Con la scheda che segue tratta da due articoli del Daily Star (18/12/2020 e 7/3/2021), in occasione dell’8 Marzo, giornata di lotta delle donne, presentiamo un breve spaccato della condizione delle donne, in questo caso delle migranti bengalesi, impiegate soprattutto per servizi alla persona e lavori domestici, in 21 paesi.
Si stima che ci siano 67 milioni di lavoratori domestici nel mondo, l’80% dei quali sono donne e 11,5 milioni sono migranti. Quasi tre quarti dei lavoratori domestici rischiano di perdere il lavoro e il reddito durante o a causa della crisi. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), ci sono oltre 1,2 milioni di lavoratori migranti del Bangladesh che lavorano in Arabia Saudita, e la maggior parte delle migranti sono Lavoratrici Domestiche Migranti (MDW). Tra il 1991 e il 2020 sono emigrate dal Bangladesh circa 924000 lavoratrici, che con le loro rimesse, come gli emigrati maschi, contribuiscono all’economia del paese.
La crisi di Covid-19 ha un impatto diverso su donne e uomini, a seconda del settore in cui lavorano, della fragilità della loro situazione lavorativa, del loro accesso alla previdenza sociale e lavorativa, e delle loro responsabilità di cura. Salute, istruzione e altri servizi sociali e alla persona sono settori in cui tradizionalmente predominano le donne. Durante la crisi Covid, il lavoro delle donne migranti ha garantito il funzionamento dei sistemi di assistenza sanitaria e sociale e delle famiglie di molti paesi.
Ma, i lavoratori domestici sono risultati più vulnerabili a causa delle misure di contenimento e della mancanza di un’efficace copertura previdenziale.
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Non ci sono dati completi sulle donne migranti di ritorno. Tuttavia, secondo il programma di migrazione Brac (nota 1), nel corso della pandemia di coronavirus sarebbero rimpatriate circa 49.924 lavoratrici migranti, da 21 paesi. Di queste 21.230 sono tornate dall’Arabia Saudita, 11.602 dagli Emirati Arabi Uniti, 4.826 dal Qatar, 3.209 dall’Oman, 2.910 dal Libano e 2.259 dalla Giordania. Mancano i dati su quante lavoratrici migranti sono tornate a casa perché i loro contratti di lavoro erano terminati o invece a causa delle torture e abusi subiti all’estero.
Le donne che ritornano devono affrontare numerosi problemi per reinserirsi in modo accettabile, tra cui lo stigma della comunità, gli effetti del distacco sociale, le limitate opportunità di lavoro, l’accumulo di debiti e lo scarso accesso alla previdenza sociale o al sussidio di disoccupazione.
La perdita del lavoro impatta negativamente sulle lavoratrici migranti, come pure sulle famiglie e le comunità che dipendono dalle loro rimesse per la sopravvivenza.
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Safa, tornata in Bangladesh nel settembre 2020: «Ho lavorato in Giordania per un anno e mezzo in condizioni difficili. La padrona di casa mi faceva dormire sul pavimento e mi prendeva a calci per svegliarmi. Non voglio tornare in Giordania»
Già prima della pandemia Covid-19, il settore del lavoro domestico era uno dei settori lavorativi più emarginati, meno protetti e meno valorizzati. Ora, a causa delle restrizioni di movimento, le donne MDW sono spesso messe in posizioni ancora più precarie. A causa della paura dei datori di lavoro di una possibile trasmissione del Covid-19, molte lavoratrici migranti sono state licenziate all’inizio della crisi. Queste donne sono rimaste bloccate, non potendo trovare un nuovo lavoro o tornare in Bangladesh perché le frontiere erano chiuse.
Rehena si è trasferita dalla sua città natale di Laxmipur all’Arabia Saudita nel 2018, dove ha lavorato come MDW fino all’epidemia di Covid-19, quando il suo datore di lavoro le ha interrotto il salario.
“Senza una paga, non potevo mandare soldi a casa alla mia famiglia e quindi ho dovuto andarmene, trovare un posto dove stare fino a quando sono riuscita ad avere un prestito di denaro per tornare a casa dalla mia famiglia e dai miei cinque figli. Ma ora non ho un lavoro e devo restituire il prestito.”
I permessi di lavoro delle MDW in Malesia, Singapore, Qatar e Arabia Saudita, sono legati al loro specifico datore di lavoro e una volta terminato il contratto, spesso risiedono illegalmente nel paese, e rischiano l’arresto o la deportazione, oltre che la tratta, la violenza e lo sfruttamento.
Il lavoro delle migranti si svolge prevalentemente all’interno delle case private dove, a causa delle mansioni intime, le lavoratrici sono a maggior rischio di esposizione al virus, specialmente nella cura dei malati. Durante la crisi, ci sono state segnalazioni di datori di lavoro che chiudevano le lavoratrici in casa e non le lasciavano uscire per paura della contaminazione. Di conseguenza, queste donne sono rimaste intrappolate in casa tutto il giorno con i loro datori di lavoro, e molte hanno subito violenze.
Molte lavoratrici migranti continuano a non avere nessuna previdenza sociale e lavorativa; hanno scarso o nullo accesso ai servizi sanitari e non hanno un’indennità di disoccupazione o di malattia se perdono il lavoro, con il rischio di conseguenza di diffondere il contagio anche nelle comunità di cui si occupano.
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Dal 2016 sono stati rimpatriati almeno 487 cadaveri di lavoratrici migranti, da 11 paesi. 198 dall’Arabia Saudita, 88 dalla Giordania, 71 dal Libano, 53 dall’Oman, 39 dagli Emirati Arabi Uniti e 38 da diversi altri paesi. Di questi cadaveri, 57 sono arrivati nel 2016, 102 nel 2017, 112 nel 2018 e 139 nel 2019. Inoltre, durante la pandemia sono stati rimpatriati 77 cadaveri di lavoratrici migranti.
Delle donne migranti decedute, 86 sarebbero morte per suicidio, 167 sono morte per “ictus”, 71 in incidenti, 115 sono morte “naturalmente”, due sono state uccise, e 46 sono morte per altre cause.
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Ci sono stati casi di donne “vendute” per lavorare all’estero, e casi in cui le donne sono diventate vittime della tratta. Citando i dati del governo, Brac ha detto che, tra il 2012 e il 2020, secondo i procedimenti presentati in base alla legge sulla prevenzione e la soppressione del traffico di esseri umani, almeno 1.791 donne sono state vittime del traffico di esseri umani.
Nota 1: BRAC è un’organizzazione internazionale per lo sviluppo con sede in Bangladesh. Per poter ricevere donazioni straniere, BRAC è stata successivamente registrata sotto l’Ufficio affari delle ONG del governo del Bangladesh. BRAC è la più grande organizzazione non governativa di sviluppo al mondo, in termini di numero di dipendenti a settembre 2016.