Guido Olimpio
Gli uomini del presidente: «L’odio dei terroristi s’è
formato nel corso di decenni»
Dossier dell’intelligence svelato dal New York Times La
Casa Bianca reagisce: «Informazioni incomplete»
Secondo il National Intelligence Council, la guerra in
IRAQ ha aumentato la forza di Al Qaeda che usa l’IRAQ come vivaio di terroristi
e che diviene fonte d’ispirazione per le azioni di altri gruppi locali.
Il giudizio di sedici agenzie di spionaggio americane è
impietoso. La guerra in Iraq ha accresciuto la sfida del terrorismo diventando
la prima fonte di reclutamento, ha dato nuove motivazioni agli estremisti e
creato una nuova generazione di jihadisti in grado di riprodursi così
rapidamente da rendere inefficace la risposta occidentale. Il movimento
qaedista si è poi frantumato in realtà minori capaci di autocrearsi, Internet
con oltre cinquemila siti integralisti ha sostituito per certi aspetti i campi
d’addestramento e i centri di indottrinamento.
Nel rapporto riservato di 30 pagine — il «National Intelligence Estimate» — si
afferma che sicuramente la guerra ha «peggiorato» la posizione Usa nella lotta
al terrore: l’invasione non avvicina la vittoria.
Le conclusioni dell’inchiesta — commissionata dal National Intelligence Council
(Nic) — sono ancora più pesanti se si tiene conto che il dossier è il primo
studio approfondito da parte degli 007 dopo la caduta di Bagdad ed ha richiesto
due anni di lavoro.
L’intelligence segnala che il conflitto iracheno si è trasformato in una
palestra dove i mujaheddin non solo elaborano nuove tecniche ma le esportano
con conseguenze disastrose. E’ il caso dell’Afghanistan dove i talebani si sono
riorganizzati lanciando attacchi simili a quelli che avvengono in Iraq. Quindi
autobomba, azioni suicide, esplosivi sofisticati. In perfetta sintonia con i
loro colleghi europei, gli 007 americani mettono in guardia sul ritorno dei
«volontari» che si sono battuti in Iraq nei Paesi d’origine (Medio Oriente,
Nord Africa, Europa). La migrazione dei terroristi e la possibile saldatura
con gli estremisti presenti in queste regioni — si afferma nel rapporto — può
portare alla nascita di formazioni. Si «autocreano», si autofinanziano
(droga, traffici), agiscono senza contatti diretti con la vecchia guardia
oppure stabiliscono il legame in un secondo momento. C’è una evidente
dispersione del fenomeno terroristico, con Al Qaeda sempre di più nel ruolo
di ispiratrice piuttosto che di organizzatrice. Anche se Washington può
giustamente vantare di aver assestato dei colpi al nemico, la minaccia continua
ad essere forte. «Se il corrente trend dovesse continuare — ha dichiarato in
aprile il generale Michael Hayden, oggi capo della Cia — i pericoli per gli Usa
saranno diversi e potremmo assistere a un loro aumento».
La Casa Bianca ha reagito alla diffusione del dossier da parte del New York
Times sostenendo che le informazioni pubblicate sono «incomplete» e che «l’odio
dei terroristi» si è formato da decenni. Dunque per i funzionari non c’è il
rapporto di causa (Iraq) effetto (più terrore). Una constatazione vera solo in
parte: certamente il qaedismo ha origini lontane (primo attacco nel 1993), ma
non vi è dubbio che la guerra irachena è diventata un formidabile carburante.
Alcuni commentatori, pur senza contestare le conclusioni, hanno ricordato che
in qualche occasione i rapporti del Nic si sono rivelati inesatti.
Ma le analisi Usa trovano peraltro riscontri con le informazioni raccolte sul
campo da apparati di sicurezza non americani. Su più fronti si sono
affermate nuove situazioni eversive, con fazioni minori impegnate a fare il
salto di qualità terroristico cucendosi addosso l’etichetta Al Qaeda. Il
modello è quello di Al Zarqawi: crei una organizzazione, ti richiami ad Osama,
usi al meglio l’arma della propaganda (Internet, video) e annunci di far parte
di un disegno più ampio. Spesso sono le esperienze comuni in Iraq a fare da
cemento e sono i metodi impiegati dai ribelli a Bagdad a fare scuola. Le
reclute affluiscono sul fronte iracheno — «centrale» tanto per Bush che per Bin
Laden — quindi vengono ridistribuite tra le milizie locali o rimandate indietro
in attesa di ordini.
IL NORD AFRICA — I servizi di intelligence spagnoli sospettano che
sia in corso, almeno in Europa, una fusione dei gruppi combattenti algerino,
tunisino, marocchino e libico. Un’alleanza dettata dalla necessità di far
fronte all’azione della polizia e dall’ altra una risposta all’appello di
alcuni influenti «maestri» jihadisti. All’interno dei rispettivi Paesi le
fazioni cercano poi di trovare nuovi assetti. Il temibile «Gruppo salafita per
la predicazione e il combattimento» (Gspc) ha ribadito la sua adesione al
marchio Al Qaeda. Lo ha confermato Zawahiri invitando i «fratelli» a punire
la Francia e lo hanno sottolineato gli estremisti nelle loro comunicazioni
interne. Il Gspc, pur falcidiato dagli arresti, cerca spazi operativi. Fonti
norvegesi hanno rivelato che una cellula smantellata di recente in Italia stava
organizzando un attacco a una sinagoga di Oslo. Ancora più inquietante il
legame con elementi in Marocco. Una recente operazione ha portato all’arresto
di oltre 50 persone raccoltesi sotto la sigla «Al Mahdi». Ne facevano parte dei
militari (uno ha risieduto a lungo nel nostro Paese) e quattro donne, comprese
alcune mogli di piloti della compagnia aerea locale. In Egitto un’ala della
Jemaa avrebbe di nuovo stipulato un patto operativo con i leader di Al Qaeda:
mossa seguita da un nuovo allarme per la presenza di un gruppo
beduino-jihadista nel Sinai. Un esempio perfetto di una cellula nata in modo
indipendente ma che agisce come i qaedisti.
IL SUDAN — Dopo le esortazioni di Osama e Zawahiri a impegnare «i
crociati» nel Darfur è comparsa una nuova sigla: Al Qaeda in Sudan e in Africa.
E’ così che si sono firmati i killer di un noto giornalista sudanese
assassinato pochi giorni fa. Difficile stabilire l’attendibilità della
rivendicazione, ma non sarebbe una sorpresa se emergesse una costola del
jihadismo globale.
PALESTINA — I seguaci di Al Qaeda hanno messo le radici nei territori
palestinesi. Tre i nuclei. Il primo nell’ area di Tulkarem in Cisgiordania. Un
secondo a Betlemme: mesi fa la polizia palestinese ha arrestato un gruppo
dopo aver intercettato i loro messaggi. Il terzo opera a Gaza. La
struttura di base conta una mezza dozzina di mujaheddin, ai quali si aggiungono
dei «sostenitori». Mantengono le comunicazioni via Internet, ricevono denaro da
complici in Siria e Arabia Saudita. Di nuovo una creatura locale senza
apparenti vincoli con gli emiri rifugiati in Pakistan.
LIBANO/SIRIA — I Takfir e Jund Al Sham in Siria, Usbat al Ansar in
Libano sono in attesa. La presenza dell’Unifil2 è considerata una
«violazione» della terra araba e dunque i Caschi Blu costituiscono un bersaglio
legittimo. Le tensioni sono forti anche nella vicina Siria, teatro una
settimana fa di un attentato contro l’ambasciata Usa. Si tratta di piccole
organizzazioni, con poche decine di uomini, ma come ha suggerito Al Zawahiri in
un video il movimento deve accogliere i «più deboli».