Governo Prodi per il grande capitale

La truculenta, demagogica e noiosa campagna elettorale è terminata, le schede sono state messe nelle urne, i voti sono stati contati, e ricontati: il centro-sinistra ha vinto al fotofinish grazie alle liste e listerelle salite sul pullman di Prodi perché dato per vincente, ed è stato graziato alla Camera dal premio di maggioranza che aveva avversato, al Senato dal voto degli italiani all’estero seminato da un ex-missino. Il popolo della sinistra ha tirato un sospiro di sollievo, ma dopo la stagione dell’impotenza sta per arrivare quella delle delusioni.

Beffe della storia a parte, va al governo, come sempre, il partito della Confindustria, che ha posto l’obiettivo di ridurre il costo del lavoro facendo pagare il conto al lavoro autonomo. Ma che l’Unione sia in grado di consegnare la merce promessa è tutto da verificare, data la pervasività della piccola borghesia nel sistema partitico e parlamentare. Potrebbe finire per far pagare lo sconto ai lavoratori stessi, con la riduzione delle prestazioni pensionistiche e sanitarie e l’ulteriore prolungamento dell’orario di lavoro.

I voti dei lavoratori sono stati contesi con vari specchietti per le allodole: da una parte la detassazione degli straordinari e l’abolizione di ICI e tassa spazzatura, dall’altra la spartizione tra salari e profitti della riduzione del cuneo fiscale. Gli strati superiori sono stati influenzati, come la piccola borghesia, anche dagli spauracchi della tassazione delle rendite finanziarie e delle eredità. In realtà anche per l’Unione le rendite finanziarie vanno tassate meno del lavoro dipendente.

Molti lavoratori ancora una volta hanno messo la loro crocetta sulla scheda, pur senza grandi illusioni. Alla prova dei fatti scopriranno che le offerte promozionali elettorali spariscono dagli scaffali una volta incassata la scheda. Nel capitalismo i lavoratori possono difendere le proprie condizioni solo con l’organizzazione e la lotta.Nelle recenti elezioni politiche italiane, al di là delle ideologie di cui si sono ammantate, le due coalizioni che si sono affrontate, hanno ciascuna rappresentato uno schieramento borghese. Se per la Casa delle Libertà questo fatto è incarnato dal suo leader, tra gli uomini più ricchi d’Italia, per l’Unione è risultato evidente dall’appoggio fornito sia dai giornali della grande borghesia come Repubblica, Il Sole o il Corriere della Sera e La Stampa, che dai vertici di Confindustria.

La competizione elettorale in una società capitalistica “democratica” è appunto una battaglia fra gruppi di interessi (frazioni) che si contendono l’influenza sullo Stato attraverso la conta delle schede elettorali. Di norma, ha maggiori capacità di convincimento chi controlla più canali di “informazione”, ossia chi riceve maggiori finanziamenti da grandi gruppi e lobby di interessi. Mentre in paesi come gli Stati Uniti (ma anche nella stessa Russia) partiti e uomini politici sono tenuti a rivelare gran parte dei loro finanziatori, in Italia i partiti si sono premurati di nascondere da chi sono pagati per farne gli interessi [vedi riquadro]. Con ciò ci riferiamo ai soli finanziamenti “leciti” e dichiarati, ben sapendo che la parte più grossa è costituita da quelli in nero, di cui veniamo a conoscere solo le punte degli iceberg, quando negli scontri tra gruppi scoppia qualche scandalo.

Una trappola e un inganno

La campagna elettorale è stata combattuta più sull’immagine, l’utilizzo dei mass media, le frasi ad effetto e gli slogan, la personalizzazione, la demagogia e l’illusionismo che non sui contenuti. Prodi ha cercato di vendere l’immagine rassicurante del buon curato di campagna – lui che ha presieduto allo smembramento dell’IRI e che per quattro anni ha incarnato l’imperialismo europeo – e l’illusione di un capitalismo delle pari opportunità e della perequazione tra le classi sociali.

Berlusconi era partito con lo svantaggio di cinque anni di stagnazione della produzione e dei salari che avevano trasformato in delusione le illusioni ‘vendute’ anche ad ampi strati di lavoratori nel 2001, e anche di una crescente delusione dei suoi colleghi della grossa imprenditoria, molti dei quali mal sopportano anche la sua commistione tra governo e interessi privati. Non s’è arreso e con il supporto dei professionisti del marketing elettorale, ha spregiudicatamente cercato di piazzare il suo prodotto facendo leva, anche con l’uso del linguaggio volgare, sulle paure degli indecisi dell’undicesima ora che hanno i Bot, le quote dei fondi e la casa da lasciare ai figli e da sottrarre alle tasse, e promettendo (con quali soldi pagati da chi non importa) l’aumento sulla pensione e l’abolizione dell’ICI, e concludendo con la televendita del ritiro gratuito della spazzatura, degno finale di questa campagna di cui questa stessa sostanza è stata il maggior ingrediente.

Si conferma la tesi di Lenin che “La democrazia borghese, benché sia stata un grande progresso storico in confronto al Medioevo, rimane sempre — e sotto il capitalismo non può non rimanere — limitata, monca, falsa, ipocrita, un paradiso per i ricchi, una trappola e un inganno per gli sfruttati, i poveri.”

Cuneo fiscale e piccola borghesia

Ma sarebbe un errore pensare che nella campagna elettorale fosse tutto fumo e niente arrosto. L’arrosto c’era, e c’è. Il capo della FIAT Luca Cordero di Montezemolo, nella sua qualità di presidente della Confindustria, nella sua piattaforma elettorale aveva chiesto una riduzione del “cuneo fiscale e contributivo” del 10%. Inutile lesinare un euro sui contratti quando su 1000 euro che l’impresa paga per salari più del 45% va in contributi e imposte – 52,7% se si conta anche l’IRAP secondo l’OCSE. Come pagare lo sgravio di 10 punti? Montezemolo indicava una strada semplice: prenderli al lavoro autonomo, “perequare i contributi”, alzando quelli pagati dai lavoratori autonomi (il 19%) e riducendo quelli pagati sui salari dei lavoratori dipendenti, il 33-34%. Va osservato che questa disuguaglianza è stata mantenuta dalle riforme pensionistiche del centrosinistra e del centrodestra, che garantisce le medesime prestazioni a fronte di contributi differenziati. Il programma dell’Unione riecheggia quello della Confindustria: Prodi ha promesso di tagliare il cuneo fiscale di 5 punti già nel primo anno; il programma dell’Unione parla di adeguare i contributi degli autonomi.

Sul cuneo fiscale la Casa delle Libertà ha rifiutato di rilanciare: massimo tre punti nella legislatura, no alla “perequazione”, no ad aumentare i contributi alla piccola borghesia: “noi non lo faremo mai. Sarebbe una rapina per premiare altri. A meno di un accordo preciso con gli autonomi sulle prestazioni previdenziali” ha replicato secco Berlusconi. Con questo nodo si spiegano le scintille tra Berlusconi e i vertici della Confindustria, e il tentativo di Berlusconi all’assemblea confindustriale di Vicenza di mobilitare la base degli industriali contro i grandi gruppi e delegittimare il vertice. Pur non riuscendo a scalfire il controllo di Montezemolo nella Giunta e nel Direttivo, ha però rianimato la fronda del Nord Est.

Lo scontro forse più importante di queste elezioni è stato sulla piccola borghesia e il lavoro autonomo (commercianti, artigiani, piccoli produttori, professionisti), da quasi quarant’anni nodo irrisolto del capitalismo italiano (vedi riquadro).

Non solo la piccola borghesia paga meno contributi ed evade le tasse: secondo l’indagine Bankitalia sui bilanci delle famiglie italiane nel 2004 il reddito della piccola borghesia è aumentato del 16,1% sul 2000, contro un calo del 3,9% per le famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente. Dagli operai c’è poco ancora da spremere, dalla piccola borghesia ci sarebbe molto, questo il calcolo degli industriali. Di qui la linea di “alleanza dei produttori”, a favore dell’Unione, adottata dalla Confindustria di Montezemolo, che ha spezzato l’asse con Berlusconi precedentemente stabilito dalla Confindustria di D’Amato, nella quale prevalevano le piccole medie industrie del Triveneto, della dorsale adriatica e del Mezzogiorno e aveva come linea quella dello scontro diretto col sindacato. Montezemolo e i maggiori industriali hanno preso le distanze dalla Casa delle Libertà, guidata sì da un grande borghese come loro, che però si appoggia su una base di massa fatta in prevalenza di piccola e media borghesia e quindi impegnato nella difesa dei loro privilegi.

La Lega Nord in particolare, ma anche FI e AN, si sono inoltre fatti interpreti delle esigenze protezionistiche di settori deboli di fronte alla concorrenza dei paesi emergenti, mentre i settori più forti sono liberisti.

Secondo sondaggi sulle propensioni di voto delle varie categorie sociali riportati dal giornale confindustriale, nelle politiche del 2001 hanno votato la Casa delle Libertà i “lavoratori autonomi, soprattutto i liberi professionisti e i piccoli e medi imprenditori”, il centro sinistra aveva raccolto il consenso “dei lavoratori dipendenti, soprattutto dirigenti e impiegati, e in prevalenza del settore pubblico”, mentre i “ lavoratori dipendenti del settore privato” si erano divisi a metà tra i due schieramenti. Alla vigilia delle ultime elezioni i sondaggi davano un netto spostamento di questi ultimi verso l’Unione (42% contro 29%, ma il resto indeciso), e un incremento della propensione degli autonomi per il centro-destra.

L’ideologia del patto tra produttori

Montezemolo dunque propone una riedizione del “patto fra produttori”. Lo avevano ipotizzato nei primi anni ’70 sulla spinta delle lotte operaie e la pressione della crisi petrolifera, Agnelli e Amendola, un asse dei “produttori”, lavoratori e imprenditori, contro la rendita. Ma non se ne fece nulla perché la reazione della piccola borghesia minacciata fu durissima, dal blocco dei partiti interclassisti in parlamento al terrorismo di matrice fascista. D’altra parte anche nei sindacati ripresero il sopravvento i partiti interclassisti, che resero “compatibili” le rivendicazioni operaie con il mantenimento di grande e piccola borghesia.

Noi riteniamo che in una società capitalistica nessun patto sia possibile tra il lavoro salariato e il capitale che lo sfrutta. L’obiettivo dei comunisti è l’abolizione di questo rapporto di sfruttamento. Nel frattempo i lavoratori non devono sperare nelle elargizioni del capitale, solo la lotta può permettere loro di difendere le loro condizioni.

Dubitiamo che il governo dell’Unione abbia la volontà e la capacità politica di portare avanti una coerente azione “riformistica” nel senso dello smantellamento dei privilegi della piccola borghesia voluto dal grande capitale. La piccola borghesia costituisce una parte ragguardevole del suo elettorato, soprattutto nelle regioni rosse, e ancor più del suo personale politico e degli eletti in parlamento, e dispone di un forte potere di veto. Lo stesso programma dell’Unione è ultra-timido sulla liberalizzazione delle professioni e sull’abolizione dei prezzi minimi, e sarà messo alla prova sul riequilibrio dei contributi. Alla fine è probabile che se di liberalizzazione si parlerà sarà ancora una volta soltanto quella del mercato del lavoro.

La Confindustria non ha avuto problemi a sponsorizzare la coalizione sostenuta anche dalla “controparte” sindacale, e in particolare dalla CGIL. Anche se la cancellazione della Legge Biagi è stata la bandiera della CGIL, di fatto buona parte della legge è già stata recepita nei contratti nazionali di categoria (vedi articolo su contratto dei metalmeccanici). Confindustria del resto è disponibile a delle concessioni formali che CGIL e sinistra possano sventolare, su quelle parti che si sono dimostrate inutili o macchinose (come il job on call, lo staff leasing, i contratti di inserimento), affermando d’altronde che il lavoro temporaneo viene stabilizzato molto più velocemente nel privato che nel pubblico e che le sacche di co.co.co. che restano tali per decine di anni sono la Pubblica Amministrazione, le Università e i servizi.

Di fatto poi, nonostante i dinieghi sugli sconti al “governo amico”, i governi di centro-sinistra tradizionalmente riducono la conflittualità sindacale, perché gli uomini dei partiti al governo controllano i sindacati. In tema di lavoro, la bandiera più sventolata dalla CGIL e dall’Unione è quella contro la precarietà. Ma era più che altro uno slogan per catturare voti.

Il segretario DS Fassino ha dimostrato piena disponibilità alle richieste confindustriali sulla flessibilità:“Non c’è dubbio che la cifra del mercato del lavoro moderno è la flessibilità. La globalizzazione la impone”, purché si introducano ammortizzatori sociali. Il riesumato Treu conferma la sua vocazione dichiarando che a parte qualche esagerazione la legge Biagi si può tenere perché “La flex security ci sembra una formula vincente perché dà flessibilità ma anche garanzie sul lavoro e non lascia spazio all’assistenzialismo o alla beneficenza […] Le ristrutturazioni aziendali necessarie per ritrovare competitività possono trovare sostegno solo in scelte di questo tipo”.

Ad elezioni avvenute col suo giornale la Confindustria ha aumentato il pressing sul gruppo dirigente dell’Unione perché dia prova di responsabilità, che tradotto in soldoni significa garantire la pace sociale. Ad esempio mirano a condizionare il futuro governo la tesi dei distretti industriali che votano Centro Destra, delle piccole e medie imprese per le quali è vitale l’interesse a mantenere la legge Biagi e la stessa analisi, per quanto sbrigativa, secondo cui Berlusconi “premier si conferma proprio nella parte più dinamica del Paese, quel Nord produttivo che ancora una volta gli dà il suo voto e lo premia con una maggioranza netta […] la borghesia settentrionale non sembra aver cambiato idea rispetto al 2001 […] il Nord, inteso come Lombardia, Veneto e Piemonte, cioè tre delle regioni più popolose ed evolute sul piano economico e sociale, ha scelto il centrodestra”.

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