Germania: con i licenziamenti di massa alla Volkswagen finisce un’epoca

Lunedì 28 ottobre, Daniela Cavallo, la presidente del Consiglio di fabbrica (Betriebsrat) della Volkswagen in Germania, ha annunciato ai lavoratori il piano del colosso automobilistico tedesco di chiudere tre stabilimenti e licenziare circa 15 mila operai (i primi annunci parlavano addirittura di 30 mila), con tagli al personale trasversali anche ai restanti stabilimenti in territorio tedesco (10 in totale). A ciò si aggiunge la “necessità” di tagliare i salari del 10% per tutti gli operai VW, congelando gli aumenti dei prossimi due anni e riducendo i bonus. Ulteriori tagli salariali sono richiesti se si vuole limitare il numero dei licenziamenti.

Rompendo lo storico accordo con i sindacati in vigore dal 1994 per garantire i posti di lavoro, VW sferra un attacco senza precedenti ai propri lavoratori. Il capo della divisione Volkswagen Thomas Schaefer ha parlato chiaro: “Le fabbriche tedesche non sono abbastanza produttive, hanno costi del 25-50% superiori agli obiettivi, il che significa che alcuni siti sono due volte più costosi rispetto alla concorrenza”. E ancora, in un documento pubblicato sul Bild: «È un fatto: produciamo a costi troppo elevati», ma «abbiamo piani chiari su come ottimizzare i costi dei prodotti dei materiali e della fabbrica. Se ognuno dà il suo contributo arriviamo velocemente all’obiettivo: torneremo ai vertici».

Di fronte all’aumento del costo dell’energia, che ha colpito pesantemente l’industria tedesca dall’inizio dell’attuale guerra in Ucraina per effetto della distruzione del North Stream, un gentile dono dell’asse Washington-Kiev-Varsavia; di fronte alla concorrenza ormai vincente delle produzioni cinesi, in prorompente ascesa nel mercato dell’automotive (recente l’introduzione dei dazi all’ingresso in UE, che però colpirà di nuovo l’industria automobilistica tedesca, che esporta in Cina più di quanto importa); per i colossi tedeschi è urgente ridurre i salari dei lavoratori per recuperare redditività e non perdere ulteriori quote di mercato.

La macelleria sociale di Volkswagen – per le sue dimensioni e il suo carattere inedito – assume un valore simbolico di spartiacque, in un contesto in cui per il secondo anno di fila l’economia tedesca sarà in recessione e già altri colossi hanno annunciato chiusure di stabilimenti, tagli del personale o hanno attivato la cassa integrazione (Bosch, Audi, Bmw, Thyssenkrupp, Daimler-Benz, ecc.). È la fine di un’epoca, dell’epoca in cui l’imperialismo tedesco, anche a scapito degli altri paesi europei, ritagliandosi una posizione quasi di blocco a sé nel mercato globale, riusciva a garantire condizioni di relativo benessere alla classe operaia tedesca, o almeno alla classe operaia della grande industria (infatti da molti anni, con l’approvazione dell’Hartz IV, si è enormemente allargata l’area dell’occupazione precaria, a salari anche infimi, per lo più fuori dall’industria). Nella nuova deriva verso un conflitto globale, in cui gli Stati Uniti cercano di scaricare sempre più i costi dei conflitti sugli alleati colpendo le loro economie, e dall’altra parte continua l’ascesa della Cina e dei paesi che con essa hanno forti rapporti di scambio, la borghesia tedesca si rivolge aggressivamente contro la classe operaia autoctona, smantellandone garanzie e condizioni di vita, in una lotta feroce per proteggere la propria posizione e riconquistare lo spazio perduto.

La domanda centrale, a questo punto, è: che tipo di risposta saranno in grado di dare gli operai tedeschi? Riusciranno a sfuggire al richiamo nazionalista, in ascesa anche a livello partitico con la Afd e la “sinistra” anti-immigrati di Sarah Wagenknecht che, ognuna a suo modo, cercano di ricompattare la classe lavoratrice intorno agli sforzi competitivi della propria borghesia? (Entrambe queste formazioni indicano nell’eccessiva attenzione al cambiamento climatico – quel fenomeno che ha Valencia ha provocato un numero ancora indefinito di morti – la causa prima delle disgrazie dei lavoratori tedeschi.) O sapranno lottare per difendere le proprie condizioni di vita collegandosi ai lavoratori degli altri paesi contro l’economia di guerra e in una prospettiva internazionalista, come hanno dimostrato di essere in grado di fare in passato (per es. con lo sciopero internazionale partito dalla lotta dei lavoratori Opel-Bochum nel 2004)?

L’annuncio della Volkswagen, per il momento, ha innescato una manifestazione spontanea degli operai (un’ora di fermo già il giorno dell’annuncio negli stabilimenti, la notte hanno manifestato in massa gli operai dello stabilimento Osnabrück in Bassa Sassonia, circa 250, tra i primi candidati alla chiusura). Nel frattempo è iniziato – martedì 29 ottobre – lo sciopero dei lavoratori delle industrie metallurgiche ed elettriche per il rinnovo contrattuale in varie città tedesche, organizzate dal sindacato IG Metall, con la richiesta di un aumento del 7% dei salari, a cui partecipano anche i lavoratori di Volkswagen e BMW.

Oltre a Osnabrück, si sciopera a Ratisbona in Baviera allo stabilimento BMW, dove gli scioperanti hanno esposto manifesti con le loro rivendicazioni. Inoltre, circa 200 dipendenti dell’azienda di batterie Clarios hanno portato fiaccole e bandiere sindacali per le strade di Hannover, in Bassa Sassonia. Nella stessa regione, nella città di Hildesheim, circa 400 dipendenti di Jensen GmbH, KSM Castings Group, Robert Bosch, Waggombau Graaff e ZF System Hannover hanno smesso di lavorare.

Va rilevato, tuttavia, che tra gli operai regna tuttora un certo sgomento, sono quasi increduli davanti alla macelleria sociale che si abbatte su di loro, e forse ancora convinti di poter salvare l’essenziale della propria condizione precedente – magari attraverso qualche sacrificio – con normali trattative sindacali. La crisi, sebbene prevedibile e annunciata, li ha sorpresi (chi sa se qualcuno di loro ricorda i tempi in cui si rimproverava ai lavoratori greci di vivere “al di sopra delle proprie possibilità”…). La risposta operaia, infatti, è ancora lontana da quella che seguì all’annuncio della chiusura della Opel Bochum nel 2004, che aveva provocato il blocco immediato dello stabilimento per una settimana intera e una giornata di sciopero internazionale di filiera come se ne sono viste poche altre nell’epoca della globalizzazione capitalista.

Il sindacato IG Metall minaccia conseguenze nei confronti della VW, definendo il progetto dei vertici del gruppo «inaccettabile», «una ferita al cuore di Volkswagen» (in realtà al cuore degli operai di Volkswagen), e al contempo si felicita del fatto che VW si sia resa disponibile a “trattare” (chiedendo ulteriori tagli salariali per scongiurare parte dei licenziamenti). Oltre che dalle sirene del nazionalismo, in Germania gli operai, a partire da quelli VW, dovranno anche guardarsi dai tentativi dei grandi sindacati di ristabilire una politica di collaborazione di classe con il padronato che, in tempi come questi di corsa verso la guerra, comporterà lacrime e sangue. Una sfida senza dubbio complessa anche alle leggi anti-sciopero, che in Germania prevedono il diritto di sciopero solo in occasione di rinnovi contrattuali, e non nei casi di chiusure e licenziamenti.

La domanda che invece riguarda noi nell’immediato è come coinvolgere in Italia quegli operai che sono e saranno direttamente colpiti dai processi di “ristrutturazione” (che sta accelerando anche nell’industria automotive e dei fornitori del Nord Italia, direttamente legati all’industria tedesca), perché si mobilitino in collegamento con la classe lavoratrice tedesca e degli altri paesi e respingano insieme il grave attacco alle nostre condizioni di lavoro e di vita che l’economia di guerra voluta dall’Unione europea pretende imporci.