Negli stessi giorni in cui scoppiano le rivolte degli afroamericani negli USA contro le violenze della polizia, i riders brasiliani, giovani e per lo più neri, in uno sforzo di autorganizzazione esemplare, giungono a proclamare una giornata di blocco della loro attività e a raccogliere la solidarietà e la partecipazione dei lavoratori dei trasporti metropolitani e di altre categorie, di studenti, di movimenti e organizzazioni sociali. Inoltre hanno creato una rete di coordinamento con i riders di altri paesi latinoamericani per convergere in una mobilitazione unitaria e internazionale sotto le parole d’ordine: “La nostra vita vale più del loro profitto!”,” Abbiamo tutti gli stessi diritti!”, ”Una sola classe, una sola lotta!”.
Questo giovane movimento ha cominciato a formarsi in occasione delle mobilitazioni contro Bolsonaro che recentemente animano ogni fine settimana delle principali città brasiliane; una buona parte si è data una prima organizzazione come “Riders Antifascisti”, benché (vedi scheda 1) ad esprimersi contro il governo non sia la maggioranza. Una rabbia montante anche in seguito alla decisione del presidente di toglierli dall’elenco dei lavoratori precari e autonomi beneficiari dell’aiuto di emergenza Covid-19 di 600 R$ mensili.
Il 1 luglio i ciclofattorini di Brasile, Argentina, CostaRica, Cile, Messico, Guatemala ed Equador hanno quindi smesso di fare le consegne, bloccando le arterie principali delle metropoli e dei grandi centri urbani di questi paesi.
Le loro rivendicazioni sono semplici e basilari, per un rapporto di lavoro che non è esagerato dire di moderna schiavitù. Chiedono migliori condizioni di lavoro e la fine del precariato; un salario minimo e l’aumento della remunerazione a consegna e per Km percorso; la fine delle interruzioni delle applicazioni, ingiustificate e senza spiegazione, versione tecnologica del licenziamento che solleva i padroni da possibili proteste; un inquadramento e un rapporto di lavoro come dipendenti a tutti gli effetti, alla pari dei lavoratori dei trasporti; la fine della valutazione a punti, che si rivale sul lavoratore riducendo il numero delle consegne qualora la performance non sia stata giudicata sufficiente dall’algoritmo dell’applicativo; la fornitura di DPI di sicurezza contro il contagio da Covid-19; infine, tutele contro il furto, la malattia, gli incidenti sul lavoro.
I lavoratori dei trasporti metropolitani, anch’essi sotto attacco in periodo di pandemia e mobilitati in seguito ai tagli che il governatore di São Paulo Doria ha imposto ai loro salari, per il diritto alla salute e alla sicurezza contro il Covid-19, hanno fatto del 1 luglio anche la loro giornata di sciopero, condividendo le rivendicazioni dei riders e sostenendo il loro diritto ad essere inquadrati come lavoratori dei trasporti, con le garanzie e tutele che il loro stesso contratto prevede.
Il successo della prima mobilitazione ha portato a rilanciare un nuovo blocco per il 25 luglio: “la guerra continua!”.
In Brasile lo sciopero ha interessato 20 grandi città, ma è São Paulo il centro maggiormente rilevante del movimento, con 50.000 giovani regolarmente registrati solo tra i motociclisti, 1/3 dei totali nel paese.
La loro lotta è un esempio per tutta la classe lavoratrice, poiché fa emergere e affronta le nuove forme di sfruttamento del capitalismo digitale, una retrocessione dal punto di vista dei diritti e delle condizioni di lavoro di almeno 150 anni di lotte del movimento operaio internazionale.
Pur nel carattere embrionale dell’organizzazione attuale, la rilevanza di questo movimento sta nelle sue rivendicazioni di base, che sono quelle di tutta la classe lavoratrice, soprattutto in questo periodo di ristrutturazione produttiva avviato dalla pandemia. E’ una lotta decisiva contro la sua possibile generalizzazione.
“Il capitalismo delle piattaforme, diretto dalle grandi corporazioni globali (le principali sono: Rappi, iFood, Loggi, Uber Eats, 99Food, James, n.d.t.), ha qualcosa di analogo ad una protoforma del capitalismo” [R.Antunes: “Coronavirus: o trabalho sob fogo cruzado”, ed. Boitempo, 2020] che abbina alta tecnologia a servitù digitale e atomizzazione lavorativa.
Se fino a ieri il rapporto capitale/lavoro aveva la sua forma più efficace di sfruttamento nell’outsourcing, oggi il motore del profitto ha fatto un passo ulteriore: nessun diritto per chi lavora, nessun obbligo per il padrone.
Questi giovani stanno sfidando un meccanismo virtuale che li disgrega e li individualizza in una cruda concorrenza reciproca e nella rincorsa all’intensificazione autoimposta del proprio lavoro, che nel periodo della pandemia da Covid-19 ha raggiunto livelli insostenibili.
Ma è proprio in questo periodo che l’organizzazione dei riders ha guadagnato forza: i maggiori carichi di lavoro, la maggiore concorrenza (la gran parte a fronte di un aumento della domanda ha ricevuto salari inferiori, a causa della maggior competizione con i nuovi disoccupati) e lo stato di pericolo per la salute e la loro vita sono stati decisivi.
Invisibili ma essenziali, essenziali anche a garantire il distanziamento sociale e a sostenere l’attività di bar e ristoranti in difficoltà permettendo loro di riaprire, portano cibo ma soffrono la fame.
Ogni consegna vale da 4 a 10 R$ (da 0,68 a 1,7 euro; 1R$=0,17 euro), ma c’è una grande variabilità sulle cifre dei loro salari. Alcuni possono guadagnare 50R$ al giorno, pochi arrivano a 300R$.
Generalmente lavorano da 12 a 14 ore, nemmeno riescono ad andare in bagno – molti ricorrono ai pannoloni – e devono accollarsi le spese dei mezzi di trasporto e dei pasti.
La pandemia ha aumentato il numero di incidenti e morti sulla strada e un terzo dei riders è venuto a contatto con contagiati da Covid-19 senza avere alcuna protezione né la possibilità di effettuare un tampone.
La realtà che stanno vivendo questi lavoratori è quella di tutto il proletariato nel tempo del Covid-19: rischiare la vita per non morire di fame.
Secondo il leader dei riders di São Paulo Paulo Lima detto Galo, la maggior difficoltà nell’organizzare la categoria è maturare la coscienza di essere classe lavoratrice, e questo “a causa della menzogna imperante che siamo liberi imprenditori”.
La giovane lotta dei riders ha aperto la strada per la sua generalizzazione e internazionalizzazione: un passo necessario sia per l’unità e solidarietà di classe che per il carattere transnazionale della rete di applicativi (vedi scheda 2), che stanno approfittando della pandemia per sottomettere i lavoratori al giogo di uno sfruttamento sempre più brutale.
Fonti: Esquerda Diário 12,21,22,30/06;01/07/2020
Sito CSP-Conlutas 10,15/06/;02/07/2020
SCHEDA 1:
Chi sono i riders brasiliani?
L’Osservatorio sulla Precarizzazione del Lavoro e sulla Ristrutturazione Produttiva di Esquerda Diário durante lo sciopero del 1 luglio scorso ha effettuato un sondaggio tra i riders per dare un’identità più precisa a questa categoria di lavoratori, su cui esistono pochissimi dati e per lo più divulgati dalle piattaforme stesse.
Sono stati intervistati 253 riders in 9 stati brasiliani.
Ne riportiamo i risultati più significativi:
Il 96% dei riders sono uomini, giovani (l’82% ha fino a 34 anni, il 38% meno di 24 anni) e neri (il 67%).
Per il 75% il lavoro di rider è l’unico lavoro; il 70% lavora con almeno due apps; le principali sono: iFood, Rappi, Uber Eats.
Il 32% lavora in questo settore da più di due anni.
Il 70% dei riders si sposta in moto, il 28% in bicicletta. Altre ricerche hanno tuttavia rilevato come la bicicletta sia usata da più di un terzo dei lavoratori.
Sull’orario di lavoro i dati mostrano che il 77% lavora più di 10 ore al giorno, il 40% più di 12 ore, il 32,4% tra le 12 e le 15 ore al giorno e il 10% lavora più di 15 ore al giorno.
Il 59% riceve fino a 2000R$ mensili lordi ( le spese di manutenzione dei mezzi, della benzina, del cibo sono a loro carico). Il 21% guadagna meno di 1000R$ al mese. Il salario medio lordo per chi si muove in bicicletta è di 1600R$; per chi si muove in moto è di 2500R$.
Il 51% dei riders ha subìto almeno un incidente sul lavoro; tra chi si muove in moto il dato sale al 57,2%.
Il 90% di chi usa la bicicletta percorre più di 100 km al giorno ed è pagato in media 1R$ per chilometro.
La maggior parte di chi ha la moto percorre fino a 300 km al giorno, guadagnando a chilometro 0,52 centesimi.
Gli indici di contagio da Covid-19 sono bassi, sia per la giovane età della popolazione intervistata che per l’esiguità dei test effettuati, che vengono concessi solo a chi ha sintomi gravi.
E’ stata chiesta una valutazione sul governo Bolsonaro: il 40% si dice contrario, il 17% favorevole, il 20% indifferente.
SCHEDA 2:
Softbank, il fondo di investimento che controlla le principali applicazioni
Il monopolio Softbank è un fondo di investimento del miliardario giapponese Masayoshi Son, l’uomo più ricco del Giappone, con una fortuna di 24 miliardi di $; investe nelle piattaforme delle nuove tecnologie che si arricchiscono sul lavoro precario e sulle moderne schiavitù come Uber, Rappi, Loggi.
Fondato nel 1981, oggi partecipa a più di 100 imprese, in un primo periodo principalmente di software (ad es. Yahoo). Successivamente è diventato il gigante monopolista delle piattaforme digitali e tra il 2009 e il 2014 ha avuto un aumento di capitalizzazione del 557%, il quarto maggior aumento relativo del mondo.
Nel 2019 istituisce il Fondo Softbank Latin America; con un capitale di 5 miliardi di $ investe in meno di 6 mesi un miliardo di $ nelle imprese della regione, diventando rapidamente il principale azionista delle piattaforme, come la colombiana Rappi e la brasiliana Loggi. Attualmente sono 10 le startups brasiliane che godono di investimenti Softbank.
Nel 2019 queste hanno licenziato almeno 10000 lavoratori.
Softbank scommette sul lavoro precario su larga scala. In Cina investe in servizi di consulenza medico-sanitari da remoto, in cui tutto il personale medico è precario (Ping an Good Doctor). Spesso investe in imprese in difficoltà o in concorrenza tra loro: il suo obbiettivo è consolidare il settore sotto il suo controllo.