Iran, Nucleare, Usa
CORRIERE Giov. 9/3/2006
Guido Olimpio
Obiettivo: innescare la
rivolta anti-ayatollah. Ipotesi Reza Ciro
WASHINGTON – In questi giorni c’è un grande fermento tra
gli esuli iraniani. Monarchici, nazionalisti, comunisti sono uniti nel volere
la cacciata dei mullah, ma si dividono sul cosa fare. Con rare eccezioni, i
dissidenti sono convinti che per ora non serve la forza, perché è
controproducente.
«Sconfiggi i nemici prima di andare in battaglia». Assad Homayoun, un
intellettuale molto ascoltato, cita lo stratega cinese per indicare le mosse.
La prima è quella della propaganda con finanziamento alle tv satellitari e
alla radio iraniane che trasmettono dalla California, molto ascoltate. «Un’azione
militare – sottolinea – potrebbe mandare in frantumi il Paese. Ritengo che
Washington voglia mantenere l’unità territoriale, però in caso di rischi
concreti, come con il nucleare, userà i muscoli».
Purtroppo, aggiunge, qui perdono di vista un punto cruciale: «L’Iran è una
società gerarchica e verticale, quindi serve un leader per innescare uno
tsunami popolare». Gli oppositori e l’Occidente «devono corteggiare le
forze presenti nel Paese che possono dare una mano a rovesciare la teocrazia».
Per Homayoun anche vasti settori dei pasdaran, l’80% dell’esercito e persino
quote di basji (i militanti della rivoluzione) sono pronti a sposare la rivolta:
«Se capiscono che davanti a loro c’è un capo serio, si muoveranno».
Ma chi può indossare questo mantello? Qualcuno suggerisce il figlio dello
Scià, Reza Ciro. Ma lui è prudente, consapevole che le simpatie vanno oggi a
qualcosa di più moderno. E infatti dichiara: «Saranno gli iraniani a
decidere». Il suo movimento invoca la strada del referendum e invita gli
americani a tenere le pistola nella fondina. Reza Ciro, 45 anni, ha lanciato un
appello per un fronte comune, ma i risultati sono stati scarsi. E lui non ha
celato la frustrazione. Troppi «capi», troppo protagonismo.
Accuse respinte: «Il figlio dello Scià non ha abbastanza grinta». E rivelano al
settimanale New Yorker un episodio inverificabile: «Reza stava comprando
dei piatti in un grande magazzino di Washington quando è stato visto da una
donna iraniana che l’ha aggredito verbalmente: "Dovrei romperti questi
piatti in testa! Sei qui mentre dovresti salvare il Paese"». Vera o falsa,
la storia è il sintomo della diffidenza che Reza Ciro deve superare.
I dubbi aumentano tra gli esuli quando si parla del sostegno Usa. Loro
sognano un appoggio indiretto e temono un abbraccio mortale. Non piace neppure
il piano (accantonato) di lanciare azioni destabilizzanti usando i Mujaheddin
del popolo, gruppo armato finanziato per anni da Saddam e Arabia Saudita. E
molti guardano con curiosità al ruolo di Elizabeth Cheney, la figlia del vice
presidente, che lavora al Dipartimento di Stato, divisione «Vicino Oriente».
Dovrebbe essere lei a distribuire gli 85 milioni di dollari appena stanziati in
favore dei dissidenti.
L’idea, che trova consensi, è quella di una soluzione alla Solidarnosc,
il celebre sindacato polacco di Lech Walesa: finanziamenti alle attività
sindacali, campagna per i diritti umani, mobilitazione in favore di prigionieri
celebri. «La scena finale – prospetta Michael Ledeen dell’American
Enterprise Institute, spesso associato a manovre sotterranee – è quella di un
milione di persone in piazza che grida "Via gli ayatollah". A quel
punto se ne dovranno andare davvero».