E ora la parola a Bush e Sharon – SANDRO VIOLA

REPUBBLICA LUN 10/1/2005 SANDRO VIOLA

Ora che l’ANP ha un presidente favorevole al dialogo, la speranza di una tregua sta nelle mani di BUSH e SHARON: se sosterranno l’ANP e ridurranno le sanzioni o se di fronte ai nuovi attentati risponderanno con la chiusura.
Sia palestinesi sia israeliani sono stanchi degli scontri. Ma il massimo che si può ottenere ora è una tregua, non ancora una pace.
ISRAELE ha molte difficoltà a frenare i propri estremisti contrari al ritiro da Gaza; ancora di più neha l’ANP, senza mezzi e frazionata al suo interno: l’appello di Hamas a non votare è stato ascoltato da ben il 30% degli elettori.

LE ELEZIONI palestinesi si sono svolte in modo sufficientemente regolare, il moderato Abu Mazen è stato eletto da una larga maggioranza dei votanti, e subito, appena noti i risultati, un´euforia ha cominciato a diffondersi un po´ ovunque, in Israele, a Washington e tra i governi europei.
Sono in molti, infatti, a dirsi convinti che stia per aprirsi finalmente la breccia attraverso la quale riprendere le trattative, negoziare un compromesso, mettere fine alla faida tra israeliani e palestinesi.
Ma conviene essere prudenti, perché potrebbe trattarsi d´un facile ottimismo. Facile e forse altrettanto precario di quello del giugno 2003, quando a Sharm el-Sheik lo stesso Abu Mazen e Ariel Sharon si strinsero la mano davanti a Gorge W. Bush, impegnandosi all´applicazione del piano di pace detto “road map”. Piano di pace che due o tre mesi dopo era già in frantumi. Intendiamoci: le acque dello stagno mediorientale si stanno muovendo, il quadro del conflitto non è più rigido, impermeabile a qualsiasi idea di dialogo, com´era quattro o cinque mesi fa.
L´elezione di Abu mazen è quel che l´amministrazione americana, gli europei, molti paesi arabi e lo stesso Sharon s´attendevano come primo passo verso un possibile riavvio dei contatti negoziali. E anche la maggioranza dei palestinesi pone le proprie speranze in un dopo-Arafat che consenta la ripresa d´una vita più o meno normale, non più punteggiata quotidianamente dagli attacchi di Hamas e della Jihad contro l´esercito israeliano, e dalle rappresaglie dell´esercito israeliano nei villaggi e campi profughi palestinesi.
La maggioranza degli israeliani e dei palestinesi aspirano, questo è certo, ad una tregua. Ad un arresto della tremenda spirale di violenze che dura da quattro anni e tre mesi.
Perché su ambedue i versanti quel che oggi appare evidente, quasi tangibile, è la stanchezza. Il peso di tanti lutti, l´orrore per il sangue versato. E una tregua è forse possibile. La scomparsa di Arafat, il piano Sharon per il ritiro israeliano da Gaza, e adesso l´elezione di Abu Mazen, compongono infatti un quadro che somiglia in certa misura a quello che si delineò dopo la prima intifada, e da cui derivò il varo dei negoziati di Oslo. Con in più l´esperienza del passato: vale a dire con la consapevolezza che tutto, alla prima mossa sbagliata, potrebbe sfociare in una nuova, atroce delusione.
Ma quel che oggi va detto in modo chiaro, è che siamo soltanto ai primi, primissimi passi d´un processo negoziale. E che il massimo obbiettivo raggiungibile è per ora la tregua cui accennavamo prima: uno stato di non pace non guerra, meno morti, meno violenza, un programma d´aiuti all´Autorità palestinese che serva a strappare dal coma l´economia nei territori occupati.
Chi è davvero dentro alla storia e alle logiche del conflitto, a cominciare da Sharon e da Abu Mazen, sa che altro al momento non è possibile progettare. E questo perché su ambedue i versanti le resistenze, le intransigenze, i fondamentalismi religiosi, insomma l´opposizione al compromesso, restano vasti e molto forti.
Nel campo israeliano ribolle infatti, gravida di pericoli per la stessa stabilità dello Stato ebraico, la rivolta dei coloni. La minaccia cioè d´una resistenza violenta, e forse armata, allo sgombero degli insediamenti di Gaza.
Dall´America promettono di partire migliaia di ebrei ortodossi per dare man forte ai coloni. Nell´esercito israeliano s´aprono ogni giorno nuove crepe, con decine di ufficiali e soldati decisi a non obbedire ai vertici militari quando questi ordineranno lo smantellamento delle colonie. E per quanto, con l´ingresso dei laburisti al governo, Sharon disponga oggi d´una delle più robuste maggioranze che ci siano mai state al Parlamento d´Israele, basterà un incidente grave, uno scontro tra soldati e coloni che lasci a terra un morto, perché Israele si trovi dinanzi al baratro d´una guerra civile.
Non è molto diversa la situazione nel campo palestinese. L´appello degli integralisti e oltranzisti di Hamas a boicottare le elezioni, ha avuto il suo effetto. Circa il trenta per cento degli elettori s´è infatti tenuto lontano dalle urne, fornendo così la misura (ed è una misura inquietante) dell´influenza di Hamas sulle masse palestinesi. È vero, i portavoce dell´organizzazione dicevano ieri che Hamas è pronta a collaborare con il successore di Arafat, e che parteciperà alle elezioni legislative previste per giugno o luglio. Ma accenni ad un arresto delle azioni armate contro i coloni e i soldati israeliani nei territori, non ne sono venuti. E questo significa che le azioni continueranno: con da una parte Abu Mazen che non ha i mezzi per impedirle (salvo, forse, a sfiorare anche lui una guerra intestina), e dall´altra il governo israeliano che certo non abbandonerà la pratica delle rappresaglie.
Per troppo tempo, infatti, da una parte e dall´altra, gli estremisti sono stati lasciati liberi di opporsi ad ogni tentativo di sfebbrare il conflitto.
Per troppo tempo, sia da Sharon sia da Arafat, sono stati strumentalizzati per irrigidire le rispettive posizioni, per rifiutare il dialogo. E adesso nessuno può illudersi che sarà facile imbrigliarli, neutralizzarne la capacità sovversiva. Forse potrebbe riuscirvi il governo israeliano, visto che dispone di leggi, istituzioni e forze armate da impiegare contro una ribellione interna. Ma sul versante palestinese, nel caos istituzionale e dei servizi di sicurezza seguito ai quattro anni di intifada, appare improbabile che il nuovo presidente riesca – se Hamas proseguirà la lotta armata – a riportare l´ordine a Gaza e in Cisgiordania.

Su questo sfondo diventa essenziale capire quel che Bush e Sharon intendono fare per sostenere, non solo a parole, la nuova leadership palestinese. Se al primo attentato di Hamas o della Jihad si dirà che ogni negoziato è impossibile sinchè non viene stroncato il terrorismo, la situazione tornerà all´autunno del 2003, quando Sharon riuscì con questo pretesto ad affossare la road map. Se invece si farà il possibile, politicamente ed economicamente, per risollevare da terra l´Autorità palestinese, se Israele darà segni di voler alleggerire le misure oppressive dell´occupazione, se americani ed europei riusciranno ad avere una posizione comune nei confronti del conflitto, la tregua ci sarà, e forse durerà.

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