Fenomeni come la disoccupazione di massa, il crollo dei consumi, la scomparsa di innumerevoli imprese piccole, medie e grandi, la deindustrializzazione di intere zone (Detroit è il caso più eclatante), l’incapacità totale dei moderni stregoni, gli economisti, i tecnici, i bocconiani, di porvi rimedio. L’unica loro preoccupazione è salvare le banche.
Tutto questo non era imprevedibile né inspiegabile. Ogni sistema economico sociale al tramonto “libera” una quantità enorme di forza lavoro, che resta tagliata fuori dalla società, emarginata. E’ avvenuto nel mondo schiavistico e in quello feudale, sta avvenendo nel capitalismo.
Al momento della disgregazione del feudo, ci furono il licenziamento dei seguiti nobiliari, la cacciata dei contadini dalle terre e la loro sostituzione con l’allevamento di pecore (Thomas More nell’Utopia parla di pecore che divorano gli uomini!). Tutti costoro, all’inizio, non ebbero altra scelta che mendicare, e i monarchi dell’epoca impiccarono un numero altissimo di “vagabondi”. Nessuno all’epoca poteva comprendere che quei mendicanti erano gli antenati dei moderni proletari. Dove le città erano economicamente dinamiche, furono impiegati nelle manifatture. Il mondo nuovo industriale nasceva da quello vecchio, ma il processo non trovò nessuno che ne potesse essere completamente consapevole.
L’introduzione delle macchine portò a reazioni retrograde (il luddismo), ma in seguito subentrarono atteggiamenti più adeguati. Difficile capire fin da subito che lo strumento della loro oppressione, la macchina, poteva trasformarsi in strumento di liberazione, perché la sua produttività permetteva, in presenza di adeguate lotte politiche e sindacali, di ridurre l’orario di lavoro e lo sforzo fisico.
Quando, almeno in Inghilterra, il capitalismo si sviluppò pienamente, con Marx ed Engels fu possibile una visione del suo decorso storico. Marx ne “Il Capitale” -dicono molti – ha studiato il capitalismo inglese dell’ottocento, ora siamo nel XXI secolo, cosa ci può insegnare?
Questa è una visione riduttiva, perché Marx non si è limitato a descrivere il capitalismo britannico, ma ha individuato le tendenze generali del capitalismo, del suo sviluppo e della sua crisi finale, con – in aggiunta – indicazioni per comprendere gli sviluppi delle società schiavistica e feudale. La sua analisi e il suo metodo ci danno modo di comprendere sia gli elementi di dissoluzione dell’ordine presente, sia gli indizi di una nuova organizzazione economica internazionale.
La crisi attuale è il segno della necessità del passaggio da un’economia basata sulla concorrenza ad un’economia pianificata internazionale. L’economia tende potentemente all’internazionalizzazione, distruggendo senza pietà chi non riesce ad adeguarsi. Esternalizzazioni, aperture di nuovi siti produttivi in Romania, India, Cina, non sono soltanto aspetti di una risposta del capitale alla crisi, e alle quali il proletariato dovrà dare una sua risposta. Sono anche le trame di una rete internazionale sempre più fitta, che lega i paesi di vecchia e nuova industrializzazione, con l’apertura di nuove vie di comunicazione, di rapporti commerciali, politici, sociali.
La piccola borghesia, che ha affari a livello locale o al massimo nazionale, ne uscirà distrutta, e le risposte dei suoi rappresentanti ideologici rivelano un’incomprensione completa, anche se vengono da alte cattedre universitarie: decrescita felice, sviluppo equilibrato, ritorno al patto costituzionale…
Il processo di sviluppo verso la produzione internazionalizzata può essere affrontato sia da un punto di vista borghese, sia da quello rivoluzionario. I metodi rivoluzionari possono risolvere situazioni che altrimenti potrebbero vegetare per lunghi periodi. Ad esempio, in Francia, la vittoria del capitalismo in agricoltura avvenne in modo rivoluzionario, con la distruzione del feudo e la distribuzione delle terre ai contadini. A quell’epoca, l’introduzione della piccola proprietà privata contadina fu un fatto progressivo.
In Prussia, invece, la terra restò in mano agli agrari, che furono costretti a introdurre elementi crescenti di mercato e trasformarono a poco a poco i servi in operai agricoli, mantenendo tuttavia ataviche oppressioni e con costi umani impressionanti. Taglio del nodo gordiano nella situazione rivoluzionaria francese, lento, doloroso, pericoloso sviluppo nella situazione prussiana.
Cerchiamo di applicare questi criteri all’economia odierna, con l’avvertenza che quanto segue è un abbozzo, e che sarà necessario riprendere e approfondire questi temi.
Le forze produttive tendono ineluttabilmente a crescenti legami internazionali, e la concorrenza viene sempre più limitata da strutture monopolistiche. Le multinazionali sviluppano una vera pianificazione internazionale finalizzata esclusivamente al profitto, e nel contempo cercano di distruggere o divorare le industrie o i paesi che rifiutano di assoggettarsi al loro diktat. Vengono sviluppate forme di protezionismo mascherato, per esempio attraverso un presunto “controllo sulla qualità” del prodotto: inevitabilmente i giocattoli cinesi sono trovati “pericolosi”, mentre quelli locali sono “ineccepibili”.
Nonostante tutte le forme di dumping e le diverse pratiche protezionistiche il capitale non può rompere completamente con la concorrenza e col libero scambio, che propaganda, per i paesi di modesto sviluppo, ai quali cerca di proibire ogni forma di protezione doganale. Evidentemente, due pesi e due misure.
La successione storica è la seguente: feudo, cioè economia locale non mercantile, sviluppo del mercato a livello locale, economia nazionale, economia internazionale mercantile, economia internazionale pianificata. Il capitalismo stesso crea le condizioni per la pianificazione. Engels chiarisce che anche il capitale è costretto a un parziale riconoscimento del carattere sociale della produzione. La concorrenza diventa intollerabile in periodi di sovrapproduzione cronica, perché fa crollare i prezzi. Bisogna limitare la produzione, con le buone (accordi di cartello) o con le cattive, facendo saltare la fabbrica del concorrente o bombardare il paese che non si adegua, magari in nome della difesa della democrazia. Il capitale cerca di sviluppare una sua pianificazione, in forma reazionaria, e lo fa nella maniera più totalitaria, più disumana, più distruttiva possibile, irridendo tutti coloro che pensano di poterlo controllare per salvare la natura, il clima, la salute, la pace.
Vediamo due ipotesi:
1) Ipotesi reazionaria : tutto continua coma ora, e il capitalismo mantiene ancora a lungo il potere. Le grandi compagnie, come già sta avvenendo, approfittano della crisi per fare incetta di piccole, medie, grandi imprese in difficoltà, s’impadroniscono dei loro brevetti e delle loro conoscenze tecniche, dopo di che, se non hanno interesse a tenere le fabbriche, ma solo a disfarsi di un concorrente, liquidano il personale, compreso quello ossequiente rappresentato da sindacati di comodo, e spesso anche dirigenti locali, tagliatori di teste e licenziatori di professione.
Soprattutto sono eliminati i doppioni, visto che la divisione del lavoro non è più su base nazionale. Quindi i manager, quando in nazioni vicine ci sono siti con le stesse produzioni, dopo aver ricattato lavoratori e sindacati dei diversi paesi, contrapponendoli gli uni agli altri, e promettendo a tutti investimenti “alla Marchionne” e dopo avere spillato soldi a tutti i governi locali, attuano il loro piano, pronto da anni, di chiusura degli stabilimenti che non danno profitto, anche se questi producono gioielli della tecnica e hanno maestranze di altissimo livello. Per il capitale, il progresso tecnico è un valore solo se dà profitto.
Prendiamo un caso noto, il complesso Riva: il gruppo “possiede 36 siti produttivi, 19 in Italia… altri in Germania, Francia, Belgio, Spagna, Grecia, Tunisia, Canada… Le imprese del gruppo controllano tutti gli stadi della filiera siderurgica, dalla produzione dell’acciaio grezzo… alla laminazione a caldo e a freddo, alla produzione di acciai rivestiti e di lamiere da treno quarto e tubi saldati di grande diametro per gasdotti e oleodotti”.(1)
La Fiom lamenta che l’azienda non ha presentato un proprio piano industriale per quanto riguarda la gestione dei lavoratori. Se la Fiom vuole un bell’opuscolo preparato dagli esperti di relazioni sociali lo avrà. Ma il vero piano del gruppo c’è, pubblicato o meno non importa, e possiamo immaginarne le clausole: prevede lo sfruttamento bestiale dei lavoratori, l’elusione delle norme sanitarie, il licenziamento dei “superflui”. Nel piano sono già indicati i siti che devono chiudere, il numero dei lavoratori da licenziare. Come può un sindacato a base categoriale e nazionale confrontarsi con una struttura internazionale, che può agevolmente spostare produzioni da un paese ad un altro, e ha come unico criterio il profitto?
Occorrono collegamenti internazionali non puramente celebrativi tra i lavoratori, e massicce azioni sindacali. Altrimenti, un’impresa procede come un panzer, piegando resistenze, “convincendo” uomini politici, dirigenti sindacali.
Questi i giganti industriali di casa nostra, figuriamoci quelli con sede USA, Germania, Giappone. I vecchi rimedi fanno sorridere: più investimenti, come chiede la CGIL? porterebbero a una più rapida attuazione del piano e a licenziamenti.
Si può parlare di opportunismo per questi sindacalisti? Non ha senso. L’opportunismo presuppone almeno una comprensione parziale del processo di sviluppo capitalistico, un’iniziale scelta socialista, poi non portata fino in fondo. I Turati, i Bernstein, i Kautsky avevano un fine, che troppo spesso sacrificavano a obiettivi immediati. Landini si vanta persino di non aver mai letto il Capitale, e con ciò si inibisce ogni possibilità di comprensione dell’intero processo. Non è un opportunista, è peggio, è estraneo a ogni forma di socialismo.
L’egemonia delle multinazionali si traduce in un controllo crescente sulla politica dei governi, per cui diritti politici, civili, habeas corpus possono essere sospesi in qualunque momento. La vicenda Ilva e i relativi decreti contro le decisioni dei magistrati, presi infischiandosene bellamente delle divisioni dei poteri, sono solo un anticipo di ciò che avverrà in futuro.
Un complesso industriale elimina al proprio interno i cosiddetti rami secchi, che in realtà sono composti di lavoratori, che soffrono di tutte le conseguenze, pagando a volte con la vita, poi si passerà ad altre fusioni, e il procedimento si ripeterà kafkianamente infinite volte, con la stessa vergognosa ricetta: Promesse, menzogne, connivenze sindacali, soldi agli industriali da parte del governo. e alla fine, il lavoratore in mezzo alla strada, se non al cimitero.
Sul piano internazionale, il dominio delle multinazionali significa guerra continua, per il controllo delle materie prime e delle vie di comunicazione, e contro i paesi che non vogliono o non possono inquadrarsi del tutto in questo sistema.
Possono farci qualcosa i lavoratori? Se continuano a delegare la loro rappresentanza agli attuali dirigenti, no. Marx diceva che la classe operaia è rivoluzionaria o non è nulla.
Non ha senso, inoltre, chiedere l’intervento dello stato o la nazionalizzazione – peggio se provvisoria – finché lo stato rimane quello borghese: Significa affidare la risoluzione dei nostri problemi ai nostri avversari.
Il movimento operaio deve decidere se lasciare al capitale il compito di internazionalizzare l’economia, e subirne tutti i contraccolpi. In tal caso può tenersi gli attuali dirigenti. Sappiamo che a un certo punto “la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto tale in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico” (2) Ma sarebbe tragico se il movimento operaio attendesse inerte tale data.
2) Ipotesi rivoluzionaria : si può anche cominciare a riflettere se non convenga scegliere la via rivoluzionaria. I lavoratori, che sono la grande maggioranza dell’umanità, dovrebbero conquistare il potere cacciando i capitalisti e i loro servi. Ma senza una previa organizzazione, senza una preparazione e politica, la classe operaia rimane un giocattolo nelle mani delle classi dominanti.(3) Trasformando i mezzi di produzione in proprietà pubblica, i lavoratori liberano i mezzi di produzione del carattere di capitale. L’internazionalizzazione dell’economia avverrebbe più rapidamente, ma con modalità opposte. Non sarebbe finalizzata al profitto, ma alle necessità della popolazione, a partire da quella non solvente, ignorata dal mercato. Sarebbero sacrificati i profitti e le rendite, e i loro titolari messi al lavoro come tutti gli altri, così si potrebbero accrescere massicciamente i salari – almeno finché il lavoro sarà retribuito in denaro. La borghesia vuole sempre ridurre il costo del lavoro, il movimento operaio rivoluzionario dovrà aumentarlo.
Occorre eliminare le produzioni inutili o dannose di cui il capitale ci ammorba. Abolire professioni che hanno senso solo nel capitalismo – commercialista, allibratore, agente di borsa… – Ci vorrà molta dinamite per eliminare l’edilizia speculativa e dare posto agli orti, alla produzione per le esigenze essenziali, ai rapporti sociali, alla cultura.
La scelta è dunque tra un lungo periodo d’inferno capitalistico e un rinascimento sociale, quello che i nostri antenati chiamavano socialismo, termine che rinnegati e controrivoluzionari hanno trasformato in una parolaccia.
La società futura non sarà un paradiso, anche perché il capitalismo ha creato disastri sociali, economici, ambientali, sanitari incommensurabili e il proletariato dovrà impiegare decenni prima di ristabilire un minimo di equilibrio con la natura.
Non sarà facile, come si credeva una volta, ma è l’unica possibilità di evadere dall’inferno capitalista, ben più reale di quello dipinto dalle religioni.
Michele Basso
21 dicembre 2012
http://www.sottolebandieredelmarxismo.it/
Note
1) Gianmario Leone,”Dall’acciaio alle navi, la scatola cinese dei Riva”, 13 dicembre 2012, il Manifesto.
2)Karl Marx, “Il Capitale”, Cap. XXIV, par. 7.
3) Marx a Bolte, 29 novembre 1871.