I precari permanenti [PIETRO ICHINO]

ITALIA, LAVORO, POLITICA

CORRIERE MAR. 14/3/2006  
PIETRO ICHINO

VOTO E PROGRAMMI


C’è chi è precario perché poco produttivo e chi perché
escluso dalle garanzie contrattuali. Occorre un modello di lavoro che aumenti
gradualmente le garanzie con l’anzianità lavorativa.


Sul tema della crescente precarietà del lavoro
entrambi i poli farebbero bene a chiarire meglio i rispettivi programmi. Né l’Unione,
né la Casa delle libertà sono riuscite a darsi una strategia credibile su
questo terreno, anche perché sembra mancare a entrambe un’analisi e una
diagnosi precisa del male da curare.
Il male non sta nel fatto che ci sia per tutti una prima fase della vita
lavorativa nella quale si è meno stabili e garantiti: questo, anzi, favorisce
la ricerca del lavoro nel quale ciascuno dà il meglio di sé; il male sta invece
nel fatto che tendono ad aumentare i casi in cui il lavoratore non riesce a
uscire da quella fase, a raggiungere col tempo una ragionevole sicurezza
.
Ci sono almeno due tipi di «lavoro precario permanente», molto diversi tra
loro. In primo luogo il lavoro che resta precario per difetto di produttività
:
è il caso dei molti – giovani, ma anche anziani – che non riescono a ottenere
un’assunzione stabile perché, a torto o a ragione, sono considerati meno
efficienti rispetto alla media della loro categoria professionale; per questo
l’impresa è disposta a mantenerli in servizio soltanto al di sotto dello
standard di protezione (e quindi di costo) dei lavoratori regolari, che è
commisurato al rendimento medio della categoria. Con lo sviluppo delle
tecnologie informatiche la possibile differenza di produttività tra i
lavoratori di una stessa categoria, anche di basso livello, è molto aumentata
.
Il problema è che, quando la produttività individuale è nettamente inferiore
alla media della categoria, imporre con rigore il trattamento standard rischia
di condannare il lavoratore alla perdita del posto
. Qui ciò che occorre è
offrire ai più deboli un sovrappiù di servizi di orientamento, formazione e
mobilità geografica, che li aiuti a neutralizzare il difetto di cui soffrono: è
questo il passaggio indispensabile per avviare il problema a soluzione.
C’è poi un altro tipo di «lavoro precario permanente», nel quale le
posizioni si rovesciano. Nei comuni, province, ospedali, università, ma anche
in tanti altri enti pubblici, vediamo centinaia di migliaia di lavoratori
bravissimi, che restano per troppo tempo nella posizione di «collaboratori»
formalmente autonomi, o comunque non di ruolo, pur offrendo una prestazione più
intensa e qualificata di tanti dipendenti di ruolo inamovibili; e accade
sovente che per loro le porte della «cittadella» del lavoro protetto non si
aprano mai
. I lavoratori di ruolo possono permettersi di essere
inefficienti, mentre proprio i fuori ruolo sono i più efficienti: se non lo
fossero perderebbero il lavoro
. Qualche cosa di questo genere accade
anche in molte imprese private
: per esempio nelle case editrici, dove
«impiegati» e «collaboratori» svolgono esattamente lo stesso lavoro
redazionale, ma i primi, al riparo della protezione di cui godono, possono
offrire una prestazione meno intensa e meno flessibile. Se c’è un picco di
attività, è il «collaboratore» a fare le ore piccole; se viceversa l’attività è
in calo, è ancora il «collaboratore» a rimanere senza lavoro e senza reddito
.
È una sorta di apartheid, nella quale il regime di protezione serve
ai lavoratori di ruolo, agli insider, per difendersi dalla concorrenza
degli outsider e lasciare a questi la parte più scomoda del lavoro
. La
proposta dell’Unione di un nuovo «statuto dei lavori» che garantisca agli
outsider soltanto qualche brandello di protezione in più non farebbe giustizia:
resterebbe una forma inaccettabile di apartheid .
Sarebbe, in linea teorica, assai più equa la soluzione ideata da Marco Biagi e
solo in parte tradotta nella legge che porta il suo nome: vietare drasticamente
le collaborazioni autonome continuative. Senonché lo stesso governo che ha
varato quella legge si è subito spaventato alla prospettiva di imporre agli
enti pubblici la scelta secca tra immettere in ruolo tutti i co.co.co. e
mandarli tutti a casa: ha scelto dunque di esentare dalla nuova normativa il settore
pubblico; poi, appena varata la legge, ha ritenuto eccessivo anche imporre
quell’alternativa alle imprese private; e ha emanato la circolare numero
1/2004, che svuota la nuova norma del suo contenuto pratico, consentendo di
trasformare tranquillamente i vecchi co.co.co. in «lavoratori a progetto».
Se si scarta l’apartheid addolcita dello «statuto dei lavori», ma si scarta
anche la soluzione velleitaria dell’estensione drastica dell’intero vecchio
apparato protettivo agli attuali precari, resta una sola opzione: un diritto
del lavoro più «inclusivo» e capace di applicazione universale, modellato sugli
standard internazionali e comunitari, che disponga un aumento graduale della
protezione nel corso della vita lavorativa, chiedendo più flessibilità e mobilità
a tutti i giovani, ma senza compartimenti stagni e con la possibilità per tutti
di puntare a una maggiore stabilità nella fase della maturità
. Se questo
fosse il modello generale del rapporto di lavoro dipendente, allora sì sarebbe
pensabile di imporne davvero un’applicazione generalizzata, assorbendo in esso
le mille forme attuali del lavoro precario.

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