LA FABBRICA DELLA MORTE
Lo avevamo già denunciato a più riprese: Fincantieri non è solo il luogo dove si costruiscono i mostri necessari ad un turismo sempre più artefatto e disumanizzante, ma anche un’importante sito industriale che fabbrica sofisticatissime navi da guerra. La sua corresponsabilità nell’escalation bellica del governo italiano e non solo è stata oggetto di manifestazioni e presidi da parte delle forze che si sono mobilitate negli ultimi mesi contro la guerra imperialista in Ucraina e il genocidio in atto in Palestina. Una mobilitazione che è continuata nel tempo, per denunciare il passaggio dal porto di Marghera di navi cariche di armi dirette ad Israele.
Oggi un fatto di cronaca ci ricorda che questa grande impresa non è solo esportatrice di morte, ma la produce al proprio interno. E’ morto, mentre era al lavoro su una piccola impalcatura, Islam, un ragazzo bengalese di 34 anni, uno dei tanti assoldati dalle ditte di appalto, la Sait in questo caso.
Una morte senza caratteristiche gradite alla cronaca sanguinolenta che si è impossessata del caso di Satnam, che ha costretto le istituzioni a spremersi qualche lagrimuccia e ripassare il mantra padronale/governativo: il caporalato è una vergogna, va controllato, ci vogliono più ispettori, faremo di tutto, accerteremo le responsabilità e quant’altro si può ricavare da un braccio strappato e un morto dissanguato per mancanza di soccorso.
In questo caso, invece, ancora si esita a definire Islam un morto sul lavoro (donde il dilemma: morto di lavoro o mentre si trovava al lavoro?). In sordina, la sarabanda dell’ipocrisia si è messa in moto. Definire, da parte della ditta d’appalto per cui lavorava x ore al giorno, il povero Islam un “giovane collaboratore” è semplicemente ributtante. Il cordoglio di rito (con relativa colletta per la vedova) non fa dimenticare che la ditta era già stata condannata a pagare un milione di euro per un altro caso di morte di un lavoratore per contaminazione da amianto. Del resto la realtà dei lavoratori immigrati in Fincantieri emerge periodicamente: si lavora per una media di sei euro l’ora, per dieci ore al giorno e più (quando si tratta di consegnare la nave), senza ferie, malattia o tredicesima, per duecento ore al mese, arrivando a stento ai mille euro al mese. Falsificazioni della busta paga sono all’ordine del giorno, imposte ai lavoratori pena il licenziamento.
Islam era un operaio bengalese che come tutti i lavoratori delle ditte di appalto lavorava a ritmi e orari impossibili per un salario da fame. Aveva lasciato la famiglia a migliaia di chilometri di distanza e ad essa erano destinati i suoi miseri guadagni. Sappiamo quale livello di sacrificio è legato a questa come ad altre situazioni lavorative dei molti immigrati che lavorano in Italia.
Sindacati e forze istituzionali si dicono impegnati ad accertare la verità: a cosa è dovuta la morte di Islam: sono state rispettate le forme di sicurezza? Ha inalato qualche sostanza letale? Cosa non ha funzionato? Quello che non funziona, e mette quotidianamente a rischio le lavoratrici e i lavoratori, è questo sistema sociale complessivo. Un sistema che costringe giovani come Islam a lasciare la propria terra e la propria famiglia per mandare a casa il necessario per mantenerla. Un sistema che ti spreme fino all’osso e ti impedisce di fatto di curarti la salute, di fare prevenzione, di fermarti se hai la sensazione che qualcosa non va bene nel tuo organismo. Così vai al lavoro anche se non ti senti tanto bene, perché rischi ad ogni momento la sanzione o il licenziamento. Perchè un giorno di lavoro in meno rischia di far mancare ai tuoi cari il necessario.
Anche se verrà fuori che era tutto in regola, e quindi anche i sindacati si sentiranno esonerati da fare qualcosa oltre allo sciopero pro forma che hanno indetto, e i dipendenti diretti della Fincantieri autorizzati a considerare i lavoratori immigrati un mondo a parte, noi sappiamo bene che niente è in regola, e che la valanga di incidenti e morti di lavoro e sul lavoro (nel 2023, ben 11.700 nella provincia di Venezia) non si arresterà, finché non metteremo in atto forme di lotta che vadano ben oltre la denuncia. E’ il diritto al profitto che dobbiamo smantellare! E’ la volontà di resistenza e di lotta operaia e sociale che dobbiamo contribuire a ricostruire!
Comitato permanente contro le guerre e il razzismo-Marghera
Comitato 23 settembre