Nell’enorme stabilimento Foxconn di Zhengzhou, nella provincia di Henan, dove circa 300 mila lavoratori producono il 70% degli iPhone venduti dalla Apple, è scoppiata una rivolta con scontri di migliaia di lavoratori contro guardie e polizia. La rivolta è ancora in corso, contro un apparato poliziesco imponente, affluito da diverse città. Lo stato cinese a sostegno della multinazionale di Taiwan Foxconn e della committente Apple, contro gli operai di una delle più grandi fabbriche del mondo. Le “caratteristiche cinesi” non ne mutano il carattere comune agli Stati “democratici” di Stato della borghesia, del capitale, per lo sfruttamento e l’oppressione della classe lavoratrice.
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Il malcontento degli operai covava da più di un mese. Quando sono comparsi i primi contagi Covid nell’enorme città-fabbrica in ottobre, l’azienda, per non fermare la produzione, ha dapprima trascurato le misure di protezione ed isolamento – qui il profitto ha avuto la meglio sulla politica “zero covid”, e ci ricorda le vicende di Bergamo – lasciando che il contagio si propagasse. All’esplodere del contagio, la Foxconn ha cercato di isolare la fabbrica-dormitorio, costringendo i lavoratori a vivere in isolamento. Ma migliaia di lavoratori e lavoratrici, in gran parte giovani, spinti dalla paura del contagio e per spezzare l’isolamento hanno lasciato il complesso Foxconn a piedi, per tornare alle città di provenienza.
Questa fuga in massa, che Foxconn ha cercato invano di tamponare offrendo premi, ha provocato mancanza di personale, tanto che l’azienda è stata costretta a una campagna di assunzione di quasi 100 mila nuovi lavoratori nel tentativo di non pregiudicare la produzione per la stagione dei picchi di vendite (Black Friday e Natale). I nuovi assunti sono stati attratti con la promessa di alti premi, e proprio il mancato pagamento di questi premi, le cattive condizioni di lavoro e abitative, la cattiva alimentazione, uniti alla condizione di isolamento in cui sono costretti a vivere, e al senso di pericolo per il contagio, hanno fatto esplodere la protesta tra i nuovi assunti. Tra i nuovi assunti anche molti studenti impegnati nel servizio civile, e “comandati” dalle autorità a prestare il proprio lavoro in Foxconn.
I lavoratori denunciano il fatto che il governo della provincia di Henan aveva sostenuto la campagna di reclutamento di Foxconn garantendo di avere provveduto a tutte le misure di prevenzione del contagio, e promettendo loro alti salari. In realtà molti si erano trovati a coabitare con lavoratori positivi al covid test, mentre i salari non erano quelli promessi. La richiesta più pressante dei lavoratori in lotta è quella di poter tornare a casa, contro il divieto opposto dall’azienda e dalle autorità, con pretesti sanitari.
Centinaia e migliaia di lavoratori hanno spaccato le telecamere di sorveglianza, divelto le paratie di isolamento, formando cortei all’interno del “campus”, brandendo tubi d’acciaio, forche e scudi strappati alla polizia in tenuta antisommossa, costretta ad indietreggiare. La battaglia è proseguita durante la serata, e solo un massiccio lancio di lacrimogeni ha costretto i manifestanti alla ritirata, mentre sopraggiungevano numerosi reparti di polizia antisommossa chiamati da altre città, (tra cui 20 autobus da Luoyang. Secondo una testimonianza, le autostrade verso Zhengzhou quella sera erano intasate da mezzi delle forze di repressione). Immagini successive rivelano scontri corpo a corpo, gruppi di lavoratori circondati dai poliziotti e arrestati, alcuni operai che hanno opposto resistenza sarebbero stati picchiati a morte, ma anche gruppi di lavoratori che affrontano la polizia con tubi di ferro e forche, e demoliscono le odiate cabine per il covid test, cui sono costretti a sottoporsi quotidianamente.
Questa lotta, probabilmente la più imponente e dura lotta operaia dopo la repressione di Tian Anmen, che ci dice che, nonostante una repressione capillare da parte di un apparato di “sicurezza” mastodontico e dotato delle più moderne tecnologie di riconoscimento facciale, la contraddizione tra lavoratori e capitale sta montando in Cina, accentuata dalle crescenti difficoltà economiche, collegate sia alla pandemia che alle tensioni politiche e commerciali con gli Stati Uniti.
Il rigido controllo sul sindacato di stato (che alla Foxconn è stato usato per “gestire” le misure anti-covid, ma non svolge la funzione di portavoce dei lavoratori nei confronti dell’azienda, ma semmai e malamente la funzione di controllo dei lavoratori per conto del capitale), e la sistematica repressione di ogni tentativo dei lavoratori di darsi proprie organizzazioni indipendenti (tantomeno di organizzare rivendicazioni e lotte), porta al fatto che il malcontento si traduca in esplosioni di rabbia, che l’enorme concentrazione di lavoratori ha il potenziale di trasformare in proteste e organizzazione politiche.
Un video della protesta, con scritte in cinese, ha come musica di sottofondo l’Internazionale, l’inno internazionale dei lavoratori – che aveva accompagnato anche la protesta di piazza Tian Anmen nel 1989, e che è stato cantato anche dagli studenti di Shanghai durante una protesta di qualche mese fa. Questo fatto ci dice che anche in Cina non è spenta la consapevolezza della necessità di una lotta che vada oltre le condizioni immediate, e ribalti il sistema capitalistico, tanto quello con “caratteristiche cinesi” come quello con i caratteri delle democrazie occidentali, per una società senza sfruttamento. Una comune consapevolezza, che dovrà trovare comuni forme di organizzazione e di azione.
http://cn.ntdtv.com/gb/2022/11/23/a103581457.html
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