Firmata la pace, il Sudan spera – GIAMPAOLO CADALANU

Accordo tra il governo sudanese e i ribelli autonomisti del sud per cessare le ostilità e spartirsi sia il potere esecutivo, sia il petrolio.

Accordo per una eventuale secessione indolore del sud.

Ridevano di gusto John Garang e Ali Osman Taha, il capo dei ribelli e il vicepresidente del Sudan, durante la cerimonia per la firma dell´accordo di pace. Mano nella mano davanti ai fotografi, il leader dell´Esercito popolare per la liberazione Spla e il numero due di Karthoum raccontavano barzellette e cercavano di dare al mondo l´idea che la guerra, dopo 21 anni di massacri, possa davvero finire. «E´ un accordo che chiude un capitolo oscuro nella storia del paese», ha commentato Colin Powell, aggiungendo con una punta di scetticismo: «… purché i firmatari lo rispettino».
Sotto il sole dello stadio Nyayo di Nairobi era presente tutta la nomenklatura dell´Africa che conta e parecchi diplomatici da oltre oceano: dal padrone di casa, il kenyano Mwai Kibaki, all´ugandese Yoweri Museveni, registi dell´intesa, ai vari rappresentanti della Lega araba, dell´Onu, dell´Organizzazione per l´unità africana, e ai diversi capi di Stato, per finire con il segretario di Stato americano e gli europei. A sottolineare il ruolo di mediazione svolto dall´Italia c´era Alfredo Mantica: per il sottosegretario agli Esteri «è una nuova fase», ma anche «il primo passo anche per la soluzione della crisi nel Darfur», nella speranza che si inneschi un «effetto domino, con benefici per tutto il Corno d´Africa».
La firma di Nairobi «cambierà per sempre il paese», ha detto il leader della Spla. In realtà l´intesa non prevede un trattato di pace, ma una serie di protocolli, che tutti assieme stabiliscono un “cessate il fuoco” permanente fra sud e nord. Se gli accordi verranno ratificati dal parlamento sudanese e dalle formazioni autonomiste, il Partito nazionale del congresso guidato dal presidente Omar Hassan al Bashir – al potere a Karthoum – e l´Esercito popolare di John Garang formeranno un esecutivo di coalizione: l´ex capo ribelle sederà sulla poltrona di “primo vicepresidente”.
Più importante ancora delle cariche governative: è stata raggiunta un´intesa anche sul petrolio, scoperto già negli anni ‘70 ma poco sfruttato per colpa della guerra civile. I profitti dei giacimenti saranno divisi a metà fra il nord e il sud. Insomma, sono state piantate le fondamenta per una convivenza tranquilla: se poi questa non dovesse funzionare, fra sei anni si farà un referendum per confermare l´unità del paese, o per sancirne la divisione definitiva.
L´ipotesi di una secessione non è esclusa: perché già era stata ventilata ai tempi dell´impero coloniale, ma soprattutto perché il Sudan, indipendente dal 1956, ha vissuto quarant´anni della sua storia in condizioni di guerra civile. Il paese è spaccato profondamente da differenze etniche e religiose: il nord è arabo e musulmano, il sud è nero, cristiano-animista. E la storia sudanese, ritmata fra la ricerca di egemonia degli arabi e le richieste di autonomia del sud, ha impedito al paese di sfruttare le potenzialità del territorio: oltre al petrolio, le ricche terre coltivabili e persino i giacimenti auriferi.
Così, mentre le due fazioni si combattevano, due milioni di persone sono morte di fame e malattie. E lentamente il paese è diventato un “escluso” della comunità internazionale, inserito nella lista americana degli “stati canaglia” per l´ospitalità a Osama Bin Laden, e protagonista delle cronache come ultimo rifugio dei mercanti di schiavi.
Se reggerà, l´intesa dello stadio Nyayo potrebbe rilanciare in maniera massiccia l´economia del paese. «Quello che prima veniva speso per la guerra adesso sarà speso per la sanità, per l´istruzione, per le infrastrutture», diceva ieri Omar Hassan al Bashir. E i giacimenti che oggi danno al suo governo 4 miliardi di dollari l´anno, potrebbero essere sfruttati a fondo, e cancellare il ricordo della fame in tutto il paese. «Non ci saranno più bombe che cadono dal cielo, né grida di bambini. Saremo ancora baciati dalla pace», ha detto John Garang in un insolito attacco di lirismo.
Ma i sogni dei leader sudanesi non erano condivisibili da tutti. La parola “Darfur” restava nell´aria, tanto più che appena pochi giorni fa Kofi Annan aveva parlato di «inasprimento» della situazione. Negli accordi sottoscritti non si parla della regione martoriata, degli sfollati o dei predoni. Ci ha pensato Colin Powell a chiedere un impegno per portare la pace anche nella regione ai confini con il Ciad. «Il conflitto ha rallentato, ma non è finito. Ciò che ho visto lo scorso settembre, con le persone espulse dalle loro case, continua». Allora aveva parlato di “genocidio” e si era attirato le ire dei diplomatici più prudenti. Stavolta, per non scordare le deportazioni, la fuga, i massacri, Powell si è quasi censurato. Ha usato solo la parola “tragedia”.
le vittime I calcoli più prudenti, forniti dall’Organizzazione mondiale per la sanità, parlano di 70 mila vittime da quando è cominciata la “pulizia etnica” sui villaggi. Altre stime si spingono fino a ipotizzare 300 mila vittime, ma basta la stima inferiore per parlare di “genocidio”. In gran parte sono persone uccise dagli stenti e dalle disastrose condizioni sanitarie durante la fuga dalle persecuzioni dei Janjaweed
gli sfollati Sono oltre un milione e 600 mila gli sfollati del Darfur. Le scorrerie dei predoni janjaweed hanno fatto abbandonare i villaggi alle popolazioni della regione, che ora vivono in giganteschi campi profughi. Almeno 200 mila sono i sudanesi che hanno preferito varcare clandestinamente i confini del Ciad, ma ora sono accampati vicino alla frontiera e sono ancora esposti agli attacchi

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