Euroimperialisti, eurostoppisti, eurofurbetti a 5 Stelle ed… eurobolscevichi da operetta

La tornata elettorale europea, dalla Spagna all’Austria, Olanda, e ultima la Francia, ha visto ridimensionati i partiti “populisti” anti-europei, complice una ripresa per quanto fiacca dell’economia. La UE perde la Gran Bretagna, ma evita per ora l’effetto domino. Anche se sembra avviata ad inglobare la parte mancante dei Balcani, chi sperava che la Brexit avrebbe lasciato un’Unione più compatta e capace di procedere rapidamente verso l’integrazione politica e militare, può mettersi il cuore in pace: l’ “europeista” Macron ha fatto più viaggi in Africa, a marcare il territorio a predominio francese, che in Europa, dove non ha fatto concessioni all’Italia sugli immigrati.

Ma l’evento che forse più d’ogni altro manifesta la politica estera del nuovo presidente francese è la parata militare del 14 luglio, la festa nazionale francese (con cui gli enarchi si appropriano dell’insurrezione dei sanculotti). A fianco dei militari francesi sono stati chiamati non quelli europei, ma quelli americani, nel centenario del primo intervento militare americano in Europa contro la Germania. L’unico capo di Stato invitato è stato Trump, al quale Macron ha parlato dell’eterna amicizia franco-americana. Se la Merkel non aveva ancora capito, ora le è chiaro… la Force de Frappe francese non diventerà europea, l’obiettivo strategico USA di impedire la formazione di una potenza politico-militare europea unificata trova una sponda nella Francia… a patto che gli USA garantiscano all’imperialismo francese la sua sfera d’influenza africana.

Anche l’imperialismo italiano, che ha visto rintuzzato proprio dalla Francia il tentativo di usare la crisi degli sbarchi di immigrati dalle coste libiche per piazzare soldati in Niger, cerca di arruffianarsi con gli yankee per garantirsi influenza e affari sulla costa sud e est del Mediterraneo.

Contro questa Europa che si conferma un’unione commerciale tra Stati che continuano a farsi le scarpe sul piano politico-militare e degli investimenti esteri, assistiamo in Italia ad attacchi, da destra come da sinistra.

Così come i politici governativi vorrebbero convincere tutti, lavoratori e borghesi, che fuori dell’Europa non c’è futuro, gli anti-europeisti vogliono convincerci che tutti i mali in Italia vengono da Bruxelles, Francoforte e Berlino.

Ma mentre gli” europeisti” ufficiali (praticamente tutta la grande borghesia, dell’industria e della finanza, con i suoi organi di stampa e, tra i partiti borghesi, principalmente il PD) sono sempre più screditati e impopolari gli “antieuropeisti” acquistano un seguito sempre maggiore negli strati popolari ma soprattutto nella piccola borghesia schiacciata nei suoi interessi e nella sua posizione dal soverchiante potere del grande capitale. Tra le formazioni antieuropeiste alcune sono per storia e tradizione apertamente reazionarie (Lega Nord, fascisti) altre come il Movimento 5 stelle pascolano su un terreno particolarmente ambiguo: il loro dichiararsi “né di destra né di sinistra” favorisce una certa disinvoltura nelle prese di posizione al punto che non pochi settori provenienti dalla cosiddetta sinistra radicale hanno visto in loro una possibilità di concentrare forze utili per l’attacco al potere del grande capitale. In realtà proprio l’ambiguità” costituzionale” dei 5 stelle ha permesso con grande facilità il loro passaggio da un antieuropeismo “popolaresco” a uno apertamente reazionario del tutto contiguo con quello dei leghisti e dei fascisti.

Tuttavia queste forze per quanto possano reclutare le loro forze” negli strati popolari” e persino nella classe lavoratrice sono comunque forze borghesi che nulla hanno a che fare con la tradizione storica e la prospettiva del movimento di emancipazione della classe lavoratrice e pertanto in una situazione di ripresa di un movimento proletario indipendente, a livello politico e sindacale, sono facilmente individuabili come forze che “stanno dall’altra parte della barricata” e da combattere come tali, con pari vigore rispetto alle forze della borghesia “europeista”.

Il guaio invece viene dal fatto che forze politiche che si richiamano al comunismo si siano con determinazione posizionate su una delle due opzioni che dividono il campo delle forze borghesi: quella europeista e quella antieuropeista. Noi dissentiamo sia dagli uni che dagli altri: come abbiamo sostenuto anche su Pagine Marxiste: l’insicurezza, la disoccupazione, il peggioramento continuo nelle condizioni di vita dei lavoratori italiani vengono dal sistema capitalistico, dai capitalisti che li sfruttano e li opprimono, siano essi di nazionalità italiana, europea o extraeuropea, e dalle loro istituzioni statali, politiche, militari, giudiziarie che garantiscono loro il potere economico e politico, potere ancora in gran parte concentrato negli Stati nazionali, a partire da quello italiano.

A nostro avviso il compito dei comunisti consiste in un lungo e paziente lavoro di educazione e di organizzazione della classe lavoratrice. Questo lavoro va finalizzato da un lato a favorire la necessaria resistenza quotidiana all’oppressione nel posto di lavoro e nei territori, la lotta contro i frutti avvelenati della società basata sul profitto, il militarismo, il razzismo, per dirla in un concetto semplice la lotta per migliorare le condizioni degli sfruttati all’interno dell’attuale sistema. Dall’altro lato, e simultaneamente al primo, i comunisti conducono un lavoro di preparazione alla necessità dell’abbattimento del sistema di produzione basato sul profitto e per l’instaurazione di un sistema basato sulla soddisfazione dei bisogni sociali in cui non esisteranno più guerre, sfruttamento, alienazione e spersonalizzazione.

Questo immenso lavoro non può che essere deviato su un binario morto se i comunisti anziché favorire tutto ciò che spinge a una sana indipendenza della classe lavoratrice mettono quest’ultima al rimorchio delle forze borghesi: sia con l’Unione Europea o l’Euro sia senza, i capitalisti sfrutterebbero comunque i proletari, condurrebbero l’umanità a devastanti guerre, avvelenerebbero il pianeta. Pertanto lasciamo ai borghesi le dispute su come realizzare meglio i loro profitti e mettiamoci a fare concretamente quello che ci compete fare: rafforzare il movimento di emancipazione della classe lavoratrice. In questa ottica diamo spazio a due interventi, uno del Centro comunista Internazionalista (Il cuneo rosso) e l’altro del collettivo Francesco Misiano. Si tratta di due interventi di critica politica: il primo (quello del cuneo rosso) alle posizioni degli “eurostoppisti” della sinistra radicale, l’altro (quello del Circolo Francesco Misiano) di critica alle posizioni “europeiste” dei bolscevichi da operetta di Lotta Comunista. Ci auguriamo che anche attraverso questi interventi si faccia strada una posizione proletaria rivoluzionaria sulla questione.

Cremaschi, i suoi 1.000 orologi e la truffa “sovranista” di Eurostop

L’assemblea di Eurostop tenutasi a Roma il 28 gennaio scorso merita due note di commento. Nulla che passerà alla storia, intendiamoci. È solo cronaca. Cronaca di una delle tante forme, in Europa, di accodamento delle sinistre alla tematica, imposta dalle destre iper-nazionaliste, dell’uscita dall’euro e dall’UE come (falsa) via maestra per risolvere i gravi problemi sociali creati dalla crisi del sistema capitalistico. Le tesi presentate a Casalbruciato erano già state presentate nelle precedenti iniziative di Eurostop. Però un paio di cose almeno in parte nuove, ci sono state. Anzitutto l’estrema nettezza con cui è emerso il messaggio politico effettivo di Eurostop, soprattutto grazie all’ospite d’onore del consesso, il magistrato Paolo Maddalena. E poi la violenza verbale, il sarcasmo con cui il mite Cremaschi si è ritenuto in dovere di attaccare ogni prospettiva di lotta che sia fondata su basi di classe, quindi internazionaliste, anziché, com’è l’Ital-exit, su basi democratiche e popolari, e quindi nazionali e nazionaliste.

Il documento preparatorio dell’assemblea e l’intervento introduttivo di Cremaschi hanno come loro termine-chiave la rottura. Rottura con che cosa? Con l’euro e l’UE – la Nato, sebbene nominata, è rimasta molto sullo sfondo; si è parlato ben poco delle guerre Nato, e meno ancora del militarismo e dell’imperialismo italiano. Rottura con “la globalizzazione liberista”: è questo il nemico dal cui dominio affrancarsi, in un processo di “liberazione dal capitalismo liberista”. Per quale obiettivo? Riaffermare “la sovranità democratica e popolare del nostro paese“. Si tratta, perciò, quanto al nemico, di un nemico essenzialmente esterno all’Italia. Altrimenti che senso avrebbe parlare di recupero di sovranità? E, quanto al movimento politico da mettere in campo, si tratta di un movimento che punta al “cambiamento progressista”. Un progresso che è costituito curiosamente da un ritorno all’indietro. Infatti la rottura proposta da Cremaschi “è riconquista di democrazia, potere popolare, eguaglianza sociale”. Naturalmente anche il socialismo è evocato, è d’obbligo in simili discorsi; non guasta, come lo zucchero a velo sul pandoro (a chi piace). È evocato, in coda, anche il conflitto di classe, che deve portare energia al progetto “sovranista” di sinistra: costituirne cioè la manovalanza. Ciò non toglie che esso si presenti con margini di ambiguità tali da poter coinvolgere, forse, anche settori di lavoratori e di giovani disposti realmente a lottare. È questo il solo motivo per cui ce ne occupiamo.

L’ospite d’onore, Maddalena, vice-presidente emerito della Corte Costituzionale, ha avuto il merito di spazzare via una buona parte delle ambiguità di partenza dell’assemblea mettendo chiare le carte in tavola per tutto il circo social-nazionalista lì presente. L’anziano giurista ha tenuto una vera e propria lezione (non i 7 minuti a testa degli interventi). Divisa in due parti: una di economia, l’altra di politica. Quella sul capitalismo contemporaneo è stata a dir poco sgangherata perché ha ripetuto, per giunta male, la fregnaccia secondo cui il capitale finanziario è colpevole di ogni male sociale, come se il capitale finanziario fosse un’altra cosa dal capitale senza altri aggettivi e specificazioni. La seconda parte del suo discorso, più lineare, più competente, più esplicitamente politica, è stata un peana per la “nostra meravigliosa Costituzione”. Specie per l’art. 42, perché pone limiti alla proprietà privata (si è visto negli scorsi 70 anni, e più ancora negli ultimi 30!) e le mette accanto, alla pari, anzi: al di sopra, la proprietà pubblica (in realtà, statale).

La parte economica della lezione ha opposto tra loro keynesismo e neo-liberismo, due politiche che tutto sono salvo che opposte, essendo entrambe espressione di differenti, e complementari, necessità capitalistiche (questa opposizione fasulla era rimasta sottotraccia nella relazione di Cremaschi). Al keynesismo ha rivendicato il merito della spesa sociale dello stato, come se essa facesse parte organica delle politiche keynesiane – una tesi sostenibile solo ignorando tutto del keynesismo reale, specie quello di guerra (il keynesismo più vero!) da un lato, e dall’altro ignorando che solo le lotte della classe lavoratrice e lo sfruttamento imperialista hanno consentito un po’ di welfare a tempo in Occidente e in Italia. Così al summit di Eurostop Keynes, il Lord britannico speculatore di borsa dal feroce spirito anti-proletario, è uscito con l’aureola di santo salvatore di coloro che si sudano la vita a salario, quando ce l’hanno, il salario. Al neo-liberismo, per contro, Maddalena ha accollato tutti i frutti maligni del capitalismo. Inclusa, per intero, la crisi del 2007-2008 in quanto prodotta da una “deformazione dell’attuale sistema economico”, che senza le deformazioni neo-liberiste sarebbe evidentemente un’economia differente, messa bene in forma, esente da crisi. Puerilità desolanti.

Quanto al suo messaggio politico, lo si può condensare così: la “nostra meravigliosa Costituzione” è keynesiana, e ad essa si deve tornare, ribellandosi alle legislazioni europee, scritte e approvate da “traditori della patria” (testuale, come tutto ciò che è qui tra virgolette). Per fare che cosa? Per “ricostituire l’unità del popolo italiano”, la “nostra comunità politica” fondata sulla triade popolo-territorio-sovranità, cioè la nazione – dobbiamo specificare: borghese? In coda il “programma concreto”: no alle privatizzazioni e alle delocalizzazioni, nazionalizzazione dei terreni abbandonati, riconquista del territorio italiano, etc., con lo stato, la “proprietà pubblica”, nella parte dell’eroe buono di tutta la storia, che ha il compito di riportare all’unità le diverse componenti del “popolo”, anzitutto quindi il capitale e il lavoro.

Applausi. Applausi caldi. Applausi generali, filiali, riconoscenti – un intervento “ricco e stimolante”, l’ha definito un esponente della Rete dei comunisti… Applausi più convinti di quelli riservati alla relazione di Cremaschi, per non parlare poi degli altri interventi. Applaudiamo anche noi. Perché Maddalena ha spiattellato, forse senza esserne cosciente fino in fondo, qual è, spogliato dalla fuffa che lo ricopre, il reale contenuto della “rottura” evocata con consumata demagogia da Cremaschi: il ritorno, in economia, ad una politica keynesiana e, in politica, alla repubblica parlamentare come strutturata dalla Costituzione. Del resto, il punto 13 del documento preparatorio dell’assemblea coincide alla virgola con la prospettiva esposta dall’ospite d’onore, un democristiano di lungo corso, a suo modo dignitoso come nemico di classe:

“La rottura punta alla regressione della globalizzazione, per far avanzare di nuovo una democrazia fondata sulla eguaglianza sociale. Nel referendum costituzionale abbiamo misurato il contrasto strategico tra la Costituzione del 1948 e la governance europea e occidentale. Bisogna agire su questo contrasto e trasformarlo in rottura politica: o la Costituzione antifascista, o l’Euro, la UE, la Nato“.

Ovvero: usciamo dall’euro e dall’UE per tornare alla nazione, alla sovranità nazionale – altro punto essenziale trattato da Maddalena; a una nazione che abbia a suo punto di riferimento la Costituzione del 1948. Cremaschi ha la faccia di bronzo di definirla “fondata sull’eguaglianza sociale”. Fondata sull’eguaglianza sociale? Con tanto di protezione della proprietà privata dei mezzi di produzione “riconosciuta e garantita dalla legge”? Con tanto di divieto costituzionale al “popolo sovrano” di esprimersi in materia di fisco, essenziale strumento della lotta di classe dall’alto contro i lavoratori? Una Costituzione in “contrasto strategico con l’euro, la UE, la Nato”? Ma quale narrazione inventa? I padri della Costituzione del ’48, libro sacro di Eurostop, sono stati, all’unanimità o a maggioranza, tra i promotori del processo di unità economica-politica dell’Europa e della nascita della Nato – protetti a priori, nella “nostra meravigliosa Costituzione”, dal divieto al suddetto “popolo sovrano”, che secondo Maddalena sarebbe addirittura il produttore delle leggi, di immischiarsi nelle faccende di somma importanza quali i trattati internazionali, come quelli istitutivi della Nato, dell’Unione europea, dell’euro, che non possono essere neppure oggetto di referendum (art. 76).

La nazione, il paese, il nostro paese, il popolo italiano, la nostra comunità politica: questo il soggetto chiamato in campo dalla “rottura” evocata da Cremaschi e dagli altri, con formule tratte pari pari dall’armamentario classico del nazionalismo, dello stalinismo (il fronte popolare) o da quello più slavato di Landini (l’esperienza coalizionale…). Formule rese subito elastiche, quanto al riferimento alle classi sociali e alle forze politiche con cui consorziarsi, da alcuni aggressivi interventi “anti-settari”, che hanno invocato a gran voce “la più vasta unità del popolo italiano“, e proposto con decisione la massima apertura ai cinquestelle. C’è chi, come Porcaro, si è spinto fino a dire: finiamola di aver paura del termine nazione, e/o interessi nazionali! E anche della bandiera sarà il caso di discutere. Di quella tricolore, beninteso. Qui si è fermato: il resto delle porcate, la prossima volta. Ha però anticipato il tema: se è vero che siamo stati sempre con Cuba e con il suo “patria e socialismo”, perché fare tanto gli schizzinosi con la nostra patria? Ed ecco, con un pessimo gioco di prestigio, messi sullo stesso piano, qualunque cosa si pensi del “socialismo” di Castro e Guevara, un paese dominato dall’imperialismo che si è battuto per decenni, a suo modo, contro il massimo degli imperialismi, e un paese come l’Italia, imperialista da un secolo e passa, che da solo o in varie e variabili alleanze imperialiste, aggredisce, bombarda, inquina altri paesi, super-sfruttando i proletari e i contadini di altri paesi in Est Europa, in Medio Oriente, America Latina, Africa in combutta col super-imperialismo yankee. Definitelo come volete: imperialismo straccione, a scartamento ridotto, di secondo rango rispetto alla Germania, ma sempre imperialismo – secondo i calcoli attendibili di J. Smith, all’ottavo posto nel mondo per la spremitura del lavoro fuori dalle proprie frontiere e anche, grosso modo, per il numero delle proprie missioni militari all’estero (se non come spesa bellica).

Dunque il 28 gennaio Eurostop ha iniziato a sdoganare apertamente, oltre al tema del recupero della sovranità nazionale, la difesa della patria. Cosa, del resto, inevitabile, data l’intima connessione tra i due temi. L’ha fatto, si capisce, da sinistra. Con tanto di formule fumose sull’Ital-exit gestita dal basso, sulla “rottura sociale”, i diritti democratici, le “città ribelli”, la “cittadinanza europea” (ma non volete uscire dall’UE?), la “questione sociale”, le nazionalizzazioni, etc. La sostanza di fondo però è: uscire dalla globalizzazione, o far regredire la globalizzazione, rompendo con euro e Unione europea, mettendosi in proprio come nazione, liberi dai lacci e lacciuoli di Bruxelles e Berlino. Per andare dove? Ovvio: per andare, anzi per restare, dove non si può non essere nel XXI secolo: nel mercato mondiale globalizzato. Poiché non si esce certo dal mercato mondiale cambiando la moneta o uscendo dall’Unione europea, ma solo – e peraltro in misura molto parziale – con la rottura rivoluzionaria del potere politico del capitale e l’avvio della trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali capitalistici.

Promettere di ‘uscire dalla globalizzazione’, come fanno Cremaschi e le forze politiche e sindacali riunite in Eurostop, è una pura e semplice truffa. L’antesignana della rottura con la UE May, premier tory del Regno Unito, l’ha detto chiaro: vogliamo liberarci dai lacci UE per stare più di prima sul mercato globale, per starci come una potenza globale, per giocare da soli, in proprio, la nostra partita. ‘Uscire dalla globalizzazione’? Neanche se ne parla. Semmai starci ancora più a fondo dentro accentuando la propria competitività come nazione. Il che significa accentuando al massimo la competizione tra i proletari britannici, o che vivono nel Regno Unito, e i lavoratori di tutti gli altri paesi, e creando nel Regno Unito condizioni di maggior favore per la profittabilità del capitale e il suo rafforzamento. Un programma al 100% anti-proletario, pur se condito di grasse e falsissime promesse ai proletari britannici. Sulla stessa linea Tremonti, uno dei primi e più abili ad alimentare in Italia la “rivolta” anti-tedesca e anti-UE, a cui si accoda la sinistra “sovranista”: “Credo che nello spirito dei tempi e nell’andamento della storia si apra una fase sovranista, che non vuol dire chiudersi, ma difendere quello che hai e valorizzarlo sull’esterno“. Accrescere la competitività della nazione-Italia nel mondo, nella economia mondiale, anche attraverso misure di tipo mercantilistico e lo sganciamento dall’UE. Sganciarsi dai vincoli europei, liberarci dal “dominio di Germania e Francia” per valorizzare di più il capitale made in Italy “sull’esterno”, cioè nel mercato mondiale. Questa la prospettiva disegnata dalla destra più aggressiva di Salvini, Fratelli d’Italia, Tremonti e parte di Forza Italia, nonché dal vertice del partito-azienda Grillo-Casaleggio, indiscutibilmente di destra, e non a caso sodale dei tipi Farage, o no?

Eurostop propone un emendamento a questa prospettiva (contro cui, peraltro, non si sono sentite veementi critiche all’assemblea di Eurostop): sì allo sganciamento da euro e UE, proposto in tutta Europa da una parte delle destre, ma per ritornare al welfare e alla Costituzione attraverso un “nuovo sistema economico e politico, che non è ancora socialista, ma che non è più quello ordoliberista”. Rompere con l’UE e l’euro per “far avanzare di nuovo (?!) una democrazia fondata sulla eguaglianza sociale”. Quel “di nuovo” è tutto un programma, perché sottintende che già si avanzò un tempo in questa direzione sotto la guida della Costituzione, mentre gli unici avanzamenti che ci sono stati, sono stati il frutto delle lotte operaie e sociali. Lo è altrettanto il vaghissimo concetto di “eguaglianza sociale” che, se fosse preso alla lettera, significherebbe avanzare verso una società senza classi, senza proprietà né privata né statale dei mezzi di produzione, mentre in questo contesto significa tutt’altro: tornare indietro verso una meno diseguale ripartizione della ricchezza sociale capitalisticamente prodotta – che è il massimo degli obiettivi possibili, evidentemente, per Cremaschi&Co., per tutta una fase storica.

Non varrebbe la pena di perder tempo a mostrare quanto questa ‘via d’uscita progressista’ dai mali che affliggono oggi la classe lavoratrice, costituisca una truffa nella truffa, dal momento che la sola cosa che l’uscita dall’euro garantirebbe di sicuro è la svalutazione dei salari come effetto immediato della svalutazione della moneta e, perciò, l’intensificata pressione sui lavoratori per accrescere i propri orari di lavoro e la loro produttività. Non varrebbe la pena, se non fosse che tale ipotesi sta guadagnando strada tra i lavoratori, sempre più tentati, nella loro passività e, al momento, nella loro sfiducia in sé stessi come classe, da questa scorciatoia. Sempre più tentati dal dare il loro voto nelle prossime elezioni alle formazioni politiche che con più decisione ventilano l’uscita dall’euro.

A dire di Cremaschi nell’attuale stasi delle lotte c’è, però, una cosa interessante: il “rifiuto del sistema” e delle “sue élites” da parte delle “classi subalterne” che, per quanto contraddittorio e distorto, va raccolto e orientato in senso… sovranista “sociale”. Ora, è vero che c’è un crescente distacco e una crescente avversione di una consistente parte dei lavoratori salariati e dei precari nei confronti dell’élite politica e, solo in parte, di quella economica. Ma questo processo, invece che deviato in senso nazionalistico contro nemici esterni, andrebbe aiutato a radicalizzarsi su contenuti e obiettivi di classe contro il nemico che è ‘in casa nostra’, i capitalisti e il governo Gentiloni che comandano sulle nostre vite con il pieno sostegno dei poteri forti del capitale globale.

Per noi la vera rottura da operare è quella della passività, della pace sociale, con il ritorno alla lotta. Alla lotta di classe dispiegata contro i capitalisti e le compatibilità capitalistiche che, tanto dentro quanto fuori dall’euro e dall’UE, hanno soffocato i proletari negli scorsi decenni. Rilanciare la lotta di classe per consistenti aumenti di salario sganciati dalla produttività; per la riduzione generalizzata e drastica dell’orario di lavoro a parità di salario e senza contropartite; per l’azzeramento del debito di stato, che è un debito di classe esploso in Italia per decisione del nostro keynesiano Andreatta, con l’immancabile concorso del santone keynesiano-liberista Ciampi; per la riconquista dell’agibilità sui luoghi di lavoro; per il ritiro immediato di tutte le missioni militari del nostro imperialismo; per l’abolizione di tutta la legislazione contro gli immigrati; per la difesa intransigente, solidale dei piccoli settori di classe più attivi oggi duramente aggrediti (il pensiero non può che andare, qui ed ora, ai facchini della logistica); per la rinascita del movimento e dell’organizzazione di classe – questi, se ci si pone dal punto di vista degli interessi dei lavoratori, gli obiettivi da perseguire, questo il programma politico e sociale di lotta nell’immediato! Altro che scimmiottare da sinistra le parole d’ordine delle più reazionarie tra le destre europee!

È proprio a questo proposito il secondo aspetto parzialmente nuovo dell’assemblea del 28 gennaio. Nella quale, a iniziare dal documento preparatorio, Cremaschi&C. hanno messo nel mirino quanti si rifiutano di sposare il loro nazionalismo sociale. “Altre forze (…) rifiutano di accodarsi alle social-democrazie, ma fuggono dalla realtà della politica rifugiandosi nella predicazione della rivoluzione mondiale come unica soluzione. Questa fuga nella palingenesi totale a volte poi copre opportunismi molto concreti nella pratica”. Più tranchant e irrisorio ancora è stato l’ex-sindacalista della Cgil nel suo intervento, quando si è detto stufo della critica di nazionalismo alla prospettiva di uscita dall’UE proponendo di distribuire a questa genìa di critici internazionalisti 1000 orologi per tutta Europa, così da sincronizzare il momento x dell’assalto simultaneo al potere.

Non saremo noi a negare che esistono, purtroppo, internazionalisti platonici che, materialmente e psicologicamente fuori dai processi di lotta reali, si limitano a ripetere in modo macchinale formule tanto ultimative quanto astratte perché collocate sul puro piano dei principi. Ma neghiamo nel modo più deciso che un simile modo di (fra)intendere l’internazionalismo proletario appartenga a tutti i militanti e gli organismi che respingono la ricetta di Eurostop e dintorni come disastrosa forma di nazionalismo. Per quanto ci riguarda, non proponiamo certo di attendere l’ora x sincronizzata per tutta l’Europa, che è evidentemente la più facile delle battutacce. Pensiamo a un nuovo ciclo rivoluzionario, dentro e fuori l’Europa, che è tutt’altra cosa, e lavoriamo in vista di esso. Ci sembra angusto l’orizzonte europeo entro cui i Cremaschi pretendono di rinchiudere eurocentricamente la lotta tra le classi, che peraltro sempre più subordinano alla lotta tra nazioni. La nostra convinzione è di essere ad uno svolto storico del capitale globale, ad una crisi storica di inaudita profondità del sistema sociale capitalistico che, spazzando via ogni illusione di ‘terze vie’ keynesiane-progressiste e di ‘pacifica competizione’ tra le nazioni, impone un aut-aut globale radicale, ben rappresentato dall’ascesa di Trump e dal contemporaneo riaccendersi delle tensioni sociali negli Stati Uniti: o un durissimo scontro tra nazioni imperialiste e capitaliste sulla pelle degli sfruttati di tutto il mondo, per ridefinire i rapporti di forza tra esse, e soprattutto per ricostituire le condizioni della massima profittabilità per il capitale; o un altrettanto duro, epocale scontro degli sfruttati di tutto il mondo contro i propri sfruttatori, contro il sistema sociale del capitale globale, per il suo rovesciamento; un rovesciamento richiesto a gran voce anche da madre natura, stufa di essere brutalmente violata e saccheggiata (a cui la pur incoerente Naomi Klein ha saputo attribuire una formula esatta: “Solo una rivoluzione ci salverà”).

Questo scontro è già iniziato, alla scala internazionale. Potremmo fare qui un lungo elenco di lotte ‘settoriali’ degli sfruttati già capaci di darsi una dimensione internazionale a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, dallo sciopero statunitense/europeo all’UPS allo sciopero dei porti suscitato dalla lotta di Liverpool, alle lotte di ‘Via campesina’; o di lotte che, pur localizzate in una nazione, hanno avuto un’evidente valenza internazionale, a cominciare dal formidabile 1° maggio 2006 negli Stati Uniti, sciopero generale dei lavoratori immigrati, con milioni di proletari e giovani di tutte le nazionalità in piazza!, per proseguire con la miriade di scioperi del giovane proletariato industriale cinese delle zone speciali contro le grandi multinazionali (e non solo); e arrivare alle sollevazioni di massa del mondo arabo del 2011-2012, lasciate criminalmente sole dai militanti europei concentrati sul proprio ombelico e avvelenati dall’arabofobìa e dall’islamofobìa. Tutti questi processi indicano, a chi ha gli occhi per vedere, che alla globalizzazione del capitale i settori più vivi e avanzati delle classi lavoratrici e dei movimenti di lotta – pensiamo anche al rinascente movimento delle donne – avvertono la necessità di contrapporre non l’impossibile, e bancarottiera, fuga dalla globalizzazione, bensì la globalizzazione delle lotte e dell’organizzazione di classe. Di questi processi, e soprattutto del loro significato d’insieme, della prospettiva che essi delineano, certo in modo ancora fragile, non vi è stata la minima traccia nell’assemblea di Eurostop, in tutt’altre faccende affaccendata. E una tale indifferenza verso gli straordinari sforzi di lotta dei proletari, degli sfruttati, dei movimenti che hanno l’epicentro lontano dall’Italia, costituisce un aiuto al loro isolamento.

Così come, passando dal macro al micro, dal mondo all’Italia, tutte le forze assemblate in Eurostop stanno dando il loro contributo a isolare le lotte del SI-Cobas in un momento di dura repressione statale su di esse: nell’assemblea di Eurostop, che è stata così calorosa con un anziano magistrato, c’è stata solo una compagna di numero che ha proposto un odg di solidarietà al SI-Cobas contro la squallida montatura di polizia e magistratura ai danni del compagno Aldo Milani, ma è stata totalmente ignorata da quanti erano lì per la famosa “rottura”. Indicativo, no?

Siamo ben consapevoli che la nostra proposta politica classista e internazionalista mirata allo zenith, oggi lontano, della rivoluzione sociale, richiederà tempo, e un immane sforzo di lavoro teorico, politico, organizzativo. Ma questa è la sfida che ci pone lo scenario globale e locale sempre più drammatico di un capitalismo alle prese con una crisi dell’accumulazione che non riesce a risolvere, e che si sta trasformando in una crisi di legittimità dell’intero sistema sociale capitalistico. La sfida è radicale. Ricorda per certi versi il contesto di inizio ventesimo secolo, ma con forze in campo di moltiplicata potenza, anche sul nostro versante. Il mondo di inizio ventunesimo secolo, segnato una catena di catastrofi economiche e belliche, è gravido di sviluppi rivoluzionari, che pongono, su tutti i piani, una alternativa tra sistemi sociali antagonisti, capitalismo e socialismo, alla scala globale. Con le loro trombonate pro-Costituzione, pro-Keynes, pro-sovranità nazionale, Eurostop e i suoi futuri alleati-domini, ben rappresentati dal giudice Maddalena, credono di potervi sfuggire con il proporre un vacuo, impotente ritorno all’indietro, che costituisce una vera e propria fuga dalla realtà dell’economia, e anche della politica, mondiale e nazionale. Da un lato. E dall’altro con una immersione nel livello più imputridito e logoro della politica, la dimensione nazionalistica e elettoralistica di essa – poiché pure di elezioni si è parlato, naturalmente. Chi per dire che è un po’ presto per presentarsi, specie se i tempi sono quelli del rolex di Renzi; chi per rimarcare la necessità di dare appoggio ai cinquestelle (indicativa in proposito, la timidezza, quasi la paura, con cui l’ex-senatrice di Rifondazione Palermi, oggi esponente del Pdci, ha obiettato in modo sommesso, quasi bisbigliando: non vi pare che la vostra simpatia per la ditta Grillo&Casaleggio sia esagerata?). Un appoggio che l’USB e altri organismi presenti all’assemblea hanno già abbondantemente operato negli anni e nei mesi passati. E di nuovo si ri-preparano a operare senza vergogna.

Qui alla fine, tanto per cambiare, precipita tutto. La prospettiva politica di Eurostop devia così su una falsa pista quel poco, o pochissimo, che si muove oggi nella classe lavoratrice. E contribuisce a immobilizzarlo iniettandogli in corpo un veleno paralizzante e altamente nocivo, ed esponendo così i lavoratori ancor più impreparati e indeboliti di oggi ai nuovi violentissimi attacchi in arrivo. Alla faccia del realismo dei piccoli passi…

Agli internazionalisti militanti, non platonici, coscienti delle dimensioni strategiche e tattiche che l’internazionalismo rivoluzionario deve avere; e soprattutto ai giovani compagni e militanti di movimento con dentro un sentimento internazionalista o anche solo un sano ripudio di ogni forma di nazionalismo ‘italiano’, un caldo invito a darsi una mossa. Altrimenti il nazionalismo “sociale” di sinistra, che è già in campo e abbastanza strutturato, continuerà a produrre indisturbato i suoi danni, moltiplicando quelli, già profondi, causati dalle destre. Sveglia! C’è tanto lavoro da fare, per tanti! E sarà decisamente più entusiasmante che lucidare un ferrovecchio irrimediabilmente arrugginito come la nazione.

Marghera, 11 febbraio 2017

La redazione de “il cuneo rosso” – com.internazionalista@gmail.com

P.S. – Sovranità viene da sovrano, re. Si riferisce a un ente, un’autorità, una persona che sta al di sopra di tutti e di tutto. Alla lettera, quindi, “sovranità nazionale”, significa una nazione che non ha alcun’altra nazione sopra di sé, ma anzi – anche questo potrebbe significare – è al di sopra delle altre. Non a caso nella lingua del socialismo non c’è posto per una locuzione passatista come questa. Si parla, invece, di auto-decisione dei popoli o delle nazioni. Nello stesso movimento anti-coloniale si sono usati altri termini: liberazione nazionale o indipendenza nazionale (politica). La “sovranità nazionale”, se riferita all’epoca del capitale interamente globalizzato, è una qualità, una condizione, che non ha nessuna nazione, neppure gli Stati Uniti, nonostante la storica “sovranità”, oggi assai contestata, della loro moneta. Ancora più demenziale sarebbe parlare di “sovranità della lira”, o qualcosa del genere. Effettivamente sovrano sono soltanto, oggi, le leggi impersonali, inflessibili del capitale globale che si impongono ai singoli stati e ai singoli capitalisti, in quanto maschere del capitale, personificazione del capitale come potenza sociale, secondo la definizione di Marx.

Se ci piacesse giocare con le parole, potremmo anche dire: l’unica “sovranità” che c’interessa è quella proletaria e si afferma nella rottura rivoluzionaria, nella sequenza di atti autoritari di forza con cui verranno spezzate le catene del modo di produzione capitalistico e degli stati capitalisti. Ma preferiamo rimanere al nostro bel linguaggio comunista che disprezza da sempre i sovrani e le sovranità, feudali o borghesi che siano, si batte per la liberazione degli sfruttati dal ferreo dominio delle leggi del capitale, e ha espresso il magnifico ‘sogno’ realmente egualitario di una società senza classi e senza stato. La “sovranità”, in tutte le sue declinazioni immancabilmente reazionarie, la lasciamo volentieri a Cremaschi. Insieme ai suoi 1.000 orologi.

Il contributo del Circolo Internazionalista Francesco Misiano sulla questione europea:

A distanza di un anno dall’esito del referendum sulla cosiddetta “Brexit” cogliamo l’occasione per chiarire quella che riteniamo una corretta interpretazione marxista ed internazionalista della vicenda e delle sue implicazioni per ogni movimento che sia autenticamente rivoluzionario. La chiarificazione si rende necessaria soprattutto per via del fiorire di “elaborazioni” smaccatamente opportuniste da parte di organizzazioni come Lotta comunista, che pur richiamandosi formalmente al marxismo internazionalista ne hanno abbandonato il solco da molto tempo.

In sede di analisi del risultato referendario, fra le possibilità ventilate da questo partito nel caso di una sua ipotetica presenza organizzata nelle trade unions britanniche, c’è stata anche quella di impostare una campagna di “chiarificazione” che invitasse i lavoratori dei sindacati a impegnarsi in un voto a favore del remain. Questa cosiddetta “tattica sindacale”, non è stata assolutamente ritenuta in contrasto con la formula ripetuta incessantemente nel corso degli anni come un mantra: “opposizione proletaria all’imperialismo europeo e all’imperialismo unitario”, e per i suoi ideatori avrebbe tratto la sua giustificazione da una serie di motivi:

1- La necessità per l’organizzazione in questione di non essere confusa con le correnti pro-brexit, nazionaliste, populiste, xenofobe e razziste che, facendo leva sul disagio di strati piccolo-borghesi, intendono condizionare anche i salariati europei.

2- La necessità di difendere la “libera circolazione della forza-lavoro” a livello europeo, probabilmente messa in pericolo dalla Brexit, e la possibilità di accogliere lavoratori immigrati extra-europei e profughi di guerra.

Secondo i fautori di questa “tattica”, dalla libera circolazione della forza-lavoro deriverebbero importanti conseguenze:

– La formazione del cosiddetto “operaio europeo”, ovvero di un proletariato liberato, su scala continentale, dagli ostacoli burocratico-giuridici legati all’esistenza di frontiere nazionali.

– La rimozione di questi ostacoli, conseguenza del processo politico di unificazione degli Stati europei, processo definito come “strategia dei grandi gruppi imperialistici europei”, creerebbe le premesse oggettive per la formazione di un “sindacato europeo” che unirebbe i lavoratori europei su un’unica piattaforma di difesa salariale e rivendicativa.

– L’assenza di controlli di frontiera e di limitazioni giuridiche per i “cittadini” dell’Area Schengen, permetterebbe inoltre ai membri dell’organizzazione in questione di muoversi liberamente nello spazio europeo, facilitando il lavoro di impianto territoriale in alcuni Paesi-chiave dell’Ue, nel quadro di un suo radicamento a livello continentale. Secondo prese di posizione ufficiali e ufficiose, questa condizione sarebbe fondamentale per poter svolgere attività politica in paesi dei quali non si possieda la cittadinanza, evitando eventuali procedimenti legali che rallenterebbero od ostacolerebbero l’attività dell’organizzazione.

È evidente innanzitutto dal tono generale di quanto pubblicato da questa organizzazione che ciò che viene espresso è rammarico e disappunto per il risultato referendario, in completa antitesi con quanto è stato scritto in passato dallo stesso partito in seguito ai risultati negativi dei referendum sulla Costituzione Europea tenutisi in Francia e in Olanda nel 2005.

Nel 2005 si scriveva:

la nostra opposizione proletaria all’imperialismo europeo non può che giovarsi delle contraddizioni in cui si dibatte il “nemico in casa nostra”.

Ciò sta a significare che il tempo offerto dai rallentamenti, dalle battute d’arresto, in generale dalle crisi del processo di unificazione dello Stato imperialistico europeo, costituisce tempo utile al radicamento di un partito rivoluzionario nelle metropoli della borghesia europea, partito che può avvantaggiarsi anche delle difficoltà che un’ideologia nazionalista continentale può incontrare nel diffondersi tra i lavoratori. Un’ideologia socialimperialista europea che in assenza di contraddizioni si prevedeva con molta sopravvalutazione che avrebbe preso piede tra le masse senza incontrare ostacoli, inserendosi nel vuoto lasciato dalle ideologie staliniste ed opportuniste.

Ci si è chiesti retoricamente se, con il prevalere del Brexit ed in seguito alla probabile limitazione della libera circolazione della forza-lavoro ed all’erezione di muri contro i lavoratori migranti, i lavoratori inglesi e quelli europei sarebbero stati più forti.

A nostro parere porre la questione in questi termini vuol dire legare la forza e la debolezza di uno dei comparti del proletariato europeo, nella fattispecie quello britannico, e di tutto il proletariato europeo al procedere o meno del tentativo imperialistico di unificazione politica europea.

I flussi migratori non possono essere fermati da muri, ma neanche da strozzature delle rotte dell’immigrazione che l’UE da tempo appalta furbescamente a regimi compiacenti al di fuori dei suoi confini, ben prima del Brexit.

Nella società capitalistica la capacità di lavorare assume la forma di merce, la merce forza-lavoro, e come tutte le altre merci essa viene scambiata sul mercato mondiale. Lo svincolarsi dei flussi della forza-lavoro dai limiti giurisdizionali nazionali rappresenta una necessità per il capitalismo, una necessità dettata dalle esigenze di sfruttamento dei giacimenti di plusvalore. In ogni caso, il restringimento o l’allargamento della libertà di circolazione hanno origine da cause strutturali e non semplicisticamente da “scelte politiche” di partiti o da sfortunati “tiri di dadi” in improbabili “giochi dell’oca”.

Se il segno politico dell’attuale ciclo di accumulazione del capitale rimane improntato al liberismo e non al protezionismo, permettendo quindi una circolazione di merci nel mercato mondiale non ostacolata da dazi o barriere doganali, non si comprende perché la circolazione della merce forza-lavoro debba fare eccezione, o perché possa addirittura essere messa in discussione dall’esito referendario britannico.

D’altro canto, se invece il ciclo economico mondiale si avvia verso una fase di protezionismo, sarebbe necessario riconoscerlo attraverso l’analisi delle tendenze economiche di fondo e prepararsi ad impostare la battaglia politica ed organizzativa del movimento rivoluzionario sulla base di questa prospettiva reale, piuttosto che attardarsi nello stigmatizzare un processo oggettivo.

Lo stallo, o se si preferisce la contraddizione, del processo “politico” di unificazione dei poteri statali dei vari comparti nazionali borghesi europei dovuto all’esito della Brexit, viene confuso con una contraddizione, o addirittura con il possibile rinculo di un processo economico oggettivo, quale è il superamento da parte del capitale delle dimensioni nazionali e la necessità per la sua valorizzazione di sfruttare mercati e giacimenti di plusvalore a livello macroregionale, processo che è semmai all’origine dell’esigenza di una centralizzazione politica delle varie borghesie nazionali europee.

Come è stato scritto in passato non è affatto scontato che la necessità di una centralizzazione dei poteri statali, prodotto di una tendenza economica di fondo, strutturale, riesca pienamente ed in tempi utili per le frazioni della borghesia imperialista europea. Un conto sono le esigenze politiche della borghesia dettate dall’accumulazione del capitale, un altro la sua capacità di soddisfarle.

In ogni caso l’unico modo che ha la classe operaia di combattere un’ipotetica limitazione della sua libertà di movimento non è quello di porsi su un piano di oggettivo sostegno delle ambizioni delle frazioni del grande capitale pro-Ue ma quello di mantenere la propria autonomia di classe, distinta dalle esigenze politiche del grande capitale quanto dalle sirene nazionaliste piccolo-borghesi fatte risuonare strumentalmente dalle altre frazioni capitaliste, sirene sempre inevitabilmente alimentate, utilizzate e riassorbite per esclusivo interesse del grande capitale, al di là di ogni apparente o momentaneo contrasto tra le sue frazioni.

L’astensionismo non è ovviamente un principio, ma mai come nel caso specifico del referendum britannico sarebbe stato un dovere politico per il movimento rivoluzionario convincere il proletariato della sua necessità contingente per la difesa dei suoi interessi di classe. È fuori discussione ogni concessione al nazionalismo piccolo borghese, che nella difesa dei meschini interessi di bottega delle mezze classi di cui è espressione spaccia tra i lavoratori la pretesa ciarlatanesca di salvaguardare gli interessi di un solo comparto locale del proletariato europeo a scapito degli altri. Altrettanto fuori discussione sarebbe stato però votare a favore del remain, appoggiando di fatto – al di là di ogni considerazione sul peso elettorale che avrebbe avuto chi si fosse fatto promotore di questa “tattica” – le esigenze dei “grandi gruppi” britannici che, in perfetta sintonia con quelli europei, sono quelle della valorizzazione del capitale e quindi di un attacco mirato, coordinato e generalizzato alle condizioni salariali dei lavoratori di tutta Europa, e quelle di una centralizzazione statale imperialista rivolta politicamente contro i lavoratori europei e contro le altre potenze imperialiste. Si può discutere all’infinito sul fatto che la Brexit costituisca o meno un rallentamento nel processo di unificazione europeo, ciò che è assolutamente fuor di dubbio è che la vittoria del remain ne avrebbe costituito una potente accelerazione. E se è vero che un’opposizione proletaria all’imperialismo europeo può solamente trarre giovamento dalle contraddizioni in cui viene a trovarsi il “nemico in casa nostra” allora condurre una propaganda a favore del remain tra i lavoratori del sindacato avrebbe contribuito (non importa in che misura):

  • nel caso avesse vinto il remain, a far passare la borghesia britannica e il processo Ue indenni attraverso una possibile difficoltà.

  • in ogni caso a legittimare tra i lavoratori la malsana idea che la difesa dei propri interessi di classe dipenda, in un modo o nell’altro, dal buon proseguimento del processo Ue, ovvero dalla realizzazione delle esigenze del grande capitale.

La difesa degli interessi della classe operaia, di cui la libera circolazione dei lavoratori e la libera immigrazione sono irrinunciabile parte integrante, se non dal punto di vista immediato certamente da quello strategico della prospettiva rivoluzionaria, non può essere demandata al risultato elettorale di un referendum voluto dalla borghesia e che contrappone frazioni del grande capitale filo-europeista a settori capitalistici internazionali interessati a rapportarsi con i mercati extra-UE senza subire i vincoli costituiti dai protezionismi dei paesi UE (in campo agricolo ad esempio, e di altri singoli settori), che limitano le possibilità di accordi di libero scambio, in particolare con la Cina (ad esempio il rifiuto di concederle lo status di paese a libero mercato), il Sudamerica, e l’area Commonwealth. D’altro canto, come dimostrato dalle recenti elezioni politiche britanniche, questi gruppi, dopo avere usato l’UKIP per i propri scopi, l’hanno scaricato subito dopo la vittoria del Brexit, perché non interessati a soffiare troppo sul fuoco della xenofobia e delle paure piccolo-borghesi.

Non si può certamente escludere la partecipazione a referendum che effettivamente mettano in gioco la difesa degli interessi della classe operaia con un voto direttamente contrapposto alla linea del grande capitale, ma mai come nel caso del referendum inglese, votare per il remain avrebbe significato concretamente assecondare la linea politica del grande capitale e pagarne tutto il prezzo, con la pretesa di difendere qualcosa che ha invece poche probabilità di essere messa seriamente in discussione dal leave, ovvero la libera circolazione della forza lavoro, e che, se invece fosse messa in discussione, rappresenterebbe invero la manifestazione di una tendenza oggettiva che non si è stati in grado né di prevedere, né di riconoscere.

Inoltre, di fronte alla forte ondata migratoria che sta investendo il continente, è minimamente plausibile che scegliere l’Europa significhi optare per un’alternativa che garantisca la libera circolazione della forza-lavoro nel senso pieno del termine, tout court? Eppure in Europa si stanno costruendo dei muri fra i paesi che ne fanno parte. Certamente non per fermare i flussi interni ma perché a livello di istituzioni continentali gli Stati federati non sono in grado di fermare un afflusso migratorio esterno incontrollabile ed indosabile. Questo afflusso per le sue dimensioni rischia di minare gli equilibri interni di questi paesi, al punto da dover correre ai ripari con i soli strumenti efficaci che questi hanno per ora ad immediata disposizione: gli apparati degli Stati nazionali. Tuttavia, nella misura in cui la “democratica” Europa riuscirà con successo ad appaltare la funzione di “diga” dell’immigrazione a paesi limitrofi, che solo con una forte dose di ipocrisia è possibile considerare democratici, anche rinchiudendo i migranti in veri e propri lager, come già sta facendo, e operando una politica di ingressi “selettiva” che assecondi esclusivamente le esigenze del capitale europeo (laureati, tecnici, manodopera qualificata…), certamente si dissolveranno i muri interni preservando Schengen ma la gran massa dei migranti “non europei” – che precisiamo, anche oggi non essendo “cittadini UE” non possono comunque circolare liberamente in Europa – saranno lasciati a morire sulle sponde della Libia o nei recinti turchi affinché “l’operaio europeo” possa godere del privilegio di circolare liberamente nella fortezza Europa per meglio valorizzare il capitale europeo. Si tratta di difendere la libera circolazione della nostra classe, che è mondiale, o solo di un suo reparto “continentale”?

Nelle trade unions inglesi sarebbe stato doveroso condurre una campagna astensionista che spiegasse ai lavoratori:

  1. Che la libera circolazione della forza lavoro, un dato acquisito in GB da almeno 40 anni, è una necessità economica del capitale e non il parto di un disegno politico, una “strategia”, e che finché il ciclo permane liberista è improbabile che una mera oscillazione politica possa metterla seriamente in discussione, quale che sia il rapporto istituzionale che in caso di Brexit la GB dovrà ridefinire con l’Ue;
  2. che pertanto la classe operaia non ha nulla da guadagnare appoggiando il processo Ue;
  3. che se è vero che i flussi migratori costituiscono un fattore oggettivo di abbassamento dei salari operai sul mercato nazionale, la soluzione non risiede nell’erigere inutili muri che non possono impedire il processo, né nella divisione tra i lavoratori che è interesse vitale e obiettivo preciso delle classi dominanti, ma solo nella compatta solidarietà di classe che si faccia strada nelle organizzazioni sindacali per omogeneizzare attraverso la lotta i livelli salariali di ogni categoria di lavoratori, senza distinzione di nazionalità o di credo religioso;
  4. che la risposta al tentativo delle borghesie europee di unificarsi sul piano politico deve essere lo sforzo del proletariato, innanzitutto europeo ma tendenzialmente mondiale, di unirsi per prima cosa sul piano dell’organizzazione rivendicativa economica. Organizzazione che può però nascere o dalla lotta intransigente contro il processo di unificazione imperialistica dell’Europa, quindi concretamente come reazione di classe alla politica europea contro i salari, oppure come suo corollario, cioè nelle vesti di un’organizzazione socialimperialista, allestita nell’interesse della borghesia europea come strumento di controllo sul proletariato e subalterna ai partiti dell’opportunismo europeo.

Ciò che dal referendum è stato realmente messo in discussione è la partecipazione della GB ai processi decisionali politici e militari dell’Unione, con evidenti danni da ambo le parti. Una UE politicamente centralizzata significa un apparato statale più efficiente, con più efficaci strumenti di controllo e repressione; una UE governata da forme politiche opportuniste sperimentate e con maggiori spazi per la diffusione di ideologie socialimperialiste pervasive. È altamente probabile che, se e quando il tentativo di unificazione politica riuscirà, i suoi più ampi margini di corruzione di vasti strati di aristocrazia operaia permetteranno all’imperialismo europeo maggiori possibilità di manovra per arroccarsi in difesa di un certo modello di vita e di scagliarsi offensivamente contro ogni presunta minaccia esterna alla “fortezza Europa”. La presa dell’ideologia “continentalista” sulle masse sarà maggiore, perché sembrerà più plausibile. La forza dell’ideologia socialimperialista consiste proprio nel convincere il proletariato che la difesa degli interessi della classe dominante e di uno strato privilegiato della stessa classe operaia, coincida con la difesa degli interessi di tutto il proletariato.

Per questo non ci si può rammaricare troppo del diffuso sentimento antieuropeista che pervade attualmente le masse del continente. Pur essendo contaminato in larga parte, anche se non esclusiva, da ideologie nazionaliste e populiste, questo sentimento esprime anche la diffidenza e l’ostilità di vasti strati salariati verso un’Europa che per far fronte alla crisi e per le esigenze di competitività sul mercato mondiale non può esitare a operare tagli sul welfare e ad attaccare le condizioni di vita dei lavoratori, ed è quindi percepita come espressione degli interessi delle banche e dei poteri economici.

Su questa diffidenza e ostilità occorre piantare il seme della coscienza internazionalista. Ma piantare questo seme vuol dire in una certa misura partire da questo sentimento antieuropeista per dargli chiarezza e purgandolo di ogni rigurgito nazionalista.

Sulla manchette del numero di giugno 2016 del periodico Lotta comunista viene scritto che:

Leon Trotsky, con la formula degli “Stati Uniti socialisti d’Europa” raccolse una parola d’ordine che era circolata nel movimento operaio europeo, […]. Eppure se lo slancio generoso di Trotsky fu insufficiente nella strategia, conservava e conferma un nocciolo di verità: il proletariato europeo deve sfuggire alla maledizione del nazionalismo e della frammentazione nei piccoli Stati, solo nell’unità potrà pesare nella battaglia internazionalista.

La domanda sorge spontanea: quale unità? Se il nazionalismo e la frammentazione nei piccoli Stati costituiscono indubbiamente una maledizione, altrettanto maledetto è il nazionalismo continentale, che condurrà a nient’altro che ad una medesima frammentazione del proletariato, solo ad una scala maggiore, irreggimentato in grandi Stati sovranazionali la cui stazza centuplicata significherà distruzioni umane e materiali centuplicate rispetto all’ultima ecatombe imperialista mondiale. Per inciso: non ci risulta che le federazioni, confederazioni o unioni pluristatali abbiano mai costituito un antidoto al sentimento nazionale, è vero semmai il contrario.

Sfuggire a queste maledizioni è possibile solo attraverso l’unità del proletariato, ma la condizione fondamentale di questa unità è solo ed esclusivamente l’internazionalismo, non certo la centralizzazione politica dell’imperialismo europeo.

Un tempo i comunisti per unificare i proletari di tutto il mondo costruivano Associazioni Internazionali. Adesso alcuni di coloro che con molta fantasia si definiscono tali sembrano ritenere che solo una borghesia imperialista e reazionaria su tutta la linea possa unificare il proletariato, e neanche di tutto il mondo. Si vuole forse sostenere che il nazionalismo europeista costituisca un passo verso la coscienza internazionalista?

L’internazionalismo può trarre vantaggio dal mercato comune europeo dal punto di vista organizzativo? Si, senza dubbio. Questo vantaggio obiettivo dovuto all’integrazione economica macroregionale dipende esclusivamente dal procedere dell’unificazione politica degli Stati imperialisti europei? No, niente affatto, e se così fosse, il vantaggio non pareggerebbe l’indebolirsi delle possibilità rivoluzionarie contro uno Stato immensamente più forte, contro i nemici esterni e di conseguenza contro quelli interni.

L’internazionalismo organizzato non può in nessun modo essere vincolato né può dipendere dal processo di unificazione politica europea. Compito dei rivoluzionari internazionalisti è organizzare l’avanguardia del proletariato a livello sovranazionale, sempre e in ogni caso, compreso quello in cui esistano limitazioni legali alla circolazione della forza-lavoro e conseguentemente alle possibilità di attività politica di “stranieri” in una determinata nazione, come d’altro canto è già successo in passato. Considerato tra l’altro che questo genere di limitazione legale non sarebbe neanche fra i più gravosi, il lavoro rivoluzionario comunista è comunque sempre combinazione di lavoro legale ed illegale e non sono i rivoluzionari a stabilire i limiti della legalità ma la classe dominante. I rivoluzionari non possono appoggiare una politica imperialista, neanche nel caso in cui non appoggiarla rischiasse realmente di ridurre i margini della legalità borghese. Se questo appoggio si verificasse si tratterebbe di opportunismo, che scambierebbe la maggiore comodità organizzativa con il sostegno di fatto alla borghesia.

Inoltre un imperialismo europeo che giungesse politicamente disunito all’appuntamento con la rottura dell’ordine capitalistico mondiale costituirebbe un avversario relativamente più debole per un’organizzazione internazionalista, che avrebbe potuto in ogni caso radicarsi in Europa approfittando sia delle difficoltà del processo di unificazione politica che del vantaggio offerto dal mercato comune della forza lavoro. Il proletariato potrebbe essere più unito di quanto lo sarebbe politicamente la borghesia europea e il suo Stato continentale che, colto dalle circostanze in mezzo al guado e indebolito nel confronto esterno costituirebbe un terreno fertile per il disfattismo rivoluzionario.

Se si prosegue nella lettura dello stesso articolo si riscontra l’ultima versione di una tendenza, che si è manifestata già da diversi anni negli editoriali di Lotta comunista, che cerca di mettere velatamente in relazione l’unificazione tedesca della seconda metà del XIX secolo con il processo di unificazione europeo in corso.

Da notare in particolare l’affermazione secondo la quale:

Marx ed Engels, di fronte all’unificazione nazionale tedesca guidata da Bismarck [1866], conclusero che quella era comunque la rivoluzione borghese in Germania e come tale andava accettata: “per gli operai è naturalmente favorevole tutto ciò che accentra la borghesia”. Possiamo dire oggi lo stesso per l’unificazione europea? Si e no.

Per Marx ed Engels i processi di rivoluzione democratico-borghesi dell’800 avevano un carattere progressivo per motivi inequivocabilmente definiti:

-abbattevano le residuali pastoie feudali che intralciavano il libero sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici

-combattevano, in alcuni casi, la dominazione straniera che impediva l’unificazione del territorio su base nazionale o, sulla base della nazionalità oppressa maggiormente sviluppata in senso economico-sociale (vedi gli Ungheresi nei confronti delle minoranze slave all’interno del suo territorio storico)

in questo modo la rivoluzione nazionale, rimuovendo le barriere tra i piccoli stati costituite da dazi doganali, diverse valute, diverse unità di misura o addirittura diversi modi di produzione, poteva uniformare dal punto di vista territoriale la base economica per lo sviluppo del modo di produzione capitalistico.

La formazione di un unico mercato nazionale avrebbe rappresentato il dischiudersi di un più vasto sbocco per le merci prodotte dalle manifatture e dalla nascente industria capitalistica, permettendo così un rapido slancio dell’industrializzazione, a cui la concomitante concentrazione della proprietà fondiaria e la disgregazione contadina che ne è un riflesso avrebbe fornito il necessario serbatoio di forza lavoro: il proletariato.

Concludendo, per Marx ed Engels le rivoluzioni nazionali democratico-borghesi erano progressive in quanto, e solo nella misura in cui demolivano i residui di un modo di produzione storicamente superato, creavano le condizioni materiali per il superamento del capitalismo e l’agente storico di questo superamento, creavano ovvero l’industria e il proletariato.

Allo stesso tempo, per Marx ed Engels erano già evidenti i limiti storici della borghesia “rivoluzionaria”, che iniziava già a metà del XIX secolo a temere che “l’assalto democratico” di ottantanovesca memoria potesse smuovere la nascente classe operaia su rivendicazioni proprie, come era avvenuto in Francia nel giugno del 1848. Anche per questo timore la borghesia cominciava a manifestare una certa timidezza nell’adempimento del suo compito storico, rivelandosi maggiormente incline al compromesso con forze feudali in grado di condurre una “rivoluzione dall’alto” che realizzasse il programma economico capitalistico unificando il Paese ma al prezzo del mantenimento della subalternità politica della borghesia nell’ambito dello Stato assolutista.

I limiti che la borghesia iniziava a manifestare erano dovuti ad una situazione storica contraddittoria, che vedeva da un lato la presenza di rapporti capitalistici ad uno stadio più avanzato rispetto al loro livello all’epoca della grande Rivoluzione francese del 1789 o della Grande Ribellione inglese del 1649, e dall’altro lato e allo stesso tempo, la permanenza in alcuni Paesi di vincoli feudali o assolutistici di ostacolo sia al libero sviluppo dei rapporti capitalistici che alla definitiva assunzione del pieno potere politico da parte della classe borghese.

In altre parole la borghesia di alcuni Paesi, mentre doveva ancora prendere d’assalto le proprie Bastiglie, era già alle prese con le prime rivendicazioni del suo antagonista storico: il proletariato.

Proprio in considerazione di queste circostanze Marx ed Engels avanzarono l’ipotesi della “rivoluzione in permanenza” in cui il proletariato portasse a termine i compiti storici che la borghesia non era in grado di assolvere in maniera conseguente, per poi far “trascrescere” il contenuto della rivoluzione in senso anticapitalistico.

Nel caso specifico della Germania, Marx ed Engels auspicavano una soluzione rivoluzionaria che avesse come perno la borghesia democratica delle sviluppate regioni della Renania, che prendesse l’iniziativa dell’unificazione germanica (compresa l’Austria tedesca) e dissolvesse gli ultimi residui feudali rappresentati dalla Prussia degli Junker, storica alleata del “gendarme d’Europa” zarista.

Di fronte al fallimento della soluzione renana, dovuta più alla vigliaccheria sociale e politica della borghesia tedesca che alla sua debolezza, i due fondatori del materialismo storico non poterono fare altro che “accettare” la soluzione prussiana della “rivoluzione dall’alto” operata da Bismarck. Perché?

Perché, pur tenendo conto della loro incompletezza, le guerre di annessione dell’assolutismo prussiano realizzavano alcune delle premesse economico-sociali necessarie al pieno sviluppo del mercato capitalistico nazionale tedesco. Da un lato infatti si unificavano in una certa misura i vari stati del ex sacro romano impero germanico, dall’altro gli junker erano sempre più costretti ad appoggiarsi alla borghesia industriale per condurre guerre di tipo moderno che necessitavano di acciaio per armi e ferrovie, dando così una poderosa spinta all’industrializzazione tedesca, pur concedendo il minimo di rappresentanza politica alla borghesia.

Mercato nazionale significava dunque sviluppo e concentrazione dell’industria su scala nazionale e concomitante sviluppo delle sostanze infiammabili della rivoluzione, ovvero della classe operaia.

In questo senso, e in esso soltanto, hanno senso le parole di Marx ed Engels:

per gli operai è naturalmente favorevole tutto ciò che accentra la borghesia”.

È verissimo che per gli operai è naturalmente favorevole tutto ciò che accentra la borghesia, ma quando la borghesia ha ancora bisogno di essere accentrata, dunque in relazione alla necessità dello sviluppo dell’industria e del proletariato in contrapposizione ad ostacoli precapitalistici che lo frenino.

Cosa ha a che vedere questa necessità, storicamente adempiuta, con quella della borghesia europea di dotarsi di poteri statali unificati alla scala continentale?

Assolutamente nulla, e decontestualizzare questa frase utilizzandola per spiegare un fenomeno di natura del tutto diversa significa o una madornale incomprensione o una palese mistificazione.

Nello stadio imperialista del capitalismo, intravisto da Marx ed Engels e descritto analiticamente da Lenin agli inizi del XX secolo, la borghesia non smette di concentrarsi, né di sviluppare l’industria, il proletariato o le forze produttive in generale.

Quello che muta radicalmente non è dunque lo sviluppo delle forze produttive ma il segno qualitativo di questo stesso sviluppo. Nella fase imperialista la crescita delle forze produttive e la loro concentrazione non aggiunge più nulla alla soluzione delle contraddizioni del capitalismo, ormai già data dalla definitiva realizzazione delle basi materiali del comunismo, essa moltiplica solo le dimensioni e la distruttività delle contraddizioni di una formazione economico-sociale decadente che è ormai giunta al suo tramonto storico.

È una furberia di bassa lega equiparare l’accettazione di Marx dell’unificazione “alla prussiana” con l’accettazione del processo di unificazione europeo. In questo processo non c’è nulla di accettabile per dei rivoluzionari comunisti, a meno che non si voglia sostenere che nell’Europa del 2016 permangano ancora dei compiti democratico-borghesi da assolvere, un’industrializzazione da realizzare, una riforma agraria da compiere, un proletariato da sviluppare…

I rivoluzionari comunisti non possono “accettare” un processo di unificazione borghese di natura prettamente imperialistica che non ha e non può avere assolutamente alcun carattere progressivo. Devono al contrario combatterlo, utilizzando, se possibile e fin quando rimane possibile, i vantaggi “obiettivi” che ogni situazione storica presenta inseparabilmente dagli svantaggi. Accettare un processo completamente reazionario per difendere dei vantaggi contrabbandati come “decisivi” è opportunismo. Marx ed Engels non accettavano l’unificazione prussiana per dei “vantaggi”, l’accettavano perché storicamente progressiva, e non è questo il caso dell’UE imperialista.

In un testo del 2004 che avrebbe dovuto costituire l’indirizzo strategico del partito di Lotta comunista nei decenni a venire, ovvero nella prefazione alla sesta edizione del libro “Lotte di classe e partito rivoluzionario” di Arrigo Cervetto del 1964, veniva scritto:

“È solo mistificazione, ed è un vicolo cieco per l’analisi politica, l’analogia tra unificazione nazionale e unificazione continentale, dove sono confuse le due fasi storiche differenti dell’ascesa della borghesia e della reazione imperialistica. Era ed è inconcepibile una variante strategica che includa l’appoggio all’unificazione europea”

Ovviamente qualcosa deve essere nel frattempo cambiato se nel giugno 2016 sul medesimo periodico si scrive che l’unificazione europea va accettata e che ad essa va detto

“Si, perché un mercato della forza-lavoro unificato su scala continentale è un vantaggio decisivo per la nostra classe”

È pur vero che dal punto di vista delle dichiarazioni astratte si possono sempre salvare capra e cavoli, giurando e spergiurando sulle posizioni di principio o sulla fedeltà verbale ad un certo impianto strategico pur rinnegandolo nella pratica.

L’opportunismo risiede proprio nel dare un colpo al cerchio e uno alla botte, nel proclamare una cosa e nel contrabbandarne di soppiatto un’altra, magari opposta; nell’insinuare un’analogia fra l’unificazione tedesca e l’unificazione europea salvo poi smentirla nella riga successiva:

“No, perché l’unificazione europea non è una rivoluzione contro il vecchio regime feudale e assolutistico ma è un’unità imperialista”

L’opportunismo è in quel “Si e no” che viene spacciato per dialettica mentre è solo ed esclusivamente eclettismo. E non perché un materialista debba ragionare per assoluti, ma proprio per la natura stessa della questione specifica, che non può lasciare adito a dubbi.

La parabola di Lotta comunista è quella della discesa nel più profondo opportunismo. Tratto caratteristico di questo declinare è stata per lungo tempo la negazione della concreta politica autonoma dei singoli stati imperialisti dell’area europea, che si annullerebbe in un’unità politica che di concreto ha ancora molta strada da fare, dando per concluso un processo contraddittorio che vorrebbe forgiare un insieme di istituzioni centralizzate che rappresentino e sintetizzino le spinte e gli appetiti dei gruppi economici continentali. Le vicende europee dell’ultimo decennio, che hanno visto i singoli Stati dell’UE spesso e volentieri al servizio della competizione tra i gruppi capitalistici di cui sono espressione per le aree di esportazione di merci e capitali, e addirittura impegnati nella reciproca sottrazione delle stesse, stanno lì a dimostrare l’assoluta inconsistenza di questa elaborazione.

Questa negazione ha comportato la precisa scelta politica di rinunciare a qualsiasi denuncia nei confronti delle imprese economiche, politiche e militari condotte sul mercato mondiale dallo Stato imperialista italiano – una realtà concreta e concretamente operante attraverso il suo ministero degli Esteri, il suo esercito e le sue missioni commerciali – indirizzando la denuncia, d’altro canto puramente verbale, generica e vaga, verso quello che finora è ancora una prospettiva, per quanto concreta: lo Stato imperialista europeo.

Ora, il maldestro tentativo di modificare gradualmente l’analisi sulla natura del processo di unificazione politica europea per riscontrarvi presunti vantaggi “decisivi” per l’unità internazionalista del proletariato, la preoccupazione più volte esternata per la “catastrofe politica”, per il “Vietnam politico” rappresentati per l’UE dal Brexit, l’ipotesi di indicazione di voto a favore del remain, l’enfasi sull’”operaio europeo” e sul “leninismo europeo”, la sottolineatura della reazionarietà del nazionalismo populista contrapposto ad un processo imperialista in qualche modo “accettabile”, pongono l’opportunismo di Lotta comunista su un piano ulteriore: al mancato riconoscimento dell’imperialismo italiano si aggiunge una mancata opposizione all’imperialismo europeo.

Di fronte alla possibilità di una reale contraddizione e difficoltà dell’unificazione politica dell’imperialismo europeo, l’atteggiamento di questo partito sarebbe stato non solo quello di non approfittarne a vantaggio della propaganda e dell’organizzazione sedicenti rivoluzionarie ma addirittura di dare un sostegno oggettivo, per quanto fantasiosamente motivato al proletariato, ad un processo di natura inequivocabilmente imperialista.

È pur vero che l’ipotesi di una partecipazione di Lotta comunista al referendum sulla Brexit è fortunatamente una questione astratta che prescinde dall’irrilevanza di questo partito in Gran Bretagna, ma a questo punto l’unica attenuante che potrebbero accampare gli attuali dirigenti di questo partito sarebbe che i socialimperialisti non si giudicano dalle intenzioni.

Circolo internazionalista “Francesco Misiano”