Divide et impera antioperaio nel Xingjiang

I sanguinosi disordini nello Xinjiang hanno costretto il premier Hu Jintao ad abbandonare la passerella del G8 e rientrare frettolosamente in Cina per dirigere la repressione. La sua abilità in questo campo, applicata con la stessa determinazione in passato in Tibet, gli ha spianato la strada al potere; e anche stavolta l’ha applicata con la piena approvazione della borghesia di Stato e privata cinese che lo ha espresso e dei cui interessi di classe è interprete ed esecutore. A differenza del Tibet, vecchio cavallo di battaglia utilizzato spesso dall’imperialismo americano ed europeo per mettere diplomaticamente in difficoltà il governo cinese, una “questione nazionale uigura” per ora non è seriamente impugnata da nessuno dei concorrenti internazionali della Cina. I diritti umani in Xinjiang o nelle fabbriche cinesi sono al massimo oggetto di curiosità giornalistica o dell’impegno di singole organizzazioni umanitarie e solo poche minoranze internazionaliste sono oggi consapevoli che il sangue versato in Xinjiang o nel Guandong è il sangue della classe operaia che sta pagando la crisi internazionale anche attraverso lotte fratricide, mobilitata su parole d’ordine razziste secondo un copione vecchio come il capitalismo.

Lo Xinjiang è una Regione autonoma situata all’estremo nord-ovest dello stato cinese, incuneata fra Mongolia, Russia, Kazakhistan, Kyrgyzistan, Tajikistan, Afghanistan, Pakistan e India. Con soli 19 milioni di abitanti esso copre un sesto della superficie della Cina, ma la popolazione, in passato prevalentemente dedita alla pastorizia, è concentrata per il 95% nel 4,2% del territorio, cioè intorno ai fiumi in poche oasi densamente popolate, separate da deserti e alte montagne. Qui sorgono le principali città. La regione è ricca di minerali e fornisce il 40% della estrazione di carbone e il 35% di quella di petrolio di tutta la Cina, oltre a gas e altri minerali strategici. Il governo cinese ha massicciamente investito dagli anni ’90 nella costruzione di strade, ferrovie e 11 aeroporti. Il settore minerario pesa per il 26% del totale delle imprese industriali. Nella zona industriale speciale creata nel ’92 operano imprese cinesi ma anche straniere nella chimica, macchine utensili, elettronica, tessile (lo Xinjiang produce la metà del cotone di tutta la Cina).

Lo Xinjiang è anche una importante base per gli uomini d’affari che vogliono investire in Kazakistan E’ in costruzione un oleodotto che dal Kazakistan, attraverso il sud dello Xinjiang raggiunga Shanghai. La regione è molto integrata economicamente con le Repubbliche asiatiche ex sovietiche con cui intrattiene intensi scambi commerciali. Nel 2000 sono stati censiti 19 milioni di abitanti contro i 4,3 milioni del 1949 quando il Turkestan orientale (nome attribuito in lingua araba e utilizzato anche nel periodo di occupazione russa) è stato annesso alla Repubblica popolare cinese, ridiventando Xinjiang. Se nel 1949 la etnia prevalente era quella uigura e i cinesi han erano il 5% del totale, oggi il 38% della popolazione è costituito da han immigrati (7,5 milioni), mentre il resto si divide fra 49 nazionalità; il gruppo maggioritario è quello uiguro, che pesa per il 42% del totale della popolazione (8,4 milioni); ci sono poi un milione di kazaki e comunità di hui, kyrgyzi, uzbeki, tajiki, mongoli, manchi, xibe, tatari, russi e altri. Gli uiguri praticano un islam sunnita a influenza salafita. Quattro milioni e mezzo di Yuguri sono turcofoni, 3 milioni parlano dialetti mongoli e un milione (prevalentemente quelli che abitano in città) parla cinese.

Il controllo dello Xinjiang è strategico per Pechino anche per la collocazione geografica nel cuore dell’Asia Centrale. Quando gli Usa invasero l’Afghanistan le autorità cinesi schierarono al confine nello Xinjiang 40 mila soldati, temendo una recrudescenza dei movimenti separatisti. Un elemento costante della propaganda cinese è accusare la Cia, gli occidentali e anche la Turchia di fomentare i disordini per indebolire la Cina. Anche i disordini attuali sono attribuiti a non meglio identificati agitatori stranieri. E’ indubbio che paesi limitrofi e potenze rivali hanno avuto in tempi diversi interesse a utilizzare il Tibet come lo Xinjiang per aumentare le spinte centrifughe e destabilizzare lo Stato cinese. Era un vecchio progetto Usa degli anni ’90. Tuttavia dialetticamente è interesse comune capitalistico che il governo conservi un ferreo controllo sulla manodopera al cui sfruttamento concorrono anche i capitali stranieri. La Turchia è apertamente scesa in campo come paladina degli uiguri turcofoni a proposito della repressione in atto. Ma i gruppi di opposizione di ispirazione panturca sono in declino, come del resto i gruppi filorussi. A ottenere gli onori della cronaca sono gruppi separatisti minoritari, fra loro divisi, che hanno sede a Monaco di Baviera, Olanda e Washington, cui corrispondono comunità di emigrati politici non sempre rappresentativi.

Il rischio terrorismo peraltro è frutto delle scelte stesse del governo cinese, che negli anni ’80 finanziò i Talebani afgani in funzione antirussa e poi in funzione antiamericana, almeno fino quando essi trasferirono le loro basi nello Xinjiang creando analoghi gruppi islamici, che hanno compiuto vari attentati terroristici negli anni ’90 e recentemente hanno stretto legami con gruppi talebani in Pakistan. uiguri sono stati reclutati anche per la guerriglia mussulmana in Kashmir (un’area del Xinjiang è un ex territorio indiano strappato dalla Cina nel 1962). Diversi storicamente per costumi lingua e religione, gli uiguri si sono costruiti una identità più precisa in anni relativamente recenti per coalizzarsi contro gli “invasori” han ed esiste un movimento separatista, che però non sembra in gradi di esprimere particolare forza, diviso com’è in piccole organizzazioni esistenti tutt’al più all’estero.

La situazione sociale in Xinjiang

La regione, come ribadiscono tutti i siti ufficiali cinesi, tradotti in tutte le lingue, ha attraversato un forte sviluppo economico e sociale dal 1949. Ad esempio la speranza di vita è passata da circa 30 a 62,6 anni per gli uiguri (tasso comunque inferiore al livello medio nazionale della Cina che è di 73,2 anni). E’ migliorato il livello di scolarizzazione (nel 1949 la maggior parte della popolazione era analfabeta); migliorata anche la situazione sanitaria, il livello delle infrastrutture ecc. Tuttavia la popolazione uigura ha usufruito solo in parte di questo progresso. Ancor oggi in media ha 6,5 anni di scolarizzazione e metà della popolazione non va oltre una abilità elementare di leggere e fare di conto, mentre il 25% è ancora semianalfabeta.

In particolare le zone rurali non hanno a disposizione scuole in cui si insegni il cinese. Gli uiguri vivono in case peggiori, spesso senza servizi igienici e costituiscono il 76% della manodopera delle campagne. Il loro tasso di mortalità infantile è 4 volte quello cinese.

Come in Tibet gli han, più istruiti e favoriti dall’uso del cinese mandarino nell’amministrazione pubblica e nelle imprese a capitale cinese, occupano i posti di lavoro meglio retribuiti e di maggiore responsabilità, a scapito in particolare dei giovani uiguri. Gli han dominano l’economia e preferiscono assumere han. Questo è particolarmente evidente nelle industrie di estrazione del petrolio ma anche nelle imprese a capitale cinese. Ma è in particolare il ventaglio del reddito che crea tensioni fra gli han e le minoranze. Il PIL pro capite era di 11.199 yuan nel 2000 contro una media cinese di 5.200, a dimostrazione della presenza di attività economiche remunerative. Ma il reddito medio annuo nel 2005 era nelle città di 7180 yuan (868 $) e nelle campagne di 1.618 (212 $). Nelle città vivono prevalentemente gli han e in campagna prevalentemente le minoranze.

Negli ultimi 15 anni man mano che gli han “invadevano” lo Xinjiang, circa un milione di uiguri sono emigrati all’estero; le comunità più importanti sono nelle repubbliche islamiche ex sovietiche (circa 700 mila), in Pakistan, in Turchia (10 mila), Arabia saudita, Germania, Usa e Canada) e altre migliaia sono stati attratti dalle possibilità di lavoro delle regioni cinesi della costa.

 
L’episodio scatenante

Da questo fenomeno si deve partire per capire l’episodio scatenante dei recenti tumulti, che avviene nella fabbrica di giocattoli Xuji di Shaoguan (Canton) nel Guandong (Cina meridionale). Qui alcuni operai uiguri sono stati accusati ingiustamente di aver fatto violenza a due operaie han. La voce è stata diffusa da un operaio licenziato da una fabbrica privata e ha trovato ascolto fra gli altri operai han scontenti per l’assunzione nella città di 600 uiguri, disposti a lavorare a salario inferiore, ma anche favoriti da una riserva di posti stabilita per legge per le minoranze; nel solo Guandong fra agosto e dicembre 2008 hanno chiuso 20 mila piccole fabbriche (fonte: ChinaWorker.info) .   Gli operai han, eccitati da questa falsa notizia, hanno assalito con coltelli e sbarre di metallo i dormitori degli operai uiguri. Nello scontro che ne è seguito due operai uiguri sono stati uccisi e 118 di entrambe le parti sono rimasti feriti.

I fatti, amplificati da internet e dalla stampa ufficiale ma anche alternativa, hanno dato origine, nello Xinjiang, a manifestazioni inizialmente pacifiche di protesta contro l’arresto di molti operai uiguri a Shaoguan (benchè fossero gli aggrediti), e per la confisca dei loro cellulari. Queste manifestazioni hanno poi assunto il carattere di attacchi violenti alla popolazione han, ai loro beni e istituzioni. Per diverse ore le “forze dell’ordine” cinesi hanno lasciato fare, che scorresse il sangue di decine di morti e feriti, per poi scatenare una durissima repressione contro gli uiguri.

Nella capitale Urumqi, una città di 2,3 milioni di abitanti dove gli uiguri sono ormai solo il 12,8% e dove si sentono più discriminati, perché sommersi dall’immigrazione han, dopo la repressione della polizia, che ha usato cannoni ad acqua, cani killer e bastoni chiodati, le agitazioni si sono trasformate in scontri anche fra civili; le tv e i siti internet hanno mostrato bande di han che davano la caccia agli uiguri nelle vie di Urumqi, mentre la televisione di stato cinese ha mostrato solo uiguri all’attacco che appiccavano incendi a macchine ed edifici, negozi saccheggiati, uffici pubblici distrutti. Per sei ore la polizia di stato ha dato mano libera agli uiguri, per avere poi il pretesto alla repressione. La sommossa si è poi estesa alle oasi del sud della regione, Kashgar, Khorla Turfan e Khotan, dove un anno e mezzo fa c’erano stati molti sanguinosi attacchi di uiguri contro simboli del governo di Pechino ma anche contro civili han. A Urumqi ora è stata dichiarata la legge marziale, il servizio telefonico e internet sono stati interrotti. Il bilancio ufficiale di 184 morti (di cui 43 uiguri) e 1816 feriti viene smentito dalle fonti uigure all’estero; pare anche certo che dei 1.500 arrestati la maggior parte siano uiguri.

I disordini attuali sono il frutto di una lunga storia di discriminazioni e di piccoli e grandi soprusi (dopo gli incidenti della primavera 2008 il governo ha ridotto di molto la possibilità di spostamento degli uiguri sul territorio nazionale, ritirato i passaporti, aumentato le visite ispettive immotivate nelle case uigure). Nascono da reciproci, storici pregiudizi: per la maggior parte dei cinesi lo Xinjiang è un paese sconosciuto, un deserto senza interesse in cui il governo “getta” risorse. Per gli uiguri i cinesi sono dei colonizzatori che li derubano delle loro risorse. Una situazione che ricorda a molti quella del Kosovo nei Balcani.

Ma gli scontri fra bande di han e bande uigure sono anche il risultato di una ben orchestrata campagna di stampa, che il governo ha tollerato se non suggerito, tipica del capitalismo: gli uiguri sono stati descritti come terroristi islamici senza scrupoli, violentatori di donne, al soldo degli stranieri per indebolire la patria cinese, ingrati che sputano nel piatto dove mangiano ecc. Una campagna in apparente contrasto con la linea ufficiale di “favorire una armoniosa integrazione” fra etnie. Lo scopo è dirottare il malcontento, effetto della crisi economica, dal governo alle minoranze etniche, allontanandolo dalla borghesia cinese che in questi anni si è ingrassata sfruttando i lavoratori il rischio di agitazioni sociali di cui potrebbe pagare il prezzo.

La classe operaia cinese sta attraversando infatti un periodo terribile in cui oltre 100 milioni di immigrati recenti si trovano a competere per posti di lavoro che si riducono sempre più, con salari sempre più bassi e con lunghi periodi di disoccupazione. Il salario medio di questi operai è di 500 yuan al mese (73$). La perdita del lavoro li lascia rapidamente senza risorse, costringendoli a lasciare le città. Le autorità temono che i giovani operai passati attraverso l’esperienza di urbanizzazione veicolino nelle campagne i germi della rivolta. Le proteste e la resistenza stanno aumentando. Le autorità cinesi registrano come “incidenti di massa” sia gli scioperi, che le dimostrazioni che i disordini che riguardino almeno 25 partecipanti. Nel 2008 ci sono stati 127 mila di questi “incidenti”. Nei primi tre mesi del 2009 sono stati 58 mila. E coinvolgono un numero sempre maggiore di partecipanti, che vanno dagli operai delle piccole fabbriche ai ben pagati piloti d’aereo.

Se prima le lotte erano esplosive, ma intermittenti e a carattere locale, ora si ha notizia di azioni coordinate, anche se per ora le autorità e gli imprenditori usano a proprio vantaggio la divisione fra gli operai di recente immigrazione (senza residenza e quindi semiclandestini e senza diritti) e gli operai residenti. Mentre negli anni precedenti gli scioperi esplodevano nelle cinture suburbane lontane dalla possibilità di essere registrate dai media, oggi esplodono scioperi fra gli strati operai di seconda e terza generazione, in città come Shanghai o Chongqing. Per ora la risposta del regime è da un lato investimenti statali nelle infrastrutture per mitigare la disoccupazione e dall’altro la feroce repressione di ogni organizzazione sindacale e l’arresto dei capi delle lotte.

Nello Xinjiang c’è lo stesso quadro di crisi, con migliaia di tonnellate di cotone invenduto perché le imprese tessili della costa non esportano più ai ritmi di una volta, i licenziamenti nella metallurgia e nelle macchine utensili.

Concludendo: la esplosione di violenza nello Xinjiang ha meno a che fare con un problema di separatismo o di terrorismo di matrice islamica come è interesse del governo cinese presentare quanto un problema sociale. Lo Stato cinese fomenta le divisioni interetniche all’interno del proletariato per poter meglio reprimere ogni sua protesta e tentativo di organizzazione. Se la calma sembra tornata nello Xinjiang, la malefica pianta del razzismo ha già prodotto altri danni: a Canton orde di han in cerca di vendetta e armati di bastoni e catene sono scesi nelle strade anche di recente, scatenandosi contro i musulmani, hui e uiguri.

Mai come in questo caso la Cina è vicina. Immaginiamo una camicia verde indossata dalle gang han, mettiamo i rom al posto degli uiguri, sostituiamo l’operaio cinese immigrato recente con l’africano senza permesso di soggiorno, e abbiamo un chiaro parallelo con le storie di casa nostra. La differenza sta, per ora nel diverso tasso di violenza.

Uguale è il compito dei comunisti di far recuperare ai lavoratori il senso di appartenenza di classe, in una lotta comune contro la classe degli sfruttatori.

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