Mara Gergolet (Ha collaborato Farid Adly)
I governi del medio oriente guardano preoccupati sia all’estendersi del sistema democratico sia al nuovo potere sciita in un altro paese del Golfo
«Sono impressionanti, quelle immagini di iracheni che si mettono in strada, il fiume di persone che si muove verso i seggi. Una prova di coraggio, di voglia di libertà». Nabil Khatib, palestinese, direttore delle news di Al Arabiya , la seconda tv più vista nel mondo arabo, non nasconde che quel voto si può tranquillamente rivoltarlo, a seconda delle convenienze o delle ideologie. «Si può leggerlo come una rivolta “contro il terrorismo” oppure “contro gli americani”, ma non si può nasconderlo». Non quando la sua Al Arabiya arriva nei bar di Damasco, quando i votanti di Bassora «bucano» gli schermi di Amman. È successo proprio questo: che il riverbero della «voce della libertà» (come dice Bush), o più semplicemente il peso di 8 milioni di voti, si è fatto sentire nel Golfo. Lasciando molti sovrani con il loro (accresciuto) carico di perplessità, e di timori. Il giorno dopo, le dichiarazioni dei governi arabi sono sobrie e acquiescenti: in gran parte non possono permettersi di dispiacere agli Stati Uniti. Le pagine dei quotidiani, invece, sono piene di cautela.
Preoccupa, soprattutto, la creazione del primo governo sciita. Prevedibile. E’ la prima volta, dopo secoli, che questa minoranza (per alcuni «eretica») dell’Islam, prenderà la guida di un Paese arabo. Ma soprattutto, l’ascesa degli sciiti può provocare instabilità interna nei Paesi dove la loro presenza è molto radicata: nel Bahrein (50-60%), o nella stessa Arabia Saudita, dove la folla sciita (il 10%) scese in strada nel 1979 inneggiando a Khomeini. «I regimi sunniti – dice Nizar Hamze, esperto libanese dei regimi arabi – vedono di cattivo occhio le buone relazioni tra Washington e gli sciiti: temono di essere scavalcati».
Il ministro degli Esteri del Kuwait denuncia apertamente il rischio di un «settarismo» religioso. In Siria e Giordania temono la nascita della «mezzaluna sciita». «Sarebbe catastrofico se gli sciiti iracheni scegliessero di mettersi sotto l’ombrello del settarismo», dice Samir Kassir, una delle penne più lucide (scrive per Annahar ) del Libano. Un Iraq degli ayatollah, a fianco dell’Iran? «No, io confido che restino secolari».
L’altro timore è lo smembramento dell’Iraq, per linee nazional-religiose. Come i Balcani. L’astensione dei sunniti, le rivendicazioni nazionali dei curdi, scrive Al Watan (Kuwait) «possono aprire la strada alla secessione. Le premesse di queste elezioni non assicurano un epilogo felice: se porteranno allo smembramento dell’Iraq, sarà un evento nefasto».
Un laboratorio, comunque, per il mondo arabo. «Per due aspetti: il problema confessionale e quello nazionale – dice Chiibli Mallat, grande studioso del mondo sciita -. Ma c’è un terzo punto. Quello che i regimi vicini davvero temono è la consacrazione del principio maggioritario». Ossia, la democrazia.
La Palestina. L’Iraq. «Sembra strano, non l’avrei mai detto, ma può darsi che Bush ci abbia azzeccato», dice Kassir. «Certo, chi può dirlo?». Molti gli scettici. Qualcuno fa professione di fede, e coraggio. Come il principe giordano Abdallah, il più aperto e filo-occidentale dei monarchi mediorientali. «Una volta che apri le porte alle riforme – ha detto alla Cnn – e nella società se ne comincia a discutere, poi è molto difficile richiuderle».