Negli ultimi mesi abbiamo assistito all’ennesima emergenza sanitaria che colpisce il continente africano, il più povero (per i proletari che lo popolano) ma anche il più ricco del nostro pianeta grazie alle immense risorse naturali, la diffusione dell’epidemia nota come Ebola.
La malattia da virus Ebola (Evd), in passato nota come febbre emorragica da virus Ebola, è una malattia grave e spesso fatale per l’uomo, nota alla medicina fin dal 1976, quando si sono riscontrati i primi casi in un villaggio africano presso il fiume da cui prende il nome.
La comprensibile preoccupazione per la salute, che dovrebbe generare allarme nel mondo quando qualunque membro del genere umano viene colpito da una malattia contagiosa, è diventata oggetto di attenzione da parte dei media soprattutto quando si è verificato lo sconfinamento del male fuori dai confini del continente nero, per approdare in Europa e in America. È dal 1976 che il virus è stato individuato e sono noti i sintomi della malattia, mentre dalla metà degli anni ’90 si sono verificati almeno una volta l’anno dei focolai epidemici, con percentuali di mortalità che vanno dal 100% dell’ex Gabon nel 1996 a un 51% del Sudan nel 2012, per i due ceppi più pericolosi del virus, mentre altri ceppi hanno percentuali dal 25% a un massimo del 51%. I più frequentemente colpiti sono stati finora Uganda, Congo, Gabon e Costa D’Avorio, oltre al Sudan dove il male ha iniziato a manifestarsi nel 1976. Oggi anche Sierra Leone e Liberia.
Basta scorrere le cronache degli ultimi venti anni per ritrovare i nomi di tutti i paesi citati nelle crisi geopolitiche e nelle lotte feroci e mercenarie per il possesso di fonti energetiche, minerarie e tutte le ricchezze che fanno gola agli investitori di tutto il mondo, da Oriente a Occidente, mentre alcuni sono ancora nell’elenco dei paesi coinvolti in conflitti bellici, sia internazionali che interni, come la Nigeria che, solo pochi giorni fa, è stata dichiarata ufficialmente “Ebola-Free”.
I paesi più colpiti sono perciò i più devastati da guerre civili, crisi economiche, corruzione, condizioni di vita sotto il livello di povertà nella maggioranza della popolazione, con diffusi problemi di malnutrizione, assenza di prevenzione sanitaria, analfabetismo.
Sono anche i paesi dove l’economia dipende dai mercati internazionali, la produzione agricola è fortemente condizionata dalle nervose oscillazioni in Borsa delle “commodities”, le materie prime contrattate nei mercati sono soggette, perciò ai disordini economici del capitalismo.
Cosa ha fatto il mondo “sviluppato” per salvaguardare la salute e la sopravvivenza del genere umano, in queste aree?
La diagnosi della malattia è difficile, dal momento che all’inizio i sintomi sono simili a quelli di altre malattie diffuse e connesse con la povertà, come febbre tifoide, dissenteria e varie febbri tropicali. Nelle comunità africane le precauzioni igieniche sono scarsissime e spesso le necessità quotidiane si scontrano con la mancanza di risorse: ad esempio la scarsa disponibilità di acqua corrente costringe le persone a lavarsi le mani in un unico recipiente, mentre d’altro canto le multinazionali dell’acqua si accaparrano le fonti idriche per poter venderle a caro prezzo. Attualmente circa il 70% degli infetti in Africa muore, e come riportato dall’O.M.S. siamo ormai a quota 8.033 casi tra sospetti e confermati (anche se fino a 6 casi su dieci potrebbero passare inosservati alle autorità sanitarie) e già 3.865 morti. Secondo il Center for Disease Control and Prevention (C.D.C), bisogna assicurare che il 70% dei pazienti contagiati riceva cure adeguate e venga messo in quarantena. Il tutto entro i prossimi 60 giorni. Altrimenti, più tempo passerà più gli sforzi, e il costo in vite umane, saranno ingenti.
Mentre in Europa e in America si seguono trepidando le cure e il decorso dei malati locali, importatori involontari del virus oppure contagiati sul posto, dei loro familiari e colleghi, persino dei loro animali domestici, in Africa migliaia di pazienti, e anche di medici e personale sanitario, infettati, attendono l’esito fatale o una altrettanto fatalistica guarigione, con terapie approntate frettolosamente, nella speranza che funzionino efficacemente.
Dov’è stato il sistema farmaceutico mondiale in questi 30 anni? Non solo le giustamente vituperate multinazionali dei farmaci, che si sono macchiate di veri e propri crimini contro l’umanità, sperimentando nuove molecole sulla pelle di pazienti inconsapevoli e negando loro le cure più efficaci – come nel caso della Pfizer nell’epidemia di meningite del 1996 a Kano, in Nigeria – ma anche i capitalismi emergenti che dall’India e da altri paesi insidiano le ampie fette di mercato delle prime, coi loro prodotti a basso costo. Se un’epidemia (come ad esempio l’A.I.D.S.) colpisce in prima fila le economie dove ci sono soldi da spendere per le cure, oppure o le minaccia da vicino (come nel caso dell’influenza aviaria), ingigantendone la pericolosità, il capitale che investe nei farmaci non si tira indietro, finanzia la ricerca, si fa concorrenza spietata su chi per primo brevetta la molecola “giusta” e fa la guerra a chi ne copia il contenuto.
Ma se un’epidemia virulenta, oppure una malattia endemica in aree depresse del pianeta, colpisce i più poveri, quelli che non hanno denaro da spendere neppure per salvarsi la vita, allora che interesse c’è a finanziare ricerche, impegnare scienziati e costosi laboratori, perseguire serie ed efficaci sperimentazioni condotte senza mettere a rischio la sopravvivenza dei malati?
Che cosa fa il mondo capitalistico contro la bilarziosi o l’ameba, malattie endemiche in Africa? O la febbre gialla (200.000 casi l’anno)?
Le vecchie malattie come la peste bubbonica o la malaria sono ormai un lontano ricordo, in Europa, ma sono tuttora diffuse in Bangladesh la prima e in Oriente e sul continente africano la seconda, ma non sono di interesse per il capitale, perché i proletari di quelle aree non hanno assistenza sanitaria, neppure la minima parvenza di welfare, quello così costoso che le politiche restrittive dei nostri governi vogliono progressivamente sgretolarlo. Ricordiamoci che il mondo non è poi così grande, non solo per i virus che viaggiano, e che quel “privilegio” che viene tolto oggi a qualcuno è tolto, indirettamente, a tutti, anche a chi ora non ce l’ha e può giustamente rivendicarlo.