Il caos libico frutto avvelenato della guerra “umanitaria” per il petrolio

NATO do me a favor don't do me any more favors

I frutti dell’intervento “umanitario” eurostatunitense del 2011 in Libia sono sotto gli occhi di tutti.

Il paese è nel caos e le due principali città sono sotto assedio. Più che uno scontro fra due fazioni è una guerra di tutti contro tutti in cui si intrecciano rivendicazioni autonomiste e tribali, interventi di bande locali e di militari allo sbando, scontri interimperialisti per il controllo dei pozzi.

Nel 2011 a fronteggiarsi come poli politici opposti erano Tripoli e Benghazi, capitali l’una della Tripolitania, l’altra della Cirenaica. Oggi lo scontro politico sembra principalmente fra due città della Tripolitania, Zintan e Misurata.

Il separatismo della Cirenaica e il blocco dei terminal petroliferi

Dopo la caduta di Gheddafi, le città dell’est (Benghazi, Jalu, Darnah e Tobruk) continuano a sentirsi sacrificate da Tripoli e a chiedere maggiore federalismo e autonomia; nel settembre 2013 la Cirenaica ha eletto un proprio governo di 20 membri non riconosciuto da Tripoli, con Abdrabbo al-Barassi come premier. Le richieste di questo governo ombra sono di avere anche a Benghazi la sede della National Oil Corporation (NOC), della Libyan Airlines e della Libyan Insurance Company. Ma intanto la Cirenaica è sempre più povera e una delle ragioni di malcontento è che le compagnie petrolifere non assorbono la manodopera locale.

Per questo uno dei leader dell’est, Ibrahim Jedran, nell’agosto 2013, con la sua milizia, la brigata Ali-Hussein-Jaber, ha occupato quattro terminal petroliferi situati a est, causando una perdita di circa 14 miliardi di $ nell’export. La paralisi produttiva costa all’Eni il blocco dei pozzi cirenaici di Abu Attifel e di Bouri con un salasso pari a circa 120mila barili di greggio al giorno.

L’esempio di Jedran è stato seguito da altre milizie. Tutte ufficialmente chiedono l’assunzione di libici negli impianti, ma lo scopo non tanto recondito è di vendere il petrolio autonomamente. Tobruk ha addirittura creato una propria compagnia petrolifera, la Libyan Gas and Oil Corporation dal momento che la Cirenaica trabocca di gas e petrolio; le compagnie petrolifere straniere, compresa l’Eni, non hanno escluso a priori la possibilità di trattare con questi gruppi, che bloccano da otto mesi la fornitura di petrolio. Soprattutto dopo che l’11 marzo 2014 i ribelli hanno caricato 234 mila barili di petrolio (valore 35 milioni di $) sulla Morning Glory, una petroliera egiziana battente bandiera nordcoreana, che è uscita indenne dalle acque territoriali libiche (ma bloccata poi da navi Usa).

Le milizie e il debole governo di Tripoli

L’incapacità a gestire questa crisi è stato “uno dei chiodi sulla bara” politica di Al Zeidan, che era primo ministro dal 14 ottobre 2012. Dopo la caduta di Gheddafi la Libia si è sfaldata in tanti piccoli feudi, ognuno col proprio “signore della guerra”. Il governo di Tripoli governa solo su scampoli di territorio. Nessuna delle milizie che ha contribuito alla caduta di Gheddafi ha deposto le armi e tutte hanno proprie prigioni e prigionieri, a volte presunti complici del vecchio regime, a volte persone rapite per riscuotere un riscatto. Tali gruppi paramilitari godono di vari appoggi in parlamento, perché diversi blocchi di potere interni all’assemblea hanno cercato di aumentare la propria forza legandosi a milizie esterne. Milizie che hanno propri obiettivi ma accettano l’influenza di chi garantisce rifornimenti di armi o altro.

Assassinii e rapimenti sono all’ordine del giorno. Il 9 ottobre 2013 è stato rapito lo stesso premier Ali Zeidan, rilasciato dopo 6 ore, forse una vendetta per l’arresto di Abu Anas al-Libi sospettato dagli Usa per gli attentati di Nairobi e Dar el-Salaam. Nell’occasione Zeidan fu accusato di essere un fantoccio degli americani e gli furono rubati effetti personali e documenti confidenziali. In realtà gli Usa hanno arrestato il terrorista senza avvisare il governo libico: Sigonella in Sicilia è diventata la base delle forze speciali Usa nel Mediterraneo e la sede della Quick Reaction Force dei marines.

La popolazione senza luce, acqua e cibo

Il caos ha nettamente peggiorato le condizioni della popolazione. I capi locali non riescono più a garantire acqua ed elettricità; la fornitura di elettricità è attualmente dimezzata, le infrastrutture non sono più soggette a manutenzione. L’insicurezza rende sempre più irregolare anche la fornitura di cibo e medicine nelle aree più isolate. Privato di buona parte degli introiti da petrolio, il governo libico non gestisce più le importazioni di grano; il paese è privo di un proprio settore agroindustriale, quindi lo spettro della fame comincia ad affacciarsi. Le milizie che occupano i terminal petroliferi possono mobilitare intere tribù sostenendo che agiscono per garantire cibo e lavoro.

Il governo ostaggio di Zintan e Misurata

Alla fine di settembre 2013 anche il Fezzan, strategico perché produce gas, acqua, prodotti agricoli, servizi sanitari, ha dichiarato la sua indipendenza. Nell’area del Fezzan, a sud-ovest, si trova Elefante, soprannome del pozzo El Feel, scoperto nel 1997 da un consorzio internazionale in cui il 33% dei diritti spetta a Eni, con riserve per 700 milioni di barili. Il 15 febbraio 2011 Eni e Russia hanno firmato a Roma uno storico contratto con cui l’Eni cede il 50% dei suoi diritti di sfruttamento a Gazprom. Una scelta di Berlusconi che irrita profondamente Obama e lo convince a intervenire in Libia a fianco dei francesi (cfr. documenti pubblicati da Wikileaks).

Nell’agosto 2013 la tribù Zintan, insediata nel Jabal al-Nafusa, nella Libia occidentale, ex feudo di Rashid Ghannuchi, ha bloccato gli oleodotti che collegano i giacimenti di El Sharara e di El Feel, nel Fezzan, ai terminali di esportazione di Zawiya e di Mellitah, chiudendo l’attività estrattiva e facendo crollare, da settembre 2013, la produzione a 200-240mila barili al giorno. Lo scopo: contrattare più fondi per progetti locali. Zintan garantiva la protezione del premier al Zeidan cui forniva due distinte milizie (al-Qaaqaa e al Sawaaq).

Quando l’8 aprile 2014 il premier Al Zeidan è fuggito in Europa, travolto dallo scandalo della Morning Glory, viene sostituito dal ministro della difesa Abdullah al-Thanay, che firma una fragile tregua con Jedran e ottiene la riapertura di due porti (Zueitina e Hariga, capacità 110 mila barili al giorno), oltre alla riapertura degli impianti di al-Sharara, al-Feel e al-Wafa. Grazie al nuovo clima distensivo la Francia invia una delegazione di uomini d’affari a trattare con la tribù Zintan (cfr Maghreb Confidentiel N°1107, aprile 2014, titolo “Zintan, nouvel eldorado des Français”). Ma al-Thanay si dimette il 28 aprile per le continue minacce alla sua famiglia

A Tripoli le milizie islamiche si sono impadronite dei principali hotels e dell’areoporto, dove staziona la banda di Abdulhakim Belhadj, che fa capo al partito al Watan (= Partito Nazionale), di ispirazione salafita, non rappresentato in Parlamento, legato a doppio filo con il Qatar.

La tribù Zintan propone come premier Omar al Hassi, ma altre milizie impongono al Parlamento la nomina di Ahmed Maiteeq, 42 anni, uomo d’affari, imparentato con la potente dinastia al Swaihli di Misurata e sostenuto anche dalla comunità degli affari di Tripoli (Al Jaz.12 maggio). L’elezione di Maiteeq è contestata dalle bande che controllano i terminal petroliferi di Ras Lanuf e Es Sider (che insieme hanno una capacità di 550 mila barili al giorno). Secondo il Giornale (20 maggio) Maiteeq è un emulo dei Fratelli Mussulmani.

Gli scontri armati a Tripoli e Bengazi

Infine il 17 maggio uomini armati appartenenti alle brigate Zintan si impadroniscono dell’aeroporto di Tripoli, sciolgono il General National Congress (GNC) di Tripoli, che ha appena approvato il bilancio 2014 e indice elezioni entro tre mesi. (Al Jazeera 20 mag14).

L’azione delle brigate Zintan sembra perfettamente coordinata con l’operazione “dignità per la Libia”, dell’ex generale Khalifa Qassim Haftar, 65 anni, che il 16 maggio ha sferrato un attacco aereo (con droni forniti dagli Usa), seguito da intervento a terra (“operazione dignità”) contro le bande armate di Benghazi. A Benghazi opera Ansar al-Sharia, un gruppo integralista islamico tacciato di terrorismo dagli Usa (il gruppo è accusato per l’attacco del 2012 all’ambasciata Usa a Benghazi; di aver ucciso artisti, scrittori, giornalisti e islamici moderati, di aver rapito l’ambasciatore giordano). Secondo il Nyt il gruppo è finanziato dall’Arabia Saudita o almeno da notabili della casa reale, ma è più probabile che siano al soldo del Qatar. Il Qatar ebbe un ruolo di primo piano nella guerra del 2011, a causa del suo interesse per le riserve di gas libico e ha sempre rifiutato di recuperare le armi cedute ai ribelli di Benghazi.

Nell’attacco sferrato da Haftar a Benghazi muoiono 79 persone (nota Reuter). L’aeroporto di Benghazi viene chiuso. Haftar dichiara di voler sciogliere le bande armate che sconvolgono il paese, ripristinare il controllo dell’esercito, riportare l’ordine e la legalità. E approva lo scioglimento del GNC, perché è “un covo di bande islamiche contigue ad Al Qaeda”.

Secondo le Monde Diplomatique Haftar (che aveva disertato nell’87, dopo la disfatta nella guerra contro il Chad, per evitare le vendette di Gheddafi e dal 1992 vive negli Usa) è l’uomo della Cia in Libia, il futuro Karzai del paese; dal 2001 guida il “Libyan National Army” (LNA), finanziato appunto dalla CIA. In questi ultimi giorni Haftar ottiene l’appoggio del colon. Wanis Abu Khamada comandante delle Forze Speciali Libiche e dell’aeronautica militare di stanza a Tobruk.

Il canale radio di Ansar al-Sharia viene fatto saltare in aria e gruppi armati coordinati con Haftar occupano la TV al-Ahrar.

La guerra di tutti contro tutti

Tuttavia Haftar è lungi dall’essere vincitore; se reparti dell’esercito sono con lui, il comando lo accusa di aver utilizzato reparti dell’esercito senza autorizzazione. Ma del resto l’esercito è stato incapace di riaprire i porti e sciogliere le milizie. E il governo ha trattato con le milizie perché non era in grado di sottometterle. Uno scenario afgano o irakeno in Libia è assolutamente possibile.

Intanto il presidente del GNC ha ordinato la mobilitazione delle milizie di Misurata in difesa del Parlamento e per impedire a Haftar di prendere Tripoli (Figaro 19 maggio). Le Milizie di Misurata erano state fatte ritirare da Tripoli a metà del 2013 perché fonte di disordini. Sono affiliate alle Libya Shield Forces, un organismo creato nel 2012 per mettere ordine fra gli ex combattenti e ribelli e inquadrarli in modo organico; in realtà l’ennesima milizia che combatte contro altre milizie tutte ufficialmente facenti capo al Ministero degli Interni.

Gli Usa hanno approntato a Sigonella strutture di accoglienza nel caso si dovessero evacuare d’urgenza i loro cittadini Usa. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno chiuso le loro rappresentanze diplomatiche a Tripoli. La Turchia ha chiuso il suo consolato a Benghazi. La Total ha ritirato da Tripoli gli impiegati.

L’Algeria ha chiuso le sue frontiere con la Libia, salvo per i propri concittadini e schierato 10 mila militari lungo il confine. Anche la Tunisia ha chiuso le frontiere mentre l’Egitto ha espresso preoccupazione per il flusso di armi e guerriglieri che provengono dalla Libia, “santuario dei gruppi jihadisti”.

Libia-Eni

Gli sforzi congiunti degli imperialismi occidentali e delle monarchie del Golfo di rinegoziare la spartizione delle risorse energetiche della Libia attraverso il conflitto del 2011, espellendo russi e cinesi, ha portato al crollo dell’export libico (di qui le preoccupazioni dell’Eni di recente passata sotto la gestione Marcegaglia), ma soprattutto ha creato una nuova Somalia direttamente sul Mediterraneo. Un paese in cui i civili in balia a bande irregolari vedono crollare i loro standard di vita e da cui inevitabilmente centinaia di profughi cercheranno di fuggire.

A noi comunisti il compito di denunciare e contrastare le manovre degli imperialismi complici se non promotori di queste tragedie, a partire dall’imperialismo italiano, da ormai un secolo in prima fila nello sfruttamento delle ricchezze del paese.