Fatah e Hamas. Una tardiva riconciliazione che unisce due debolezze

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Il nuovo accordo fra le due frazioni palestinesi non unisce i due tronconi di una resistenza popolare diffusa e radicata, ma interrompe – o per lo meno sospende – uno scontro fra due dirigenze mercenarie, deboli e screditate, che non rappresentano un popolo ma al più una borghesia strettamente integrata col “nemico” – o meglio, col socio d’affari – sionista.

Quello del 23 aprile 2014 è l’ennesimo tentativo di riconciliazione fra Hamas e Fatah, dopo sette anni di guerra fratricida. Lo scontro esplose nel 2007 e portò al controllo totale di Gaza da parte di Hamas e a una difficile convivenza in Cisgiordania, dove i militanti di Hamas sono stati spesso colpiti dalla polizia dell’ANP, l’autorità nazionale palestinese che fa capo all’OLP (nota 1). Da allora i territori palestinesi sono di fatto spezzati in due. Gli accordi di pace fra Hamas e Fatah sono stati in passato almeno una dozzina. Da ricordare almeno quelli dell’aprile-maggio 2011 al Cairo, ma anche quelli sponsorizzati dall’emiro del Qatar nel febbraio 2012 (Accordo di Doha) e dal governo egiziano al Cairo nel maggio 2012. Nessuno di questi accordi ha avuto ha avuto alcun esito concreto.

L’isolamento internazionale di Hamas ha favorito il nuovo riavvicinamento.
Abbas, il leader di Fatah, che controlla Cisgiordania e Cisgiordania, è indebolito dal fallimento sostanziale dei negoziati con Israele, coordinati dal segretario di stato statunitense Kerry; 79 anni, erede di Arafat, Abbas è percepito dai palestinesi come un leader di non grande prestigio, gestisce le mediazioni interne all’OLP, ma soprattutto controlla i fondi e il patrimonio dell’OLP.
Anche Hamas attraversa una fase di estrema debolezza: ha scommesso sulle primavere arabe e legato le sue sorti ai Fratelli Mussulmani; per questo ha deciso di sostenere in Siria i ribelli contro il regime di Bashar al-Assad, per cui il leader storico di Hamas Meshaal è stato espulso da Damasco. Hamas ha quindi rotto anche con Hezbollah e con l’Iran, suo storico sponsor, perdendone il sostanzioso contributo finanziario. La Turchia di Erdogan si è proposta come alleato di ricambio e lo stesso ha fatto il Qatar, ma entrambi hanno limitato gli aiuti economici e militari (Al Jazeera 13 dic 13). Nel luglio 2013 Hamas ha perso l’appoggio del presidente egiziano Morsi, rovesciato dal colpo di stato militare; ogni attività di Hamas in Egitto è proibita, le sedi chiuse, gli attivisti arrestati e soprattutto molti dei 1600 tunnel che garantiscono l’interscambio economico fra Gaza e l’Egitto sono stati bombardati, riducendo l’afflusso di cibo e armi a Gaza. Osama Qawasmi portavoce di Fatah nella Cisgiordania ha definito le scelte di Hamas come un “suicidio politico”, che è stato pagato dai cittadini di Gaza, con la fame, la disoccupazione (è stato di nuovo chiuso il valico di Rafah) e in generale con un netto peggioramento delle loro condizioni di vita. Fatah aveva respinto ogni accusa di collusione con l’esercito egiziano e accusato Hamas di interferenza negli affari interni egiziani (Al Jazeera 14 sett 2013). Molti leaders di Fatah sono uomini d’affari con un forte intreccio di interessi sia con Israele che con l’Egitto e considerano comunque l’Egitto come uno scudo che garantisce la sopravvivenza della nazione palestinese.

Quindi Al Arabiya ha paragonato l’accordo a uno dei matrimoni delle celebrità, “ una cerimonia stravagante seguita a breve da un divorzio”. Soprattutto, anche se funzionasse, sarebbe l’unione di due debolezze. Il parere (interessato perché esprime la posizione degli Emirati), è condiviso anche da BBC e France 24. Mai Abbas e Hamas sono stati così isolati a livello internazionale, così poco presi in considerazione nei giochi politici dell’area; è il riflesso del fatto che la stessa Israele sembra relativamente marginale per gli Usa, impegnati in un processo di riavvicinamento all’Iran. Gli Usa hanno intrapreso la loro azione diplomatica più per problemi di prestigio che per convinzione. (Asia Times 28 marzo 2014). Ma mai le due dirigenze sono state così deboli all’interno del fronte palestinese.

Molto negative le reazioni del governo israeliano. Netanyahu ha dichiarato, come nel 2011, che non tratterà con chi, come Hamas, non riconosce lo stato di Israele. Ovviamente la divisione del fronte palestinese ha sempre giocato a favore dei “falchi” come Netanyahu o dei gruppi della destra integralista. Il mantenimento dello status quo consente di mantenere in Israele lo stato di emergenza, di soffocare ogni critica e di schiacciare i lavoratori israeliani.
Abbas, a nome dell’OLP, ha ribattuto che è una reazione pretestuosa (“Ci chiedete sempre come possiamo garantire l’ordine a Gaza e in Cisgiordania, adesso potremmo, ma voi non volete trattare” – cfr Times of Israel 26 aprile).
Fonti Usa hanno sottolineato che il governo statunitense potrebbe sospendere i 400 milioni di $ in aiuti economici e militari all’OLP.
Anche il nuovo leader egiziano Al Sisi è contrarissimo a un governo di coalizione, dal momento che accusa Hamas di terrorismo nell’area del Sinai. Infatti Hamas è ritenuta responsabile dell’attacco al valico di Rafah avvenuto nell’agosto 2012 e costato la vita a 16 soldati, attacco al seguito del quale per mesi villaggi beduini del Sinai sono stati bombardati da elicotteri egiziani per stanare i beduini alleati di Hamas; l’incidente mise in grave difficoltà l’esercito egiziano permettendo al presidente Morsi di costringere alle dimissioni l’allora presidente del Consiglio Superiore delle Forze Armate, il generale Tantawi, e di sostituirlo con quello che sembrava il più fedele generale Al Sisi.

Anche se il palestinese comune vede lo scontro Hamas-Fatah come una disputa fra elites affamate di potere, l’accordo trova violenta opposizione nei rispettivi campi delle due organizzazioni.
Il primo ministro Rami Hamdallah, legato come altri autorevoli membri di Fatah, ad es. Abdel Rahim, al re di Giordania e alla giunta militare egiziana (Al Monitor 16 feb14), ha offerto le sue dimissioni.
Fatah e Hamas sperano che l’accordo rinserri le fila palestinesi e dia una boccata d’ossigeno alle rispettive dirigenze, ma la situazione economica a Gaza e in Cisgiordania è critica, la disoccupazione ai massimi storici. Le critiche alla corrotta e clientelare dirigenza di Fatah sono aumentate. Accanto alle miserevoli condizioni di vita dei proletari prosperano le grandi famiglie affaristiche, ingrassate dalla situazione di monopolio con cui gestiscono attività produttive, commercio turismo e gli appalti dello stato palestinese, grazie alla totale non trasparenza nella gestione dei fondi e degli aiuti internazionali. Uomo di spicco nella delegazione di Fatah il 23 aprile, al momento della firma dell’accordo è stato il miliardario palestinese Mounib al-Masri, capo di una multinazionale dell’energia, telecomunicazioni, turismo e altri settori, il quale sta portando avanti una trattativa separata con industriali israeliani per porre fine alla guerra. Uomini come lui, strettamente immanicati con la dirigenza politica di Fatah, ufficialmente patrioti, non si fanno scrupolo ovviamente di sfruttare i lavoratori palestinesi, che non possono spesso nemmeno emigrare, con salari da fame (cfr la denuncia di Tariq Dana, di Al Shabaka, febbraio 2014)

L’accordo dovrebbe consentire un miglior controllo interno delle opposizioni per evitare lo sviluppo di movimenti più estremi (The National 26 aprile), ma l’influenza di Hamas potrebbe rivelarsi assai indebolita: in passato la sua impressionante preparazione militare e le azioni spericolate dei suoi membri avevano suscitato il rispetto e l’ammirazione dei Palestinesi, la sua leadership compatta e immutata coniugava un islamismo conservativo con il nazionalismo palestinese e col panarabismo (quello palestinese è un problema di tutti gli arabi), ma dopo la partecipazione alle elezioni nel 2006 i leader hanno avuto accesso alla gestione dei fondi, sono entrati in affari con Israele, ne hanno accettato i passaporti e questo ne ha eroso la popolarità.
Quindi la stampa palestinese è cauta nel valutare positivamente l’accordo; l’organo ufficiale di Fatah, Al-Hayat al-Jadidah afferma che ora Israele non può dubitare del fatto che Abbas parla a nome di tutti i palestinesi; mentre sul sito di Hamas Filastin Online sottolinea che la partnership deve essere “genuina” per essere efficace. Anche Al-Ayyam, pro Fatah, esprime dubbi sulla possibilità che l’accordo regga.

I nodi da sciogliere sono se Hamas accetterà di sottoscrivere gli accordi con Israele (conservando all’ANP i fondi occidentali, ma anche quelli delle monarchie del Golfo), ma soprattutto come verrà spartito il controllo delle forze di sicurezza. La fine delle ostilità consentirebbe finalmente una ripresa dell’attività economica nella Striscia di Gaza, strangolata dagli embarghi. Ma potrebbe portare al rovesciamento della leadership attuale.

Quale che sia l’avvenire della nuova coalizione, per la classe lavoratrice palestinese non c’è futuro al seguito della propria borghesia: la sua dirigenza politica, al di là delle storiche divisioni fra i diversi gruppi interni all’OLP o di quella più recente fra laici e religiosi, non solo ha ampiamente dimostrato di mettere la conservazione dello sfruttamento al di sopra della liberazione nazionale ma è sempre stata disposta a mutare linea politica secondo la convenienza dei propri finanziatori, fossero essi potenze imperialiste, paesi arabi, l’Iran o Israele stesso, questo per tacere dell’arrivismo personale e del clientelismo dei singoli leader, uomini ammanigliati con gli sfruttatori di tutto il medio oriente, ricchissimi in mezzo a una popolazione poverissima.

L’unica strada per i lavoratori palestinesi è l’unione col proletariato di Israele, sfruttato e usato a piè sospinto come carne da cannone nel nome di un’ideologia razzista, per rovesciare il sistema politico, economico e sociale che ha generato e mantiene in vita sia l’oppressione nazionale sia quella di classe.

Nota 1 – Va ricordato che l’OLP (organizzazione per la Liberazione della Palestina, fondato nel 1964, è una coalizione di più organizzazioni: Fatah, FDLP (Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina), FPLP (Fronte Popolare di Liberazione della Palestina). Hamas e la Djihad islamica non ne fanno parte. Fatah, fondata da Arafat, ha sempre avuto un ruolo dominante in particolare nella gestione dei fondi dell’OLP e questo ruolo è passato ad Abbas. (detto anche Abou Mazen)