siano oggi il paese dell’estremizzazione delle disuguaglianze sociali è noto. E Gaggi ci ritorna malinconicamente su per prendere atto che è la fine di un sogno: il sogno americano della “eguaglianza delle opportunità”, dei self-made men, dell’illimitata mobilità sociale ascendente e, addirittura, dell’edificazione di una one class society, una società, mai vista prima nella storia delle società divise in classi, composta da un’unica classe sociale, la middle class. Questo sogno fu tanto potente da trapassare la vecchia cortina di ferro, che avrebbe dovuto difendere da esso i paesi del “socialismo reale” molto tempo prima di crollare sotto il peso delle proprie contraddizioni, e di un’insostenibile corsa agli armamenti imposta dal reaganismo.
Ronald Major waits for free food handed out by a group of volunteers on weekends under the Claiborne Avenue Bridge. Because of the lack of affordable housing and lack of family safety nets, the number of homeless in New Orleans has more than doubled since Hurrican Katrina. Major has heavy limbs symptoms and pushes a wheelchair. Since he lost his home in the hurricane, he lives under a bridge and tries to “keep hope alive” as he says.
Ebbene, di questo sogno non c’è più traccia negli States del 2020, l’anno del Covid-19, dei 40 milioni di disoccupati, “il più alto numero di disoccupati dei 244 anni di storia del paese” (nota M. Whitney), di un’autentica epidemia di suicìdi; l’anno in cui, a stare alla Brooking Institution, il 17% dei bambini americani sotto i 12 anni non ha un nutrimento sufficiente.
Dall’istruzione all’accesso al mercato del lavoro e alle cure mediche “le barriere economiche all’interno della società americana, anziché ridursi, diventano sempre più alte” fino a dare l’impressione che essa sia indirizzata “verso una sorta di divisione per caste”, all’interno della quale le aree di disagio sociale si espandono, e danno sempre meno speranza, a chi vi precipita, non di rado direttamente dalla condizione di middle class, di poterne uscire.
Qualche dato. Cominciando dai senzatetto, “una realtà dolente di tutte le grandi metropoli” nordamericane.
A New York, ad esempio, su una popolazione scolastica di 1,1 milioni di ragazzi, sono homeless 114.000 studenti. Per loro c’è un solo luogo stabile: la scuola. Le loro famiglie sono infatti obbligate a vivere negli shelter (alloggi-rifugio) comunali, oppure a peregrinare da una casa all’altra appoggiandosi a parenti e amici.
Un risvolto quasi inevitabile della brutale precarizzazione dei rapporti di lavoro è proprio il venir meno di un alloggio stabile, esperienza che nei quartieri più poveri di quella metropoli si è allargata in 10 anni a dismisura (+70%). A San Francisco e Los Angeles intere strade del centro città, a Oakland intere zone periferiche, sono state trasformate in tendopoli di senzatetto o in baraccopoli, con fango, topi, zero servizi igienici; baraccopoli che in un rapporto dell’Onu sono descritte come realtà più degradate dei campi profughi del Pakistan o di uno slum di New Delhi. Ha fatto il giro del mondo la foto di un ampio parcheggio auto scoperto di Las Vegas trasformato in un parcheggio di senzatetto dopo la chiusura (per Covid-19) di una struttura religiosa destinata a loro, con i confini dei miseri box di ciascuno tracciati per terra: centinaia di homeless scaricati lì per terra e all’aperto, senza materassini e coperte, a fronte di una quantità di stanze di albergo vuote in città, 150.000 per l’esattezza.
Questa, però, non è la ricca e cinica Las Vegas dei giochi d’azzardo e dell’industria della prostituzione: è l’Amerika.
Lo aveva già mostrato M. Desmond nella sua bella ricerca su Milwaukee, in tutt’altra zona degli States (il Wisconsin), un libro da leggere: Sfrattati. Miseria e profitti nelle città americane, mettendo il fenomeno in una prospettiva storica. Anche durante la grande depressione degli anni ’30, ricorda Desmond, gli sfratti erano rari. Lo erano perfino nelle zone più desolate delle grandi città. Oggigiorno, invece, gli sceriffi “hanno squadre che si occupano a tempo pieno di eseguire ordini di sfratto e di pignoramento”; esistono ditte di traslochi specializzate in sfratti sovraccariche di lavoro, e aziende specializzate nella schedatura degli sfrattati. Oggigiorno la gran parte “delle famiglie povere in affitto in America spende più della metà del proprio reddito per la casa, e almeno una su quattro ne dedica più del 70% all’affitto e alle bollette. Milioni di americani vengono sfrattati ogni anno perché non riescono a pagare l’affitto”. Milioni l’anno… ed eravamo una decina di anni fa, prima della crisi devastante di oggi. Ed ancora una volta il contesto statunitense anticipa processi destinati ad affermarsi ovunque, se non opporremo alla macchina del profitto e della rendita una lotta dispiegata, determinata e molto organizzata.
Dell’aspetto razziale della polarizzazione sociale negli States dice tutto la furente rivolta in corso, nata – lo ricordiamo contro l’economicismo trionfante nella “estrema sinistra” – per reazione al razzismo di stato e alle violenze poliziesche. Lasciamo perdere, perciò, le montagne di numeri e di “particolari” che dimostrano con schiacciante evidenza la persistenza dell’oppressione, del super-sfruttamento, del razzismo, contro la stragrande maggioranza della popolazione nera – basterebbe dire che ovunque il tasso di infezione e di morte da Covid-19 è stato molto più alto tra i neri che nella restante popolazione, o basterebbe mettere a confronto la percentuale di donne nere di Washington morte ogni anno per parto (un’incidenza venti volte superiore alla media italiana) con quella delle donne bianche di New York. Prima di procedere, però, ascoltate questo intervento-dinamite di una militante nera: https://www.facebook.com/100007903516471/posts/2669967173276707/sfnsn=scwspwa&%3Bextid=o0GvnLh11JJDu04N&%3Bd=w&%3Bvh=i
Il “peccato originale” della nazione statunitense di cui ha parlato il miliardario Biden (un razzista solo un po’ più ipocrita di Trump), è tutt’altro che espiato. E non può certo essere il modo di produzione capitalistico, che su di esso si è edificato, a cancellarlo. Ne ha dovuto prendere atto anche un nero moderato come C. West (il suo testo è su Common Dreams e, in francese, su www.alencontre.org). La storia di 200 e più anni di “questione nera” mostra, ammette, lo scacco della società statunitense, delle istituzioni statunitensi, della democrazia statunitense, del capitalismo made in the Usa, e non solo del neo-liberismo come si ama ripetere fino alla nausea. Proprio lui, uno dei neri arrivati “in alto”, ad Harvard, deve registrare che nulla di sostanziale è cambiato con l’ascesa di Obama. Dopotutto Black Lives Matter è nato proprio sotto la presidenza di Obama, “sotto un presidente nero, un procuratore generale nero, un servizio di sicurezza interno guidato da un nero”. Obama e questo strato di neri entrati nell’élite capitalistica al servizio delle necessità del capitale imperialista, “non hanno potuto mantenere le promesse” fatte. E allora, “quando voi parlate delle masse dei neri – i preziosi poveri e i lavoratori neri, bruni, rossi, gialli, e di quale che sia altro colore, quelli che sono lasciati da parte”, dovete sapere che, senza speranze di cambiamenti graduali, a loro non resta che la ribellione, ed esplosioni di ribellione “sempre più violente”. Suona patetica la sua invocazione finale alla “spartizione” più equa della ricchezza, smentita com’è dai più di duecento anni di oppressione razziale, e di super-sfruttamento di classe. Perché è a questo antagonismo di fondo tra classe del capitale e classe del lavoro salariato di ogni colore, che rimanda anche la “specifica” questione nera.
E il carattere sempre più acuto di questo antagonismo è illustrato da Gaggi con uno sguardo non alla “cintura della ruggine” delle aree de-industrializzate, bensì alla scintillante Silicon Valley dei miracoli informatici, la terra di Google, Apple, Facebook, terra di “successo tecnologico [e] fallimento sociale”. Una regione dove “se vuoi dormire sotto un tetto devi spendere almeno 3mila dollari al mese”, per cui la gran quantità di lavoratori comuni dei servizi, per lo più ispanici, che pure hanno la difesa di un salario minimo di 15 dollari l’ora, è costretta a scegliere tra il pendolarismo (facendo fino a 300 km al giorno) “oppure dormire in auto e fare l’abbonamento a una palestra, dove, al mattino, si andrà per radersi, fare la doccia e cambiare i vestiti”. Questo dalla ultima frontiera del capitalismo digitale che tante illusioni ha creato anche nel mondo dei fu-“antagonisti”, specie in Italia.
Lawanda Leary and her son, Reginald, live in a massive housing complex for low-income families. Leary, an unemployed single mom, is planning to join the military as a way to get benefits and offer financial stability to her son, even if it means going into a war zone and being away from him.
Sulla condizione del proletariato negli Usa il giornalista del Corriere è piuttosto povero di notizie. Qualche spunto, però, c’è. L’accenno all’esercito dei working poor, ad esempio: al 2015, per Oxfam America, quasi la metà dei salariati statunitensi aveva un salario ai limiti della sussistenza. I circa 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la “giustizia” – l’Amerika è, dopotutto, la terra del carceral capitalism – e scompaiono d’incanto dalle statistiche federali, ma non dalle aree più marginali del mercato del lavoro. Non sono gli unici ad essere fuoriusciti dal mercato del lavoro ufficiale – dal momento che, come osserva N. Eberstadt (Our Miserable 21st Century, nella rivista “Commentary”), il quadro trionfale di piena occupazione vantato da Trump&Co. non corrisponde alla realtà dei fatti, segnata da un enorme spreco/distruzione di forza-lavoro demoralizzata che vive nella marginalità (a cui appartiene la gran parte dei 50.000 statunitensi che ogni anno muoiono, semi-abbandonati, per carenza di cure mediche), a fronte di un’intensificazione delle prestazioni lavorative degli occupati ossessionati dal rischio di perdere il lavoro.
Non è il caso, sulla base di questi ed altri elementi, di pensare alla scomparsa di una classe operaia ascesa, nel corso di decenni di completo dominio yankee sul mercato mondiale, ai consumi e al modo di vedere le cose della middle class. Sarebbe un’ingenua semplificazione. Così come sarebbe ingenuo pensare che la decadenza dal precedente status di aristocrazia operaia debba produrre, di necessità, una rapida radicalizzazione classista. Abbiamo visto votare per Trump settori operai (non la classe operaia, o l’intero proletariato statunitense!, come nella retorica anti-operaia dei clintoniani). Ma sta di fatto che le nuove generazioni del proletariato multinazionale e multicolore degli Stati Uniti di oggi, quelle che vediamo in campo in queste settimane, con in testa le giovani e i giovani neri, hanno la “gloriosa storia” della ascesa sociale delle precedenti generazioni proletarie definitivamente alle loro spalle. E la stupefacente preferenza ideologica per il “socialismo” del 51% dei giovani statunitensi, la loro scarsa fiducia nelle magie del mercato e nella democrazia (secondo un recente sondaggio della Gallup), la loro delusione, insomma, nei confronti del capitalismo, rimanda a quel nesso oggettività-soggettività che per noi marxisti è fondamentale.
D’altra parte è sulla schiena di questo proletariato giovanile, e su quello dei forgotten men sedotti dalla demagogia trumpiana, che la Goldman Sachs e i suoi pari, sia negli anni di Obama che in quelli seguenti, hanno scaricato il raddoppio del debito di stato dai 12.311 miliardi di dollari del 2009 ai 23.200 miliardi di dollari del 2019 (pari al 107% del pil). Certo il perdurante primato del dollaro, di Wall Street e del Pentagono consente al capitale statunitense di fare tuttora fronte a questo indebitamento conciando la pelle del proletariato di tutto il mondo (o quasi) e continuando ad incassare ancora montagne di sovra-profitti, ma i “bei tempi” del dominio assoluto e dei salari cinesi pari a un trentesimo di quelli statunitensi sono finiti. E non potranno tornare.
I punti di forza
“L’America comunque non fallirà – ammonisce Gaggi – perché continua a godere di straordinari vantaggi: autosufficienza energetica e alimentare, disponibilità di un gran numero di materie prime, bassa densità della popolazione ed elevato reddito pro-capite”. Gode, inoltre, di una invidiabile posizione geografica che la isola dalle aree del mondo in cui più endemici e distruttivi sono i conflitti bellici. Continua a giovarsi – poi – del signoraggio del dollaro, che resta (nonostante euro e renminbi) la moneta di riserva del mercato mondiale; di un sistema bancario collegato a Wall Street che, attraverso il circuito Swift, ha il controllo sui pagamenti internazionali; di una rete di influenze culturali tuttora formidabile; di un’ideologia dell’“ottimismo tecnologico” tuttora molto dinamica (e l’ideologia diventa una forza materiale quando si impossessa della mente di masse di individui). L’America “comunque non fallirà” perché ha una potenza militare senza eguali al mondo (la sua spesa militare è stata, nel 2019, pari al 38% del totale della spesa mondiale per armamenti); perché ha “capacità progettuale e tecnologica, istruzione, gestione virtuosa dell’immigrazione a fini di sviluppo economico”; perché ha reti di alleanze in ogni continente; perché è all’avanguardia nella tecnologia di ultima generazione (Google, Apple, Facebook, Twitter, etc.) e nella logistica e nei servizi corrispondenti (Amazon, Uber, WeWork, etc.) – anche se in tutti questi campi le big cinesi tallonano le big statunitensi sempre più da vicino. Ed anche se, in generale, gli investimenti ristagnano negli Usa, specie nei settori in cui impera l’oligopolio e la protezione statale, e la produttività cresce meno, o molto meno, del previsto.
Infatti, non è del “fallimento” degli States che si tratta. Se abbiamo recensito questo libro, è perché il suo autore, preoccupato per le sorti del paese “posto sulla collina a indicare la via a tutte le altre nazioni”, baluardo del capitalismo globale da molti decenni, fornisce un quadro incompleto (parla assai poco della condizione delle donne, ad esempio, e degli immigrati), ma veritiero delle lacerazioni profonde che fanno degli Stati Uniti una società sempre più spaccata e polarizzata. Per non far esplodere a catena tutti i conflitti sociali che sta alimentando, il capitalismo statunitense deve usare metodi brutali sia con i suoi avversari che con i suoi alleati, la famosa mazza da baseball del keynesiano Roosevelt (dalle sanzioni al fosforo bianco di Falluja), per conservare un primato mondiale che non riesce più a tenere saldamente in mano. Ma proprio perché non ha più grandi anticipi da fare e “aiuti” da spargere per il mondo come ai tempi del piano Marshall, bensì ha urgente, crescente bisogno di essere “aiutato” dai prelievi forzosi di plusvalore, di interessi e di rendite operati in tutto il mondo, deve difendere e riaffermare quella “iper-espansione imperiale” che comporta l’obbligo di destinare una ciclopica quantità di risorse al proprio apparato militare-industriale, da sottrarre alla spesa sociale e all’attenuazione delle disuguaglianze sociali tanto invocata dai “riformatori”.
Con una certa lungimiranza, prima ancora dell’attacco alle Torri Gemelle e di tutto quello che ne è seguito, Ch. Johnson aveva scritto nel suo Gli ultimi giorni dell’impero americano:
“Sebbene all’inizio del nuovo secolo gli Stati Uniti sembrino disporre della potenza di fuoco e delle risorse economiche necessarie per neutralizzare questa minaccia, ritengo che la nostra stessa superbia sia destinata a condurci al disastro. Un errore classico degli amministratori di imperi è quello di finire con il convincersi che non esista luogo nell’ambito della loro sfera di dominio – nel nostro caso, il mondo intero – in cui la loro presenza non sia indispensabile. Prima o poi diventa psicologicamente impossibile sfuggire all’idea di coinvolgimento globale, la quale altro non è che un sinonimo di iper-espansione imperiale.” (pp. 308-9).
Eagle Butte is the biggest town on the Cheyenne River Indian reservation in South Dakota. People who live in remote communities drive up to 90 miles to Eagle Butte—the only place to buy groceries or look for a job. To move closer to town is difficult for Native Americans because there is a shortage of housing and almost half of the population lives under the poverty level. The gas station that also has a convenience store and fast food restaurants serves as one of the only places where people can meet and socialize.
Naturalmente la “superbia” e la “psicologia del coinvolgimento globale” non sono patologie portate da invisibili virus di ignota origine. Sono il portato delle ferree leggi del capitalismo che si innervano con speciale violenza, fino a possederli, nel “cervello sociale” dei funzionari del capitale più fortemente centralizzato. Il crack dell’Amerika nasce da questo contrasto insanabile tra esigenze, sempre più difficili da realizzare, di un ulteriore rush di centralizzazione della ricchezza socialmente prodotta e la “società dei produttori”, la classe proletaria interna e internazionale, sempre meno disposta a subire le dosi aggiuntive di espropriazione, oppressione, povertà, umiliazioni, razzismo che sono necessarie, assolutamente necessarie, al buon funzionamento della macchina. È in forma nuova il vecchio antagonismo tra rapporti sociali di produzione capitalistici e forze produttive sociali. E non è certo un caso che questo crack si stia materializzando in concomitanza con lo scoppio della più profonda crisi dell’intera storia del capitalismo. Di cui è insieme segno e moltiplicatore. Da questo crack emerge d’improvviso con il volto fresco, battagliero di una nuova generazione di proletari/e neri/e e di ogni colore, che non ha più bisogno di maschere posticce, lo spettro della rivoluzione sociale là dove eravamo certi che sarebbe ricomparso. Bentornato!
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