Giovane bracciante immigrato ucciso da un carabiniere nella terra dove comanda la mafia

Ora che è arrivato il morto i pennivendoli di regime si ricordano di Rosarno a 6 anni dalla rivolta che ha mostrato a tutto il mondo le condizioni di indicibile sofferenza e degrado in cui si trovavano i braccianti immigrati utilizzati nelle campagne della piana di Gioia Tauro.

Questa triste vicenda dimostra tante cose: prima di tutto che tutte promesse solenni del governo e delle istituzioni locali relative alla volontà di porre fine a una situazione di assoluta e ignobile indecenza sono fasulle. In secondo luogo, l’omicidio del ventisettenne bracciante dimostra come la forza armata dello Stato sa fare la faccia feroce nei confronti di un “dannato della terra” ma non certo usa la stessa ferocia nei confronti di quei capitalisti-mafiosi che da decenni sono i padroni assoluti della piana di Gioia Tauro. Una ulteriore cosa questo tragico episodio mette in evidenza: quello che per decenni il fior fiore di intellettuali antimafia non ha capito, il fatto che la borghesia mafiosa non è” l’antistato” ma una particolare frazione della borghesia che lo Stato capitalista finge di contrastare ma in realtà alimenta costantemente. Gli ultimi degli ultimi, i braccianti immigrati che vivono nel degrado più estremo nella tendopoli di San Ferdinando (molti dei quali sono analfabeti), lo hanno invece capito bene e ieri nella manifestazione lo hanno gridato con chiarezza: lo Stato e la mafia sono la stessa cosa. Come possono aver capito quello che tanti intellettuali si ostinano a non voler capire? Lo hanno capito perché vivono quotidianamente sulla loro pelle uno sfruttamento feroce che non può esistere senza che ci sia una stretta connivenza tra Istituzioni (nazionali e locali), agrari e mafiosi che nella realtà controllano il territorio della piana di Gioa Tauro.

Questo sfruttamento bestiale con salari così bassi e condizioni di lavoro così dure consente di tenere i costi di produzione bassissimi e permette di ottenere vantaggi competitivi a tutta la filiera agroalimentare, compresi quindi, ovviamente, i capitalisti “puliti” della grande distribuzione e delle industrie di trasformazione. Secondo un rapporto del MEDU, Medici per i diritti umani, l’86 % dei lavoratori non ha un contratto regolare. Nel rapporto si scrive: “La maggior parte dei lavoratori è… retribuita a giornata o a cassetta (1 euro per le cassette di mandarini e 0,5 per le arance) in media 25 euro al giorno per 8 ore di lavoro ed è reclutata attraverso la “piazza” (47%) – cioè l’attesa dei datori di lavoro o dei caporali nelle piazze e nei principali snodi stradali della Piana – o ricorso diretto al caporale (17%). In tale caso, il lavoratore dovrà farsi carico del costo del trasporto che varia dai 3 ai 5 euro.” I braccianti che hanno manifestato ieri non a torto possono affermare di “essere trattati come animali” Non potendo attendere giustizia da questo Stato al servizio del capitale, legale e mafioso, i braccianti non hanno altra strada che fare da soli: organizzarsi e lottare per migliorare le loro condizioni.

Qui sotto pubblichiamo la nota che le compagne e i compagni di Campagne in lotta hanno dedicato alla vicenda di San Ferdinando:

Rosarno / Migrante ucciso da Carabiniere, “è omicidio di Stato”

Dal Comitato lavoratori delle campagne – Rete campagne in lotta la cronaca e il commento su quanto avvenuto ieri nelle campagne di San Frediano, dove vivono i braccianti vittime di caporalato.

I lavoratori stagionali però non avevano alcuna intenzione di lasciare il paese per un semplicissimo motivo:la stagione volgeva ormai al termine e in molti, rimasti ormai senza soldi, attendevano il saldo del compenso per il lavoro svolto. 9 gennaio 2011 www.andreascarfo.com

09 giugno 2016 – 20:13

Una nuova tragedia, dal copione purtroppo sempre uguale a se stesso, si è consumata ieri nella tendopoli di San Ferdinando, nei pressi di Rosarno. Un evento come ne capitano spesso nelle periferie e nei ghetti di tutto il pianeta. Ma in questo caso si tratta di un omicidio di Stato, perché come già avvenuto in passato, i responsabili sono i suoi fedeli servi, quelle forze dell’ordine che ancora una volta abusano del proprio potere, arrivando a togliere la vita ad una persona. Ma anche perché quella tendopoli è stata voluta e progettata dallo stato stesso, che ha creato l’emergenza, il ghetto e le condizioni di precarietà totale e tensione che questi determinano. Questa volta ne ha fatto le spese un ventisettenne maliano che abitava nella tendopoli, Sheikh Traoré, il quale aldilà di ogni ricostruzione possibile è stato brutalmente assassinato ieri mattina, mercoledì 8 giugno.

La dinamica riportata dalla questura e dai media è alquanto discutibile, ed è tesa esclusivamente a tenere in piedi la tesi della legittima difesa. Come è possibile che le forze dell’ordine, in numero superiore (pare fossero ben 7!!), debbano ricorrere alle armi da fuoco per sedare una persona, anche se questa fosse in uno stato non controllabile? Come è possibile che, come raccontato dalle voci delle persone presenti al campo, il lancio del “coltello” e lo sparo siano in momenti temporali differenti, provando l’ipotesi di un’esecuzione a freddo? E come è possibile che un procuratore della Repubblica, prima che si siano concluse le indagini, già avvalori la tesi della legittima difesa?

Ai giornali non è interessato fornire una ricostruzione veritiera, ascoltando le testimonianze dei presenti o approfondendo la dinamica: la morte di un africano immigrato, seppur per mano di un carabiniere, è notizia quasi da tutti i giorni, che non necessita di approfondimenti di alcun tipo poiché si spiega con l’anormalità del soggetto, con il suo essere ‘disturbato, ubriaco, rissoso com’è ovvio, essendo immigrato. Eppure la storia arrivata dalle veline della questura appare totalmente discutibile. Non è un caso, appunto, che i giornali abbiano sostenuto immediatamente la tesi della legittima difesa, o addirittura quella del colpo partito accidentalmente, che in maniera drammatica ricorda l’assassinio di Davide Bifolco, avvenuto a Napoli 2 anni fa. Un nuovo omicidio di stato in un’altra delle estreme periferie di questo paese, buona a balzare agli onori della cronaca solo per eventi tragici come quello di ieri. E non è un caso nemmeno che la risposta del neoeletto sindaco di Rosarno sia stata la solita dichiarazione populista tutta improntata su un’ottica securitaria: bisogna sgomberare la tendopoli, e non si possono accogliere tutti, sono troppi. D’altronde, anche la Cgil è orientata nell’ottica del meno peggio: qualche tempo fa, dopo l’ennesima promessa di intervento da parte della Prefettura, aveva dichiarato di volere che i lavoratori fossero trasferiti “in container”. Come se facesse la differenza.

Ma la risposta dei braccianti della tendopoli non si è fatta attendere: stamane, 9 giugno, sono scesi in corteo ed hanno raggiunto il comune di San Ferdinando, dove hanno ottenuto di parlare con i suoi rappresentanti chiedendo soluzioni immediate, non soltanto giustizia e verità per la morte di Sheikh, ma la fine delle aggressioni che i braccianti della tendopoli e degli altri insediamenti subiscono quotidianamente, di ritorno dal lavoro, e soluzioni concrete ed immediate per eliminare le cause prime di questa condizione di assoluta vulnerabilità, a cui però i lavoratori non si piegano. I problemi che vivono i braccianti agricoli e gli abitanti della tendopoli come di molti altri luoghi simili in tutta Italia, sono molteplici: scarsezza di risorse igieniche e sanitarie, mancanza di acqua ed elettricità in alcuni casi. Condizioni abitative che si sommano alle condizioni di vita nel lavoro, con l’altissimo tasso di sfruttamento, e di vita, legate alla dipendenza e alle difficoltà burocratiche per l’ottenimento del permesso di soggiorno. Questi elementi sono quelli che creano veri e propri ghetti prossimi alle nostre città, dove la marginalità sociale e l’esclusione da ogni tipo di meccanismo di integrazione sono condizioni che permeano quotidianamente la vita di queste persone.

Come recitavano i cartelli imbracciati stamane dai lavoratori, ricordando anche le vittime del razzismo di stato oltreoceano, senza giustizia non c’è pace! Verità per la morte di Sheikh Traoré e di tutte le vittime di questo sistema fatto di discriminazione e sfruttamento. Da Foggia a Rosarno, uniti in un solo grido e in una sola lotta.

Comitato Lavoratori delle Campagne
Rete Campagne in Lotta

Pubblichiamo inoltre un rapporto di Medici per i Diritti Umani sulle condizioni di vita dei braccianti nella Piana di Gioia Tauro

Piana di Gioia Tauro/raccolta agrumicola: un’altra stagione all’inferno

Nonostante i controlli di Prefettura e Ispettorato rimangono disastrose le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti. Medici per i Diritti Umani fa appello alle istituzioni affinché si avviino politiche di integrazione abitativa nei Comuni come disposto dal Protocollo d’intesa stipulato presso la Prefettura e aumenti la stretta sugli ingaggi dei lavoratori.

Bracciante

Rosarno, 5 aprile 2016 – Bilancio negativo anche quest’anno per la stagione agrumicola nella Piana di Gioia Tauro. Nonostante l’aumento dei controlli nelle aziende indetto da Prefettura e Ispettorato del Lavoro, sono infatti rimaste disastrose le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri. Una stagione dove tra l’altro sono tornate le aggressioni ai migranti impiegati in agricoltura (si veda il comunicato del 23 dicembre scorso). Otto anni fa, Medici senza Frontiere denunciava le drammatiche condizioni degli stranieri impiegati in agricoltura nel rapporto “Una stagione all’inferno”. Troppo poco è cambiato da allora.

Dai dati raccolti dalla clinica mobile di Medici per i Diritti Umani (Medu) – che ha operato nella Piana di Gioia Tauro da metà novembre 2015 a marzo 2016 prestando assistenza sanitaria ai lavoratori stranieri stagionali – emerge un quadro che di poco si discosta dalla stagione precedente. Dei 471 pazienti visitati (774 visite mediche totali tra primi, secondi, terzi e quarti accessi), l’86% ha meno di 35 anni. Si tratta, quindi, di una popolazione giovane – in media 29 anni – proveniente principalmente da Mali (36%), Senegal (23%), Gambia (12%), Costa d’Avorio (8%) e Burkina Faso (6%).

La maggior parte dei pazienti (95%) è dotata di regolare permesso di soggiorno. Di questi, più della metà (54%) è già titolare di un permesso per protezione internazionale (asilo politico e protezione sussidiaria) o per motivi umanitari. Il 33%, invece, pur essendo regolare nel territorio italiano è in fase di ricorso contro il diniego della Commissione per il diritto d’asilo. Un dato, questo, in forte aumento rispetto alla stagione precedente e già fotografato da Medu ad inizio della stagione di raccolta (si veda il comunicato del 17 dicembre scorso). Più della metà dei pazienti è, infatti, giunto in Italia negli ultimi due anni e vive una condizione di estrema vulnerabilità determinata spesso dalla totale mancanza di informazioni e orientamento socio-legale nonché dall’impossibilità di leggere e scrivere (il 42% dei pazienti ha dichiarato di essere analfabeta).

Per quanto concerne l’integrazione sanitaria, il 52% dei pazienti regolarmente soggiornanti non ha la tessera sanitaria. Le patologie più frequentemente riscontrate sono: disturbi gastro-intestinali (23%), sindromi delle vie respiratorie (22%), patologie muscolo-scheletriche (13%), traumatismi (10%), patologie della cute (6%). I lavoratori stranieri giungono, quindi, in Italia sani e si ammalano nel nostro paese a causa delle critiche condizioni di vita e di lavoro.

Per quanto concerne le condizioni di lavoro, nonostante l’aumento dei controlli da parte di Prefettura e Ispettorato del Lavoro, è riscontrabile tra la popolazione bracciantile un alto tasso di lavoro nero. L’86% dei lavoratori agricoli, infatti, non ha un contratto di lavoro e i pochi che hanno dichiarato di averlo (12%) non sanno se riceveranno una busta paga a fine mese né se gli verranno riconosciute le effettive giornate di lavoro svolte. La maggior parte dei lavoratori è, infatti, retribuita a giornata o a cassetta (1 euro per le cassette di mandarini e 0,5 per le arance) in media 25 euro al giorno per 8 ore di lavoro ed è reclutata attraverso la “piazza” (47%) – cioè l’attesa dei datori di lavoro o dei caporali nelle piazze e nei principali snodi stradali della Piana – o ricorso diretto al caporale (17%). In tale caso, il lavoratore dovrà farsi carico del costo del trasporto che varia dai 3 ai 5 euro.

Per quanto concerne le condizioni di vita, la quasi totalità dei braccianti incontrati da Medu ha trascorso la stagione vivendo in una struttura abbandonata, in una baracca o in una tenda sovraffollata nella zona industriale di San Ferdinando e dormendo, in più della metà dei casi, in un materasso a terra. Sono stati circa 2.000 i lavoratori che hanno affollato la zona industriale di San Ferdinando, distribuendosi tra la tendopoli e una fabbrica abbandonata in condizioni igienico-sanitarie allarmanti. Stessa sorte per le centinaia di lavoratori che vivono nei casolari abbandonati nelle campagne dei Comuni di Rizziconi, Taurianova e Rosarno, edifici fatiscenti, privi di elettricità (nei casi più fortunati alcuni migranti dispongono di generatori a benzina), di servizi igienici e acqua.

A tale proposito, nel febbraio 2016 è stato sottoscritto dalla Prefettura di Reggio Calabria, Regione Calabria, Provincia di Reggio Calabria, Protezione civile regionale insieme con Croce Rossa, Caritas, Emergency e Medu un protocollo d’intesa per la soluzione della situazione del campo di San Ferdinando e Rosarno. Il protocollo prevede un intervento in due fasi. Attraverso uno stanziamento di 300mila euro da parte della Regione Calabria verrà messa in sicurezza e bonificata l’area dove sorge l’attuale tendopoli attraverso la sostituzione delle tende e la verifica degli impianti elettrici, idrici e igienici. La seconda fase, già iniziata con un primo tavolo di confronto, prevede la costruzione di politiche di integrazione dei lavoratori nel tessuto abitativo della Piana di Gioia Tauro.

Per tali motivi Medu chiede alle Istituzioni che hanno sottoscritto il protocollo che il tavolo relativo la costruzione di politiche abitative porti alla definizione di soluzioni concrete da avviare già entro la prossima stagione. Si tratterebbe, in questo caso, di un passo decisivo nel ridare dignità ai lavoratori nonché di valorizzare – in un territorio a forte emigrazione come quello calabro – le centinaia di stabili in disuso presenti e di ridare vita ai centri abitati in forte spopolamento.

Medu, inoltre, chiede che vengano promossi alcuni strumenti chiave per la lotta al caporalato e al lavoro nero. Tra questi: il controllo della reale operatività delle O.P. (le Organizzazioni dei Produttori), il monitoraggio delle aziende presenti sul territorio e degli ettari messi a coltivo, il potenziamento dei centri per l’impiego come unico ponte possibile tra lavoratore e azienda, l’istituzione di linee agricole che garantiscano il trasporto pubblico da e verso i campi nonché l’introduzione degli indici di congruità.

Medu, infine, chiede che venga promosso presso il Ministero dell’Agricoltura un tavolo per il rilancio della produzione agrumicola della Piana e la definizione dei prezzi degli agrumi i quali, comprati ai piccoli produttori tra i 5 e 15 cent/kg rendendo quasi impossibile la copertura dei costi di raccolta, sono poi rivenduti dalla Grande Distribuzione fino a 2 euro al kilo.

Ufficio stampa – 3343929765 / 0697844892 info@mediciperidirittiumani.org

Medici per i Diritti Umani (MEDU) ha avviato a gennaio 2014 il progetto “TERRAGIUSTA. Contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura” in collaborazione con l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e il Laboratorio di Teoria e Pratica dei Diritti (LTPD) del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre. Il progetto è realizzato con il supporto della Fondazione Charlemagne, di Open Society Foundations, della Fondazione con il Sud e della Fondazione Nando Peretti.