Il 25 settembre, e il dopo – Tendenza internazionalista rivoluzionaria

Due sono i fatti salienti delle elezioni del 25 settembre, e riguardano due campi sociali diversi. L’esplosione dell’astensionismo riguarda essenzialmente il campo operaio-proletario, e in seconda battuta il mondo giovanile. La vittoria di Meloni/FdI riguarda invece essenzialmente il campo della piccola e media borghesia accumulativa.

L’esplosione dell’astensionismo

L’astensione dal voto è una tendenza di lungo periodo in tutti i paesi occidentali, maturata (e studiata) prima negli Stati Uniti. Limitandoci all’Italia repubblicana, l’affluenza alle urne è stata superiore al 90% fino alla fine degli anni ‘70, tra le più alte al mondo, ed è rimasta fino al 2008, per quasi quaranta anni, intorno all’80%. Dal 2008 in poi l’astensionismo ha accelerato la sua corsa: 19,5% nel 2008, 24,8% nel 2013, 27,1% nel 2018.

In quest’ultima tornata di elezioni politiche il balzo al 36,2% è stato senza precedenti, uno dei dieci maggiori crolli di affluenza nella storia dell’Europa occidentale dal 1945 – 35 milioni di votanti, 16,5 di non votanti, da cui vanno sottratti 3-4 milioni di non votanti involontari per ragioni di salute, di lavoro, etc. Questi dati ridimensionano fortemente il peso sociale dei vari partiti: su 100 elettori, meno di uno su sei ha votato per FdI, meno di uno su nove per il Pd. Gli astenuti sono quasi pari alla somma dei voti andati alle destre e al Pd… (Quanto al milione e trecentomila schede bianche e nulle, il fenomeno è solo in parte assimilabile a quello del non andare a votare, ne parliamo in altra occasione.)

La connessione tra il periodo di ricorrenti crisi e l’esplosione della diserzione dalle urne è palese. Altrettanto palese è l’abisso che si è creato tra un ceto politico ultra-privilegiato e una massa crescente di lavoratori e lavoratrici spinti nel tritacarne di una illimitata precarietà, a rischio crescente di precipitare nella povertà. Su questo aspetto le poche indagini serie sono concordi: la “propensione a recarsi alle urne” aumenta con la stabilità economica, diminuisce al peggiorare delle condizioni di vita. Il 25 settembre l’astensionismo – secondo l’istituto Ixé – ha toccato il 50% “tra chi si dichiara in difficoltà economiche”. Ed è cresciuto molto più al Sud (+13,5%) dove più diffuso è il malessere sociale che al Nord (+7-8%, a seconda delle aree). Pochi dubbi, perciò: il balzo in avanti del rifiuto delle urne riguarda principalmente operai, proletari, salariati in attivitò o pensionati – uno/a su due di loro non è andato a votare. Scambiare ogni astensione per un voto anti-sistema, fa ridere. Ma per molti non votare è la conseguenza di una presa d’atto che i protagonisti dello show elettorale non hanno nulla di credibile da dire a chi consuma la propria esistenza nel lavorare sotto padrone, o nell’inseguire un lavoro quale che sia. E’ una prima, embrionale presa di coscienza del fatto che il voto come singolo individuo non può incidere sul miglioramento della propria condizione, ed anche che i governi si fanno e si disfano indipendentemente dalle elezioni – l’ultimo decennio italiano ne è stata un’ottima dimostrazione. Dal rifiuto di andare a votare all’entrare in lotta “per sé” il passo non è breve, né scontato. Per contro, i proletari che sono andati a votare convinti che sia il caso di difendersi anche con il voto, non per questo sono da considerare refrattari ad entrare in azione. E’ il caso, ad esempio, di quanti hanno votato, soprattutto al Sud, per i Cinquestelle pensando di impedire in questo modo lo scippo del reddito di cittadinanza (in media 500 euro al mese) da parte di quanti “guadagnano cinquecento euro al giorno” – secondo la felice battuta del Conte descamisado delle ultime settimane. [Di questo voto, variamente criminalizzato, parliamo nel testo Sull’attacco terroristico al reddito di cittadinanza.]

Non siamo astensionisti di principio. Per noi il discrimine non corre tra lavoratori/lavoratrici votanti e non votanti. Per questo abbiamo sintetizzato la nostra posizione con “Altro che voto! Lotta e organizzazione di classe”. Tuttavia, al contrario dei fautori delle liste “anti-sistema” che vanno piagnucolando contro l’astensionismo che li avrebbe privati del seggio in parlamento, per noi il rifiuto massivo di recarsi alle urne è un buon segnale. Il segno che la squallida demagogia nazionalista, ultra-nazionalista, reazionaria o paternalista che ha dominato la contesa elettorale delle passate settimane non è riuscita a fare breccia in tanti soggetti sociali conquistabili alla prospettiva della lotta al capitalismo. Tra questi, molti giovani orientati ai “valori della sinistra”, della vecchia sinistra – il che può costituire una buona base di partenza per passi ulteriori.

La vittoria è di Meloni/FdI, non delle destre

Quanto alla vittoria di Meloni/FdI, la prima cosa da chiarire è che non è stata una vittoria delle destre, bensì una vittoria di Meloni dentro il perimetro delle destre, che non si è allargato e tanto meno è diventato egemone nella società. La coalizione vincente ha preso 12 milioni e 300.000 voti, appena 150.000 voti in più del 2018, un’inezia, ma 800.000 in meno delle europee del 2019. Gigantesco è stato invece l’esodo di voti dalla Lega e FI verso la fiamma tricolore (ripitturata a stelle e strisce), stimato in 4-5 milioni, una parte dei quali era stato conquistato dalla Lega nel 2019 al Pd e ai 5S. Come ha scritto il Corriere della sera, il grande esodo ha riguardato proprio la base sociale tradizionale del binomio Berlusconi-Lega: “le imprese piccole e medie, gli artigiani e i commercianti, le partite Iva, un universo intero che ha fiducia in sé prima che sfiducia nello stato”. Cosa indicativa: il record di consensi (32,7% dei votanti, nel 2013 era l’1,9%) è stato raggiunto da FdI proprio in Veneto, paradiso dei piccoli, e non tanto piccoli, accumulatori, sempre più al nero carbone. La fiducia in sé di questi settori del capitale è in calo, sicché il plebiscito per Meloni è una richiesta di stabilità, protezione statale ordine, in vista di mesi e anni di grandissime turbolenze. “Imprese italiane, con capitali italiani e lavoratori italiani” è uno slogan accattivante per una platea del genere – salvo per il terzo aspetto che appartiene all’infame propaganda anti-immigrati, ma nessuno meglio di padroni e padroncini padani lo sa (senza i milioni di lavoratori immigrati, sarebbero già andati a picco in tanti). Voti operai e proletari alle destre? Anche. Di retroguardia. Passivi, dietro al singolo padrone o direttore di supermercato; o dati per conformismo al vincitore annunciato, al cosiddetto volto nuovo (che è in parlamento da quand’era ragazza, una professionista della politica padronale); e/o di disperazione, l’ultima carta da giocarsi (“li abbiamo provati tutti”). Niente a che vedere con l’adesione agguerrita, non di rado militante, alla Lega Nord negli anni ‘90 di settori operai attivi, inclusa qualche avanguardia di lotta della FIOM – allora si tentò addirittura la costruzione di un sindacato leghista, il Sinpa.

Le vele di FdI sono state gonfiate, quindi, da quella massa erratica di ceti medi accumulativi che da tempo non ha più un suo stabile punto di riferimento politico, ed è percorsa da paure crescenti per la propria stessa sopravvivenza – lo esprime la velocità del cambiamento di preferenza nelle urne. Tra costoro lo zoccolo duro autonomista è rimasto fedele alla Lega, anche se le pulsioni secessioniste appartengono ormai ad un’altra era geologica. Il grandeggiare dei pericoli internazionali – pandemia, inflazione, guerra, recessione in arrivo – ha prevalso, e ha fatto preferire il progetto di protezionismo nazionale presentato da Meloni, finalizzato a difendere l’intera industria, l’intera economia nazionale. Del resto nel programma economico di FdI non c’è nulla di insidioso per gli strati medio-bassi della classe capitalistica. Il programma, infatti, resta sostanzialmente nel solco del liberismo berlusconiano, lontano da qualsiasi suggestione da “fascismo di sinistra” à la repubblica di Salò, o anche solo di tipo corporativo classico. Non contiene particolari insidie neppure per il grande capitale, se non – in astratto – per le scorribande dei capitali esteri speculativi, che potrebbero profittare della difficile congiuntura per lucrare sul dissesto delle finanze italiane. Lo ha certificato L. Fink, il capo del fondo BlackRock, uno che, gestendo 8.500 miliardi di dollari, se ne intende: “Ho parlato con diversi amministratori delegati in Italia e ho notato un ottimismo con cautela. Mi ha piuttosto sorpreso, ma dai leader del mondo degli affari ho sentito più ottimismo che preoccupazione. Poi, ovvio, la composizione del governo sarà molto importante”. Non c’è stata, finora, l’impennata dello spread desiderata dai draghiani, perché i pescecani dei mercati finanziari “non credono che la Meloni e le destre metteranno in atto i loro programmi”.

Certo, il grande capitale nazionale e internazionale avrebbe preferito la continuità del potere di Draghi. Ma i cavalieri serventi del semi-dio, Pd e Calenda-Renzi (una prece per Di Maio), non potevano raccogliere alcuna simpatia popolare, e tanto meno proletaria sventolando l’“agenda Draghi”. Il 23% ottenuto nel centro del centro di Milano vantato da Calenda se lo fanno a brodo, almeno fino a quando non reintrodurranno il voto per censo riservandolo al solo 1% della popolazione. Non sono stati in grado neanche di intercettare l’inquietudine dei ceti medi accumulativi perché troppo appiattiti sull’intoccabilità dei capitali globali, sulle istituzioni sovranazionali e sugli strati sociali privilegiati più fortemente intrecciati con lo stato. Questo mostra quanto è difficile costruire un solido blocco tra grande, media e piccola borghesia quando lo sviluppo dell’accumulazione è così asfittico come in questi anni, e si prospetta addirittura una nuova caduta della produzione, forse lunga anni.

Il fallimento del Pd, che si trova ora davanti all’ennesimo cambio di segretario e di nome, se non al suo definitivo scioglimento, e il presunto (inesistente) successo di Calenda, la brutta copia di Monti, sono due facce della stessa medaglia: c’è sempre meno spazio per una liberaldemocrazia da tempi di sviluppo, sia pure molto rallentato. Da ora, e per un periodo non breve, saremo dentro un seguito di spaventose crisi e guerre. Non è tempo di fighetti dei Parioli, per giunta deficienti; per quanti soldi e spazi televisivi gli vengano regalati dai padroni del vapore, non possono sfondare. Per catturare l’attenzione del “popolo sovrano” e gabbarlo, meglio, molto meglio, la Giorgia che “viene dalla Garbatella”, ha un discreto QI o QF (quoziente di furbizia) e una buona oratoria.

Un nazionalismo più aggressivo è la via obbligata

E qui veniamo al dunque. Le elezioni del 25 settembre sono state dominate dal contesto internazionale più ancora, se possibile, di quelle di 4 anni fa. Non è questione soltanto delle macroscopiche ingerenze dei governanti di Stati Uniti, Unione europea, Germania, Francia, Russia, Israele e finanche Ungheria, Polonia, etc. Il fatto è che i margini di manovra del capitalismo nazionale, rispetto al 2018, si sono ulteriormente ridotti, nella misura in cui la crisi complessiva del sistema capitalistico è diventata ancora più caotica, e si muove a passo sostenuto verso uno scontro militare globale. Nel 2018 si era da poco entrati, con la presidenza Trump e il suo Make America Great Again, ovvero America First, in un ciclo neo-protezionista fatto di dazi e propaganda anti-cinese. Nel 2022 la guerra NATO-Russia sul suolo ucraino segna un punto di non ritorno nel passaggio dalla contesa economica allo scontro militare (quasi) aperto tra grandi potenze. I conflitti di interessi economici sono spinti agli estremi. In questo contesto di acutizzazione della competizione inter-capitalistica, anche tra alleati, la via di un nazionalismo più aggressivo è obbligata, dentro l’Unione europea e a scala internazionale. A riguardo Meloni/FdI danno buone garanzie alla cupola del capitale nazionale. “Italia sovrana” è stato lo slogan politico centrale della loro campagna elettorale. Il loro bellicismo anti-russo (che insiste tutt’oggi, fino al ridicolo, sul soviettismo nascosto di Putin, molto, molto, molto nascosto in effetti, visto che non perde occasione per attaccare la politica di Lenin e dei bolscevichi) è comunque più solido di quello leghista e berlusconiano. FdI è il partito di destra più legato ai giochi amerikani contro l’Unione europea, e specificamente contro la Germania. Un partito da sempre euro-scettico (Meloni era contro l’istituzione dell’euro) e stretto sodale, anche sul piano culturale, della quinta colonna yankee nella UE, la Polonia del partito Diritto e giustizia, uno dei perni dell’Internazionale nera che ha messo nel suo mirino in tutto il mondo le donne e gli immigrati.

La borghesia italiana cerca da decenni di tenere assieme atlantismo filo-americano ed europeismo, ma le due fedeltà coincidono sempre meno. Gli Stati Uniti hanno aperto da tempo un’offensiva economico-politica-strategica contro l’UE per spezzarne i forti legami commerciali e industriali con Russia e Cina, e impedire la nascita di un blocco euro-asiatico. Dallo scoppio della guerra in Ucraina, fortissimamente voluto da Washington (specie dai democratici) e per il suo continuo aggravamento, questa offensiva è arrivata ad impedire l’apertura del Nord Stream II e a mettere fuori uso anche il Nord Stream I con gli attentati di giorni fa. Dal punto di vista dell’asse Wall Street-Pentagono, nulla va risparmiato pur di colare a picco l’economia tedesca, e con essa l’Europa. Grazie alla guerra in Ucraina, la Germania ha davanti a sé la peggiore congiuntura economia del dopoguerra. Le eccezionali, fulminee contro-misure tedesche – 100 miliardi per il proprio riarmo, no al tetto al prezzo del gas russo, 200 miliardi per tutelare “imprese e famiglie” contro l’impennata dei costi energetici – dicono di quanto è pesante l’affondo statunitense. E che il governo tedesco è determinato a scaricare sui partner europei quanti più costi è possibile per tutelare la propria economia e la pace sociale, magari rinfacciando all’Italia di avere fatto altrettanto (in proporzione) con fondi dell’Unione europea. La Germania egoista nel suo “sovranismo”? Ma nell’intensificazione della concorrenza su scala mondiale, tutti i paesi, non solo la Germania, stanno adottando – in proporzione alle proprie forze – politiche di difesa attiva degli interessi nazionali. Nel caso europeo, a scapito della coesione dell’Unione.

L’immediato allineamento del premier in pectore Meloni alla dura protesta di Draghi contro Berlino, di sicuro le ha fatto guadagnare altri punti davanti ai poteri forti nazionali, che un passo dopo l’altro si vanno allineando agli Stati Uniti cercando di usare questo allineamento come forma di pressione sull’UE. Ciò non toglie che il governo nascente sarà sotto osservazione tanto da parte della UE che da parte degli Stati Uniti. Per il “governo scelto dagli italiani” sarà molto difficile districarsi in un groviglio di contraddizioni esplosive, a cominciare dal prezzo del gas. E i diretti interessati ne sono coscienti, tant’è che il primo consigliere della Meloni, Crosetto, capo degli industriali privati del settore bellico, insiste sullo stretto raccordo con il governo uscente, e con Draghi in particolare. Pochi dubbi ci sono sul fatto che l’esecutivo a guida FdI prenderà provvedimenti che peggioreranno le condizioni di vita di milioni e milioni di lavoratori, che cercherà di coprire con una retorica nazionalista o ultra-nazionalista, e con studiati messaggi simbolici del tipo: “affondare i barconi dei migranti”, “proteggiamo il diritto delle donne di avere figli”, etc.. Così verranno indorate le mazzate in arrivo.

Attenti alla retorica nazionalista, bellicista, razzista, maschilista!

Ecco perché sarebbe un errore imperdonabile limitarsi a denunciare le sole, pesantissime conseguenze materiali del processo combinato guerra-crisi/crisi-guerra e la sua gestione anti-proletaria da parte del nuovo governo, degno erede del governo uscente. Insieme a questo, dobbiamo contrastarne la ingannevole retorica a più facce. La difesa della patria sovrana contro il nemico straniero variamente indicato che la minaccia: la Russia, la Germania (perché no?), l’Unione europea con le sue burocrazie “globaliste” sorde alle ragioni dell’Italia e dei “popoli” europei, e – naturalmente – gli immigrati “clandestini”. La difesa dei produttori contro i mantenuti, ove per produttori si intende i padroni che devono beneficiare della flat tax, ma anche gli operai in quanto pagatori di tasse, e per mantenuti i percettori del reddito di cittadinanza, o una parte di loro, i disoccupati, gli emarginati. (C’è una versione leghista di questa tematica, preannunciata dall’ex-ministro Castelli per coprire le responsabilità dei capitalisti padani nella strage di morti sul lavoro: “migliaia di padani muoiono ogni anno per garantire il reddito di cittadinanza, il Nord non ce la fa più”). La difesa degli italiani e della loro identità contro gli immigrati in quanto tali, ‘clandestini’ o regolari che siano, colpevoli di essere la massa di manovra dei progetti mondialisti di “sostituzione etnica”. La difesa della donna con l’affermazione del suo ruolo principale di fattrice di braccia e operatrice di cura h24 per il mercato e per lo stato, contro la prospettiva della liberazione delle donne dal carcere domestico e l’autodeterminazione in materia di maternità. La difesa delle tradizioni – dio patria famiglia – contro tutto ciò che le insidia, a cominciare, naturalmente, dalla critica materialista storica dei rapporti sociali capitalistici e patriarcali, dalla denuncia del militarismo e del putrido nazionalismo. In tutti questi aspetti il futuro governo raccoglierà anche ciò che il governo Draghi e i governi precedenti hanno seminato: tanto per dire, un generale messo alla testa della “guerra al covid”, o i militari e i carabinieri liberi di scorazzare nelle scuole di ogni ordine e grado per incensare la prima guerra mondiale e il ruolo fondamentale dell’esercito e delle forze di polizia…

La battaglia contro il governo nascente, per essere efficace, dovrà tenere assieme tutti questi aspetti senza fare concessioni alla ferale distinzione tra “principale” e “secondario”. Dovrà raccogliere la sfida politica complessiva che questo governo porrà alla classe lavoratrice. Sicuri che quanto più limitate saranno le risorse a sua disposizione per prevenire o attenuare i più acuti disagi sociali; quanto più l’imperialismo italiano rischierà di perdere altre posizioni nella contesa mondiale e regionale; tanto più intensamente farà ricorso alla retorica nazionalista, militarista, sessista, razzista, e alle corrispondenti manovre di divisione del fronte potenziale degli sfruttati e degli oppressi. Siamo parte in causa, non commentatori politici. Per questo non ci interessa metterci a fare previsioni sulla durata del governo entrante, sul se riuscirà o no a conquistare la piena investitura del grande capitale e a contenere le sue interne divisioni, sulle chance che hanno Draghi e i draghiani (due entità distinte, sia chiaro) di prendersi una rivincita immediata, o a breve, sul se e quando si riformerà un governissimo di unità nazionale. Avendo le destre a lungo atteso questo momento, ce la metteranno tutta per non sprecare l’occasione e dimostrarsi all’altezza del compito. Per accreditarsi davanti al padronato, alla finanza internazionale e agli Stati Uniti, ma senza deludere la loro base sociale, e senza provocare un potente risveglio della lotta di classe. Un’equazione di difficilissima soluzione.

Alla lotta, all’organizzazione di classe!

Il quadro di così acute contraddizioni capitalistiche e inter-capitalistiche – il loro sistema è in una crisi storica! – e di ulteriore declino dell’Italia è aperto, da un lato, proprio alle tragiche soluzioni ultranazionaliste, dall’altro allo sviluppo della lotta di classe “dal basso”, che al momento appare congelata. Larghe sezioni del proletariato saranno messe spalle al muro e provocate, quasi obbligate con la forza, a difendersi. E a rompere su grande scala, nelle piazze e nei luoghi di lavoro, il lungo silenzio delle lotte, trovandosi di fronte un capitalismo indebolito dall’avvitamento nelle proprie contraddizioni.

Abbiamo assistito all’ennesima prova bancarottiera di quanti credono ancora, contro ogni evidenza, alle scorciatoie elettorali. La “lista di lotta” senza lotte di Unione popolare, dopo aver seguito tutti i rituali previsti per l’accreditamento mediatico con il suo capo politico De Magistris e il telegenico Cremaschi, si è rivelata il pallido surrogato di un Movimento Cinquestelle divenuto improvvisamente, in vista del 25 settembre, barricadero, a parole. Stessa sorte per la limacciosa alleanza “rosso”-bruna di Italia sovrana e popolare, uno sgorbio che non sai dire se era la brutta copia di Unione popolare, di Italexit o degli stessi Fratelli d’Italia, o cos’altro. Addio per sempre, quindi, al “popolo della sinistra” variamente collocato e frantumato, che sopravvive nel continuo rimpianto del passato, di un capitalismo dal volto umano, mentre tutta l’evoluzione dei rapporti sociali e degli eventi naturali ne mostra sempre più il volto feroce, inumano ed ecocida. Il lamento funebre di uno dei personaggi di queste liste “anti-sistema”, “Scopriremo dolorosamente – di nuovo – cosa vuol dire non avere voce”, è penoso.

La voce in capitolo i proletari potranno tornare ad averla solo ed esclusivamente con la lotta e la rinascita della loro organizzazione di classe, della loro organizzazione in partito politico, il proprio partito politico. Obiettivo ancora lontano. Non altrettanto lontana, crediamo, la ripresa delle lotte. La situazione diventerà sempre più tesa. Impossibile prevedere dove scoccheranno le prime scintille. Se nel campo proletario, o – è possibile – in settori di ceti medi scontenti per la “prudenza” del nascente governo nel sostenerli. Dal fronte della Cgil Landini, assicura che il confronto con il futuro governo delle destre sarà “senza pregiudizi”. E loda l’accenno della Meloni ai “corpi intermedi”, che interpreta come un impegno a consultare i sindacati. Si registra anche una prima convergenza esplicita tra Fratelli d’Italia e Cgil-Cisl-Uil nella protesta verbale contro Stellantis che ha dato un bonus ai dipendenti degli stabilimenti francesi, e non a quelli degli stabilimenti italiani. Questi segnali sembrano preannunciare la disponibilità della Cgil a passare dal collateralismo politico al Pd e al centro-sinistra liberale al collateralismo ad ogni tipo di governo borghese. Se avranno ulteriore seguito, segneranno un ulteriore passaggio nel processo di integrazione nello stato borghese del sindacalismo tricolore, proprio mentre governo e stato si apprestano a “chiedere” e imporre alla massa dei lavoratori i sacrifici più duri degli ultimi decenni. A differenza di chi conta sempre sul possibile ravvedimento dei vertici sindacali, noi contiamo esclusivamente sulla spontaneità degli operai e dei proletari, così a lungo repressa e auto-repressa. Ma non essendo spontaneisti, riconfermiamo i nostri prossimi impegni, guardando molto al di là del perimetro dei compagni e dei proletari che ne saranno direttamente coinvolti.

Sul versante politico primario che è oggi quello dell’opposizione di piazza alla guerra tra NATO e Russia in Ucraina, lavoriamo insieme ad altri organismi ad un convegno che si terrà a Roma il prossimo 16 ottobre, in cui esporremo le nostre analisi e le nostre indicazioni comuni per rilanciare l’iniziativa contro la guerra che oggi langue a livelli inimmaginabili. Ci lavoriamo per dare corpo e stabilità ad un’area internazionalista militante che sia un punto di riferimento per la risposta di lotta alle politiche belliciste dello stato italiano, della NATO, della UE, e si colleghi a livello internazionale a tutto ciò che si muove in questa stessa direzione. Vogliamo affermare con forza la comunanza di interessi dei proletari di tutti i paesi. E fare di questo principio storico concreto del movimento comunista il perno della lotta ai capitalisti, ai loro stati, al capitalismo – anzitutto ai “nostri” capitalisti, al “nostro” stato, al “nostro” imperialismo. Chiamateci pure ‘ideologici’, non ci importa nulla: noi siamo fermamente convinti che c’è una sola forza sociale che può fermare la sciagurata tendenza ad una nuova guerra mondiale, ed è quella del proletariato, degli sfruttati e degli oppressi di tutto il mondo.

Siamo al fianco del SI Cobas e dell’intero sindacalismo di base che ha deliberato per il 2 dicembre una giornata di sciopero generale contro il carovita, la guerra, lo sfruttamento, le devastazioni ambientali, e faremo tutto il possibile perché questa volta, a differenza delle precedenti, vengano coinvolti settori proletari non organizzati con il sindacalismo di base.

Ci proponiamo di intervenire in modo più attivo nello scontro ideologico tra visioni contrapposte della società e del futuro, anche per rafforzare l’iniziativa di contrasto all’Internazionale nera. L’oppressione delle donne, al pari di quella sui lavoratori immigrati, non è una questione settoriale, tanto meno di nicchia. E’ una questione generale, anche se in troppi stentano a capirlo. Il tentativo di riaffermare con la forza delle leggi e delle ideologie reazionarie il vecchio patriarcalismo in putrefazione va combattuto contrapponendogli la prospettiva di rapporti sociali nuovi, liberati dal comando della merce e dall’oppressione di genere, per una riproduzione sociale in cui finalmente natura e umanità, Nord e Sud del mondo, si possano riconciliare.

Ma è anche venuto il momento di chiedere ai militanti ecologisti di fare un passo in avanti verso l’identificazione del capitalismo come radice ultima delle catastrofi ecologiche in corso, e di far confluire la loro protesta in un movimento generale volto alla distruzione del capitalismo, per una società senza classi, in grado di riconciliarsi con la natura, prima che il capitalismo distrugga le basi stesse della civiltà umana.

3 ottobre, Tendenza internazionalista rivoluzionaria

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