Tempi duri per i palestinesi, a Gerusalemme Est come a Gaza o in Cisgiordania.
A Gerusalemme Est 420 mila palestinesi “residenti permanenti” vivono dal 1967 in una sorta di limbo legale, non sono né cittadini israeliani né cittadini giordani, non godono dei servizi, scolastici o sanitari, devono chiedere il permesso di lavoro come un immigrato anche se sono nati lì da famiglie che risiedono lì da generazioni; se vanno all’estero per un periodo superiore a tre mesi perdono il diritto di tornare. Dal 1967 ne sono stati espulsi quasi 15 mila, a molti è stata distrutta la casa con futili pretesti. La polizia conduce una pervicace campagna di persecuzioni quotidiane per indurli ad andarsene. Israele ha costruito gruppi di condomini dove si sono insediati 44 mila israeliani, destinati a tener accesa la provocazione. Tutti gli uomini d’affari israeliani si fregano le mani all’idea di quanti profitti garantirebbe una ristrutturazione su larga scala della storica Gerusalemme Est, liberata ovviamente dei palestinesi.
A Gaza o meglio fra le macerie di Gaza, in cui la fornitura di elettricità e servizi è un optional affidato al caso, in cui i servizi sanitari o le infrastrutture minime sono del tutto inadeguate, i palestinesi sono chiusi come in una gabbia, mentre a pochi chilometri sul mare fervono le ricerche intorno a depositi offshore di idrocarburi di dimensioni, pare, incredibili. Era logico che all’annuncio di Trump secondo cui gli Usa riconosceranno Gerusalemme come capitale di Israele ed vi trasferiranno la propria ambasciata, i palestinesi reagissero.
A Gaza, Ismail Haniya leader di Hamas ha chiamato all’Intifada, ma anche a Gerusalemme e Cisgiordania sono scesi in piazza; ci sono già i primi morti, molti feriti.
Ma questo non preoccupa Netanyahu, né Trump. Anche gli opinionisti più favorevoli ai palestinesi devono riconoscere che un’intifada è improbabile, non ci sono più le condizioni. Hamas è molto indebolita, Abu Mazen non ha molti sponsor; si è incontrato al Cairo con Al Sisi e con il re di Giordania (logicamente preoccupato che Israele tenti di deportare i palestinesi dei territori occupati nel suo paese), ma nessuno dei due può permettersi di contrariare Usa e sauditi.
Per i capi di stato arabi, per quanto autocrati, non c’è scelta, devono almeno formalmente esternare indignazione e contrarietà: hanno usato troppe volte l’argomento Palestina per rifarsi una verginità e affermato troppe volte Gerusalemme città santa dell’Islam. In realtà per lo più hanno strumentalizzato il dramma palestinese per propri fini, usandoli come carne da cannone.
La corte saudita è certamente pronta a un accordo di pace con Israele, anche a spese dei palestinesi, in funzione anti-Iran; vedrà comunque con sollievo un po’ di dimostrazioni a Gaza e Cisgiordania, utili a distogliere l’attenzione dalla fallimentare spedizione in Yemen, dalla Siria e dall’Iraq. Ma deve tener presente il pericolo che la causa palestinese sia fatta propria con molta efficacia dal Qatar con la sua tv Al Jazeera o dall’Iran, per non parlare della Turchia.
Nelle manifestazioni di protesta a Istanbul e in Anatolia, molti oratori hanno auspicato di ridar vita al glorioso califfato ottomano solo possibile liberatore dei mussulmani, perché quello che sta avvenendo è frutto del tradimento dei paesi arabi (da Ahval 8 dic. ’17).
Anche la Russia potrebbe trovare spazi di intervento. Putin si è recentemente dichiarato favorevole a Gerusalemme Ovest come capitale di Israele, purché la parte Est diventi capitale dello stato palestinese.
Tutti questi paesi potrebbero alimentare nuovi gruppi terroristici, ad es. resuscitare, dove è morta, l’Isis, che già collabora con Hamas nel Sinai. Il materiale umano, purtroppo, non manca, viste le disastrose condizioni dei palestinesi a Gaza, in Libano, in Siria, la maggior parte dei quali ha ben poco da perdere e molta legittima rabbia da sfogare.
Perché lo ha fatto? è la domanda che tutti si fanno in relazione a Trump, risposte del tutto convincenti non ci sono per spiegare la dichiarazione di Trump.
Una scelta che capovolge 70 anni di scelte diplomatiche. Nel 1947 l’Onu attribuì alla città, in quanto luogo santo di tre religioni, uno status speciale sotto tutela internazionale; la Giordania ne garantiva l’ordine. La guerra del 1948 permise a Israele di annettersi Gerusalemme Ovest. La guerra del 1967 lasciò in eredità i “territori occupati”, aree abitate e destinate ai Palestinesi, ma prese da Israele sotto controllo, fra cui Gerusalemme Est. Ma l’Onu e anche gli Usa non hanno mai riconosciuto a Israele un possesso legittimo, nonostante nel 1980 con la “Jerusalem Law” il governo israeliano abbia dichiarato unilateralmente la città capitale del paese. Di fatto tutte le ambasciate sono rimaste a Tel Aviv.
E’ capitato che qualche Congresso Usa abbia formulato risoluzioni favorevoli a questa posizione israeliana, ma i presidenti, di qualsiasi colore politico, le hanno bloccate ritenendole una forzatura non corrispondente agli interessi complessivi Usa. Ancora il 4 dicembre di quest’anno Jared Kushner, genero di Donald Trump e suo consigliere particolare sui processi di pace in Medioriente, intervenendo a un convegno della Brookings Institution, aveva espresso l’intenzione di lavorare gradualmente alla pace insieme agli attori coinvolti senza imporre decisioni dall’esterno. Ma gole profonde del NYT hanno rivelato che Kushner avrebbe avuto il via libera dall’erede al trono saudita proprio sulla questione di una capitale (Gerusalemme compreso l’Est capitale di Israele – capitale della Palestina Abu Dis, un sobborgo della Città Santa). Il piano prevedrebbe un’ulteriore rimozione di abitazioni palestinesi per ridurre il territorio della Cisgiordania e incoraggiare i palestinesi rimasti all’esilio. Kushner avrebbe tuttavia tentato di rimandare l’annuncio, appoggiato dal consigliere per la sicurezza nazionale Herbert Raymond McMaster, dal capo dello staff, John Kelly, dal segretario alla Difesa, James Mattis. Tillerson ha raffreddato gli animi dicendo che spostare un’ambasciata richiede almeno due anni: i servizi segreti Usa hanno lanciato l’allarme sicurezza per i cittadini americani in Medio Oriente. L’unica cosa che hanno ottenuto è un accenno di Trump all’ipotesi dei due stati. Che quindi sembrerebbe smentire che subito dopo Gerusalemme Est, Israele annetta anche legalmente la Cisgiordania. Favorevoli all’annuncio invece sarebbero il vicepresidente Mike Pence sionista convinto, e Sheldon Adelson, il principale finanziatore della campagna elettorale di Trump, ma anche la destra repubblicana, le comunità evangeliche e ovviamente la lobby sionista negli Usa.
E’ probabile che Trump abbia messo in conto cinicamente un po’ di morti (palestinesi, ma magari anche americani o occidentali), valutando i vantaggi elettorali della sua presa di posizione per se stesso e per Netanyahu.
Trump è sicuramente attento al proprio elettorato e alle elezioni di midterm dell’anno prossimo.
E’ indubbio che l’annuncio è anche un regalo per Netanyahu, che nella primavera del 2018 deve affrontare le elezioni e ha come avversario Avi Gabbay, a capo del Partito Laburista che però ha fatto il ministro di Netanyahu stesso e ha posizioni di destra moderata o di sinistra conservatrice; una nuova Intifada giocherebbe a favore di Netanyahu contro un avversario che adesso è valutato sul 25% dei voti.
D’altronde chi si straccia le vesti affermando che così Trump uccide il processo di pace, mente sapendo di mentire perché sono anni che non c’è nessun processo di pace in corso. E se trattative ci sono state, non hanno certo impedito il costante peggioramento della situazione dei palestinesi, con l’espansione dei coloni e la chiusura del mercato del lavoro israeliano per loro.
E che nessuno, tanto meno le capitali degli stati arabi hanno fatto qualcosa.
Quanto agli europei, capeggiati da Macron, sia pure con la vistosa defezione di qualche paese dell’Est, sono ovviamente contro la decisione di Trump, almeno come posizione di principio, salvo attendere gli sviluppo della situazione internazionale ancora fluida.
Oggi si svolgono manifestazioni di “solidarietà” coi palestinesi, a Teheran come a Doha, a Tunisi come a Beirut e a Damasco. Ma sono spesso pilotate dalle ambizioni dei governi, non certo al servizio della pace. La pace che i paesi imperialisti e le potenze regionali garantiscono in questi giorni a molti popoli medio-orientali è la pace dei morti.
Il nazionalismo palestinese dell’OLP e di Hamas, che con l’aiuto delle borghesie arabe e dei paesi imperialisti ha soffocato le correnti anticapitaliste e classiste palestinesi, è ormai un corrotto e impotente ostaggio degli sponsor. Le masse palestinesi sembrano aver capito che gli Abu Abbas e gli Hanya non meritano lo spargimento del loro sangue facendo da bersaglio a uno dei più micidiali apparati militari del mondo, superarmato con la collaborazione di americani, europei, russi (quanto alla Cina, Israele ne è il secondo fornitore d’armi).
In passato ci sono stati tentativi da parte di gruppi politici israeliani, pur minoritari, di costruire una solidarietà e un dialogo fra lavoratori israeliani e lavoratori palestinesi, ma non sono riusciti a dare una svolta. Da Tel Aviv giungono le immagini di manifestazioni di giovani palestinesi ed ebrei uniti contro la decisione di Trump e contro Netanyahu e il suo governo, contro il razzismo sionista. È nella crescita di una opposizione proletaria arabo-israeliana contro tutti i regimi dell’area, contro il capitalismo e l’imperialismo, per l’abbattimento dello Stato razzista israeliano e la formazione di una comunità socialista dei popoli del Medio Oriente l’unico “piano di pace” per quella regione.