Da Bolsonaro a Lula. Cosa succede in Brasile?

Proponiamo la traduzione di un articolo, tratto dalla rivista Esquerda Diario, che analizza il momento di transizione tra il governo Bolsonaro e quello a guida PT. Si ripercorrono le dinamiche tra forze politiche ed economiche che hanno fatto da base di sostegno a Bolsonaro (agribusiness, militari, chiese evangeliche) e il loro radicamento nei passati governi PT.

Le ultime elezioni hanno evidenziato la forte polarizzazione politica del paese, tra un bolsonarismo senza Bolsonaro estremamente vivace e combattivo e l’arco politico che si è saldato attorno alla figura di Lula, un fronte unico che risponde alla politica di conciliazione di classe da sempre propria del PT.

La violenza squadrista della destra radicale che l’8 gennaio ha assaltato il cuore delle istituzioni brasiliane per aprire le porte al golpe militare farà da contraltare ai primi passi del nuovo governo con i suoi appelli alla pace, all’unità nazionale e alla ricomposizione istituzionale.

Stretta tra questi due poli, la classe lavoratrice brasiliana non trova nessuna forza politica che sostenga i suoi interessi.

Solo la lotta e l’organizzazione indipendente potranno aprirle un varco tra le sirene del riformismo ‘sviluppista’ e la violenza reazionaria della conservazione antiproletaria.

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Le elezioni brasiliane del 3 novembre hanno sancito la vittoria di Luiz Iñácio Lula da Silva per il suo terzo mandato. Il margine di differenza con Bolsonaro, che era stato di 6 milioni di voti al primo turno, è sceso a 2 milioni. Nelle elezioni con la minore differenza di voti nella cosiddetta Nuova Repubblica, Lula ha ottenuto il 50,9% dei voti validi, mentre Bolsonaro ha raggiunto il 49,1%. Quali sono le ragioni sociali e politiche che spiegano questa polarizzazione e, in particolare, come interpretare un Paese che ha eletto per la quinta volta un presidente del PT dopo quattro anni di governo di estrema destra?

Confermata la sconfitta elettorale di Bolsonaro, in migliaia sono scesi in piazza per celebrare la vittoria di Lula, e la cosa è stata interpretata da vari settori come un sollievo dopo tanti anni di governo reazionario e odioso di Bolsonaro. L’elezione di Lula esprime l’attesa di un ritorno alle condizioni di vita dei suoi precedenti governi, anche se le condizioni economiche sono molto diverse, così come il rifiuto di un’estrema destra che ha messo sotto attacco i diritti democratici elementari. Lo scontro tra le aspettative e la realtà di quello che sarà il governo, prima o poi, potrebbe dar vita a nuovi fenomeni sociali, politici e di lotta di classe.

La coppia Lula-Alckmin ha avuto il sostegno di potenti frazioni del capitale finanziario e industriale, compreso lo stesso governo Biden. Vecchi e nuovi neoliberisti, federazioni di industrie e banche si sono uniti al Frente Ampla, molti di questi avevano sostenuto il golpe istituzionale del 2016 e ora sostengono l’argomento propizio della difesa della democrazia contro la barbarie.

D’altra parte, già la notte stessa dell’esito elettorale le strade hanno cominciato a essere bloccate dai bolsonaristi, con l’appoggio dei settori padronali, che contavano sulla presenza, e in altri casi sull’incoraggiamento, di alcuni settori della polizia. Nei giorni seguenti ci sono state azioni dimostrative che mettevano in discussione la legittimità delle elezioni e invitavano i militari a intervenire.

Benché non ci fossero le condizioni per questo, in particolare perché nessuna fazione borghese rilevante aveva questo obiettivo, il bolsonarismo ha mostrato i denti, nutrito dal suo stesso capo che ha impiegato due giorni per pronunciarsi sui risultati elettorali. Lo ha fatto ancora in modo dubbio, adducendo a “ingiustizie nel processo elettorale”, mentre allo stesso tempo dichiarava, attraverso i suoi alleati, che ci sarebbe stata una transizione al nuovo governo Lula.

Il punto è che dopo quattro anni di una gestione che attaccava i lavoratori, con una pessima politica sanitaria e con indici economici insoddisfacenti, molti si aspettavano che Bolsonaro e il bolsonarismo si sciogliessero per forza di cose. Questa era la scommessa del PT, che si aspettava di tornare al comando del governo come indiscusso salvatore di un paese in rovina. La politica però non è come la legge di gravità, che agisce indipendentemente dai soggetti politici, e l’elezione è stata molto più serrata di quanto molti avessero previsto, oltre alle reazioni della sua base, che si è dimostrata mobilitata e attiva.

Già al primo turno i settori allineati con l’attuale presidente, oltre a lui stesso, hanno ottenuto risultati importanti. Il sostegno ottenuto tra varie aree del Centrão e anche tra i militari è stato decisivo. A livello federale e dei governi statali, molti sono stati eletti perché sostenevano Bolsonaro. Al contrario, i partiti del cosiddetto “centrodestra” hanno ottenuto risultati catastrofici, compreso il PSDB, segno della sua decadenza e frammentazione. Parte della sua storica base elettorale è migrata verso Bolsonaro, vuoi perché lo considerava più coerente contro il PT, vuoi perché era l’unico che poteva impedire il ritorno al potere di Lula.

Tuttavia, questo non spiega tutto. Ci sono fattori strutturali importanti per comporre questo complesso puzzle dell’attuale regime politico brasiliano, e in particolare uno dei suoi volti più orribili: l’ascesa, la permanenza e l’istituzionalizzazione di un’estrema destra che non scomparirà dopo le elezioni.  Senza voler mettere insieme tutti i pezzi, ne presentiamo alcuni che sono rilevanti per una giusta interpretazione. In particolare, come si può comprendere un Paese che ha eletto il PT quattro volte di seguito, ha vissuto l’ascesa di un’estrema destra, e poi ha coronato il ritorno di Lula per il suo terzo mandato, anche dopo essere stato incarcerato e penalizzato dalla revoca dei diritti politici?

La fogna bolsonarista non si è animata per generazione spontanea, né è stata un fulmine a ciel sereno in una “società democratica”. La sua genesi è precedente, sviluppandosi e rafforzandosi durante i governi del PT e successivamente assumendo il suo proprio progetto a partire dal governo Bolsonaro.

L’ascesa di Bolsonaro

Dai primi anni ’90 al 2016 il regime politico brasiliano ha attraversato un periodo segnato dalle successioni tra PSDB e PT alla guida del paese.

Nel suo libro Lulismo in Crisi: Il rompicapo del periodo di Dilma (2011-2016), pubblicato nel 2018, André Singer afferma che Dilma ha cercato di promuovere una politica “sviluppista”. Ma la definizione è esagerata, in quanto le sue sono state misure timide e parziali che forse meriterebbero la versione più leggera di ” neo-sviluppismo”. Giusto per delineare la politica economica a cui ci riferiamo, riportiamo la definizione data dall’economista Plínio de Arruda Sampaio Jr., secondo cui era un’ideologia che cercava di “riconciliare gli aspetti “positivi” del neoliberismo – impegno incondizionato per la stabilità monetaria, l’austerità fiscale, il perseguimento della competitività internazionale, l’assenza di qualsiasi tipo di discriminazione nei confronti del capitale internazionale – con gli aspetti “positivi” del vecchio sviluppismo – impegno per la crescita economica, l’industrializzazione, il  ruolo regolatore dello Stato, la sensibilità sociale”.

Secondo l’argomentazione di Singer, a cominciare dalla svalutazione del cambio, dalla riduzione degli interessi, dalle esenzioni, dagli incentivi fiscali e da alcuni investimenti statali, Dilma ha proposto una politica economica che favorisse i settori industriali. Tuttavia è paradossale che questa frazione di classe che lei cercava di favorire, si sia sempre più allontanata, fino a diventare uno dei settori che hanno guidato il fronte politico del suo impeachment.

Cosa è successo, allora? Dilma è salita al governo dopo che il PIL era cresciuto del 7,5% e con un tasso di disoccupazione del 5,3%. Cinque anni dopo, all’impeachment, il PIL era crollato del 3,8% e la disoccupazione era tornata a due cifre. La sentenza economica fu anche politica e l’allora presidente arrivò al 70% di disapprovazione.

L’enorme crisi economica scoppiata nel 2008 ha profondamente modificato il panorama politico e sociale. Il brusco calo del saggio di profitto ha portato a una radicalizzazione delle frazioni borghesi internazionali, che hanno iniziato a sostenere varianti di estrema destra in vari paesi del mondo, seppur con importanti particolarità nazionali.

Tornando al Brasile, prima degli effetti politici, la crisi economica è stata anche un fattore determinante per l’emergere di nuovi fenomeni sociali, il più importante dei quali sono stati le giornate del giugno 2013 [forti proteste e mobilitazioni di masse povere delle periferie e di lavoratori metropolitani contro il governo di Dilma; 3-4 milioni di persone solo a Rio, con l’assalto al Parlamento; criminalizzate dal PT come golpiste, ndt].

La vulgata petista attribuisce a queste mobilitazioni un carattere meramente di destra, il “nido di serpente”, come affermano alcuni dei suoi ideologi. Tuttavia, questa teorizzazione serve a scopi politici ed è lontana dalla verità.

In primo luogo, ciò che questi ideologi non spiegano è perché, nel periodo precedente al 2013, ci siano state numerose rivolte operaie, guidate principalmente da neri e dai settori più precari della classe operaia. Soffermiamoci su due di essi.

 Nel 2011, il più grande cantiere del paese, situato a Jirau, nella città di Porto Velho in Rondônia, è andato in fiamme a causa dell’azione di 22.000 lavoratori che stavano costruendo la centrale idroelettrica nel complesso di Madeira. L’anno successivo, ancora nel caso della costruzione di una centrale idroelettrica, 15.000 operai nello stato del Pará, hanno riedito le medesime proteste. Rivolte che furono chiamate “selvagge”, poiché avvenute contro le burocrazie sindacali che cercavano di frenare il malcontento dei lavoratori che soffrivano di terribili condizioni di lavoro. Il governo ha perfino inviato la Forza di Sicurezza Nazionale per contenere gli incendi in mense, dormitori e contro i macchinari con protagonisti i lavoratori, che le forze di repressione locali non riuscivano a controllare.

Ciò che questi eventi mostrano è che il perseguimento di Dilma di una politica neo-sviluppista, che aveva tra i suoi pilastri la costruzione di opere infrastrutturali, come a Jirau e Belo Monte, ha colpito violentemente la sua stessa base, anche prima del 2013. L’espansione della esternalizzazione e la precarizzazione del lavoro furono pure un segno distintivo del suo programma economico, che ebbe come effetto collaterale l’emergere di lotte di classe che si espressero anche negli anni a venire, come lo storico sciopero degli spazzini a Rio de Janeiro nel 2014.

Questo era il contesto sociale, “dimenticato” dai teorici del PT, che dimostra che il 2013 non è caduto dal cielo. Quell’anno emersero legittime rivendicazioni sociali, anzitutto giovanili, che esprimevano lo scontro tra le aspettative di un graduale miglioramento della vita, che lo stesso Lulismo aveva incoraggiato, e i limiti di queste aspettative, cioè i limiti di una politica di conciliazione di classe, in un momento di crisi economica e con la politica del PT di mantenimento dei profitti capitalisti.

In seguito Dilma vince la sua seconda elezione promettendo che non avrebbe attaccato i lavoratori “nemmeno se la vacca avesse tossito”, contando anche sui voti di quei giovani del giugno che erano contro la politica neoliberista tucana (del PSDB, ndt). Alla fine la vacca ha tossito così tanto che al ministero delle Finanze è andato il neoliberista Joaquim Levy, lo stesso che, anni dopo, si unirà alla squadra di Paulo Guedes, alla guida del BNDES (Banca Nazionale di Sviluppo, ndt) durante il governo Bolsonaro. Questo fu un aspetto fondamentale per dare spazio alla destra, per capitalizzare l’insoddisfazione nei confronti del PT, facendo affidamento su Lava-Jato e sull’enorme campagna mediatica che l’ha sostenuta.

 Nonostante ciò, abbiamo avuto il più grande sciopero nazionale degli ultimi 30 anni, contro le riforme antioperaie di Temer nel 2017, il che mostra quanto sia falsa la spiegazione del PT che colpevolizza i lavoratori, secondo cui “il popolo è di destra”. Quell’anno fu nuovamente il PT che, a capo dei grandi sindacati, fece abortire il secondo sciopero nazionale e fece passare la Riforma del Lavoro, in nome di un accordo per ripristinare il finanziamento sindacale, che nemmeno c’è stato. Pure dopo tutto questo, nel 2018, Lula era il favorito alle elezioni e fu necessario metterlo in prigione e bandirlo dalla candidatura. Ebbene, anche in questo contesto il PT non ha mai puntato sulla mobilitazione dei lavoratori per invertire questa situazione, ma ha sperato in un cambiamento di posizione dell’STF (Tribunale Supremo Federale, ndt) per ripristinare i diritti politici di Lula.

Tutto questo doveva accadere prima che Bolsonaro vincesse le elezioni e il PT potesse dichiarare trionfante il suo “l’avevamo detto” riguardo al 2013, sbandierando la sua profezia sul carattere di destra di quelle manifestazioni popolari e ora per giustificare le alleanze sempre più a destra come “l’unica via percorribile di fronte alla destra del popolo” espressa nelle urne, nell’ambito di una coscienza di massa in cui la lotta di classe non appare all’orizzonte.

Oltre a Levy, diverse altre figure della fogna bolsonarista sono germogliate nel giardino dei governi di Lula e Dilma. Il generale Heleno (capo dell’esercito durante la dittatura militare e appartenente alla linea dura, Ministro della Sicurezza Istituzionale con Bolsonaro, comandò le truppe brasiliane ad Haiti nella missione “pugno di ferro”, ndt), Tarcísio de Freitas ( Ministro delle Infrastrutture con Bolsonaro, militare riservista del Partito Repubblicano, governatore dello stato di San Paolo dalle ultime elezioni, ndt), Marcelo Crivella (potente vescovo della Chiesa Universale, era il Ministro della Pesca nel governo di Dilma, ndt), Marco Feliciano (pastore evangelico del Partito Liberale, razzista e omofobo, ndt), che ha presieduto la Commissione per i Diritti Umani con l’appoggio del PT, per il quale ha fatto la campagna elettorale, accompagnato da Magno Malta (Liberale, pastore evangelico al centro di numerosi scandali per corruzione, ndt), Ciro Nogueira (Partito Progressista, investigato nell’indagine di Lava Jato per organizzazione criminale e traffico di bustarelle nel caso Petrobras, ndt), il potente ministro della Casa Civile di Bolsonaro, era con Haddad nel 2018. Tutto questo arco di alleanze, che sono stati elementi chiave per la campagna di Bolsonaro, si sono fatti i muscoli ed hanno acquisito potere politico prima del suo arrivo al potere.

Molti quando hanno visto una finestra di opportunità, si sono trasferiti all’opposizione del PT e hanno fatto parte di coloro che hanno guidato il colpo di stato. Ma Bolsonaro non è stato il leader di questo processo. Il piano iniziale di chi ha architettato il golpe istituzionale era quello di eleggere Alckmin nel 2018, dopo i buoni servizi resi da Michel Temer, al fine di inaugurare una nuova era di rappresentanti legittimi del neoliberismo. A tal fine, si sono dedicati alla diffusione dell’anti-PTismo e del lavajatismo, sotto l’ombrello dell’STF (Tribunale Supremo Federale, ndt), che ha esercitato il massimo arbitrio per garantire che non ci sarebbe stato un nuovo governo PT. Non fosse stato per l’azione mostruosa della magistratura brasiliana, la storia sarebbe stata diversa. L’intera operazione ha ricevuto l’intimo sostegno dell’imperialismo statunitense, compreso il governo del Partito Democratico, addestrando Sérgio Moro e i suoi avvocati, cercando di influenzare diversi paesi dell’America Latina perché instaurassero governi a difesa di una politica economica di attacchi al proletariato e di devastazione dei diritti sociali.

Tuttavia, non avevano presente la lezione di Clausewitz secondo cui i piani di guerra non sono mai identici alla guerra stessa.

Chi meglio ha incarnato questa radicalizzazione borghese è stato il grottesco Bolsonaro e non l’insipido Geraldo Alckmin. Lo stregone non controllava più la magia che aveva prodotto, e nonostante i rimpianti, la borghesia brasiliana, quasi del tutto unitaria, elesse il capitano che qualche anno prima aveva elogiato il sanguinario torturatore di Dilma Brilhante Ustra durante il voto sull’impeachment.

Dunque, il paradosso non spiegato da André Singer è in realtà l’affermazione della scelta di un progetto economico molto più violento di quello che Dilma avrebbe potuto applicare. L’autrice attribuisce un’importanza eccessiva alla politica erratica di Dilma, sottovalutando gli spostamenti di classe prodotti dalla crisi capitalista internazionale, lo scontro tra i suoi piani economici e la sua base sociale e, in particolare, l’esaurimento della politica di conciliazione dovuto alle nuove condizioni economiche. Accompagnando questo movimento, la FIESP (Federazione dell’Industria dello stato di San Paolo, ndt) e gli industriali brasiliani preferirebbero la fine del CLT (Testo Unico sul Lavoro, regola tutti i rapporti di lavoro, emanato da Getúlio Vargas nel 1943, ndt), l’esternalizzazione illimitata, la riforma della previdenza sociale, il tetto di spesa e molti altri attacchi. Ancora una volta, l’illusione dello sviluppo in un paese come il Brasile è scomparsa come neve al sole e l’estrema destra ha presentato le sue credenziali per il servizio che la borghesia voleva.

Agribusiness

Per anni Bolsonaro è rimasto un deputato di basso rango con scarsa rilevanza politica. La sua base politica era a Rio de Janeiro, appoggiato da settori della polizia e delle milizie armate che rappresentavano uno strato ‘lumpen-militare’ con operazioni localizzate in alcune regioni. Elevandosi a rappresentante dell’anti-PTismo nel 2018, è stato abbracciato, almeno momentaneamente, da settori del capitale di maggior rilevanza e ha ampliato il suo sostegno di classe. Anche se una parte di esso – la frazione maggioritaria del grande capitale finanziario – si è recentemente spostata sulla coppia Lula-Alckmin, una parte resta a suo sostegno. Spicca l’azione politica di ampie porzioni dell’agribusiness nella campagna di Bolsonaro. Tra i 50 maggiori donatori della campagna di Bolsonaro, ben 33 provengono dall’agribusiness.

Uno studio condotto da Esalq-USP insieme a Cepea mostra la forza che questo segmento sta acquisendo. Considerando l’intera filiera, cioè sommando input agricoli, produzione primaria, agroalimentare e servizi agricoli, l’agroalimentare brasiliano dà lavoro a 19 milioni di persone; incluse la produzione e l’agricoltura familiare, che da sola dà lavoro a 11,5 milioni di persone. Questo settore assorbe quindi quasi 1 lavoratore brasiliano su 3.

Secondo l’Indagine Nazionale Campionaria sulle Famiglie (PNAD), nel 2015 il 32,3% (30,5 milioni) del totale di 94,4 milioni di lavoratori brasiliani era impiegato nell’agribusiness. Di questi, 13 milioni (42,7%) svolgevano attività agricole, 6,43 milioni (21,1%) nell’agro-commercio, 6,4 milioni (21%) nei servizi agricoli e 4,64 (15,2%) nell’agroindustria. Un’enorme capillarità per un settore che si espande in molteplici ramificazioni dell’agribusiness.

Negli ultimi anni questo settore ha acquisito sempre più peso nella produzione nazionale. Nel 2021 la somma di beni e servizi generati dall’agribusiness ha raggiunto il 27,4% del PIL brasiliano.

L’ascesa del settore agroalimentare si è verificata durante i mandati del governo del PT

Approfittando del ciclo positivo delle commodities internazionali, Lula e Dilma hanno investito enormi risorse puntando su questo settore. Secondo lo stesso Lula Institute, i finanziamenti statali sono aumentati del 335% dal 2002 al 2016, il che ha generato un aumento del 98% della produzione di grano e una crescita del 34% della quota di PIL dovuta all’agribusiness. Sono gli anni in cui l’agroalimentare cresce in modo più che proporzionale, acquisendo un ruolo importante anche all’interno del mondo politico brasiliano.

Oltre alla sua importanza economica, questo settore ha le maggiori ‘bancadas’ alla Camera e al Senato. Le sue confederazioni sono potenti, articolate e con una decisa attività politica. Inoltre controllano giornali, radio e altri mezzi di comunicazione in innumerevoli municipi del paese. L’influenza economica è anche politica e culturale.

Pur con tutti i vantaggi dei governi del PT, questo settore ha visto in Bolsonaro il veicolo di un progetto di società più confacente ai propri interessi. Da qui la sua enfasi sulle armi, la difesa della proprietà privata, gli attacchi al MST (Movimento dei Senza Terra), alle popolazioni indigene e ai quilombolas (discendenti dei neri fuggiti dalla schiavitù che si costituivano in comunità= quilombo, ndt), la deregolamentazione ambientale e lo sfruttamento indiscriminato delle riserve ambientali.

Un programma ultra-reazionario che suona come musica per le orecchie di gran parte dell’agribusiness e ha sedotto anche garimpeiros (cercatori d’oro e di pietre preziose, ndt), taglialegna e operatori in tutti i settori estrattivi, legali e illegali.

Ma come ha fatto nei suoi precedenti mandati, anche Lula non mancherà di offrire risorse sostanziali all’agribusiness, cercando di riallacciare i rapporti con chi si era schierato con Bolsonaro; già in campagna elettorale ha stretto alleanza con alcuni suoi rappresentanti come Simone Tebet e Katia Abreu.

I militari

Con la ‘transizione democratica’ seguita alla dittatura l’azione politica dei militari e il loro progetto di società sono rimasti in uno stato di latenza. I militari non hanno cessato di essere un soggetto politico, ma hanno agito dietro le quinte del regime. La messa in discussione della dittatura, avviata dalla più grande ascesa operaia nella storia del paese, non ha concesso loro spazi per essere protagonisti della politica brasiliana.

È importante sottolineare che la conservazione dell’apparato militare dopo la dittatura è stata possibile grazie alla deviazione e al tradimento dei dirigenti del movimento operaio durante questa importante crescita di scioperi e mobilitazioni avvenuta dal 1978 al 1981. Con Lula a capo dei sindacati metalmeccanici, insieme a diversi altri settori che fondarono il PT nel 1981, la rivolta operaia fu sconfitta da una dirigenza che si opponeva allo slogan “Abbasso la dittatura” e cercava di contenere tutta la radicalizzazione che si esprimeva in quel momento.

Il ritorno alla democrazia, che ha preservato torturatori e generali, ha tuttavia prodotto l’effetto di togliere i militari dall’arena pubblica della contesa politica, pur conservando la loro forza politica.

In innumerevoli dichiarazioni, Lula ama ricordare che fu lui ad aumentare le risorse per le forze armate durante i suoi mandati.

I militari hanno acquisito maggior importanza politica nazionale e internazionale anche dopo l’occupazione militare di Haiti, quando il Brasile era a capo delle forze di sicurezza delle Nazioni Unite. Per reprimere le masse sfruttate e i lavoratori haitiani, l’esercito brasiliano utilizzò pratiche militari che sarebbero poi state applicate nelle favelas brasiliane, come avvenne nei preparativi per i Mondiali e le Olimpiadi che si svolsero nel Paese.

Questa politica di “pubblica sicurezza” contro la popolazione più povera è stata un marchio reazionario di tutta la gestione PT. Nel 2000, la popolazione carceraria brasiliana era di 230.000 persone, e dopo più di un decennio di amministrazioni del PT questo numero è balzato a 574.000.

La convivenza tra governo militare e governo del PT iniziò a cambiare dopo la seconda elezione di Dilma.  Importanti generali cominciarono a rilasciare interviste e a presentarsi in pubblico; dichiarazioni e azioni politiche di generali come Villas Boas, Etchegoyen e Mourão sono diventate più frequenti e riportate da gran parte dei media.

Con il governo Temer i militari sono tornati al protagonismo politico, occupando due posizioni che erano ricoperte da civili: il Ministero della Difesa e l’Ufficio per la Sicurezza Istituzionale. Manifestazioni politiche coordinate dall’Alto Comando, come il tweet dell’allora comandante dell’Esercito generale Villas Bôas, iniziarono a influenzare e vincolare direttamente altri poteri.

I generali e persino l’alto comando sono stati fondamentali per l’ascesa di Bolsonaro e hanno sostenuto il governo in diversi momenti critici. Tuttavia, vale la pena considerare che non c’è un’unità completa tra Alto Comando e Bolsonaro. Ci sono molte ragioni per questo, tra le quali l’influenza storica che l’imperialismo USA esercita sulle caserme brasiliane. In fondo, nei momenti più critici, l’ultima parola è sempre stata di Washington. Durante tutto il governo ci sono stati molti avvertimenti lanciati dalla Casa Bianca contro la linea politica di Bolsonaro. Rappresentanti della CIA e dell’esercito erano presenti nel paese, la Casa Bianca e il Senato hanno rilasciato note di ammonimento contro dichiarazioni golpiste che diffondevano sfiducia nel processo elettorale brasiliano. Ovviamente ciò è avvenuto non per un valore democratico, ma per la politica imperialista USA che ha promosso e sostenuto dittature militari in America Latina. Questa posizione si spiega anche con il non volere maggiore instabilità nel Paese più grande dell’America Latina e con la politica del Partito Democratico, che ha cercato di indebolire un alleato di Trump nel cono sud.

Negli ultimi anni le caserme hanno cominciato ad agire negli spazi dell’ordine pubblico e in una misura senza precedenti dalla costituente. Alcuni generali si sono fatti promotori e garanti, anche all’interno delle accademie e delle caserme militari, della candidatura di Bolsonaro, che ha ricambiato i favori resi dopo essere stato eletto, formando il governo con più militari dai tempi della dittatura.

I dati pubblicati dalla Federal Audit Court (TCU) mostrano che nel primo anno del governo Bolsonaro, 3.500 militari hanno ricoperto incarichi governativi. Nel 2020 il numero è più che raddoppiato, arrivando a 6.175. E i vantaggi e i privilegi non finiscono qui. Mentre centinaia di brasiliani si raccoglievano nelle ‘file di ossa’ (file di persone che cercano di sfamarsi rovistando tra gli scarti di cibo, n.d.t.) e tra l’immondizia, il Ministero della Difesa ha raddoppiato i pasti a base di filetto e scamone per le Forze Armate, secondo i dati della stessa TCU. La grottesca usurpazione di risorse pubbliche ebbe episodi ancora più stravaganti, come l’acquisto di Viagra e di protesi per il pene, oltre ai superstipendi per i generali. In più, le enormi risorse che ha ricevuto il Ministero della Difesa e l’esenzione dei militari dalla Riforma delle Pensioni sono altri esempi degli innumerevoli benefici che hanno ricevuto dal governo Bolsonaro.

E non intendono certo ritirarsi da queste posizioni conquistate. Il documento “Projeto de Nação” (Progetto di Nazione) presentato dai militari attraverso l’Istituto Villas Bôas è sintomatico. In quasi 100 pagine, il piano esprime il progetto di Paese dei generali, delineando obiettivi fino al 2035 e costellato di proposte privatistiche come la riscossione di una parte delle tasse delle università pubbliche e dei servizi del Sistema Sanitario Nazionale. Vogliono plasmare la struttura sociale, con una forza che intende imporsi come “potere moderatore”.

Questo progetto si basa su una grande forza militare e di polizia. Secondo il 15° Annuario Brasiliano di Pubblica Sicurezza, nel marzo 2021 il paese aveva uno staff di 555.000 poliziotti militari, civili e vigili del fuoco militari. Secondo i dati del Ministero della Difesa, le Forze Armate contavano nello stesso anno 356.000 soldati in servizio attivo: 215.000 nell’Esercito, 76.000 nella Marina e 65.000 nell’Aeronautica. Se alla “famiglia militare” si aggiungono riservisti e pensionati, si supera senza dubbio di gran lunga il milione di individui sparsi su tutto il territorio nazionale. La stragrande maggioranza sono sostenitori di Bolsonaro, con inclinazioni ideologiche che si collocano all’estrema destra della sua base sociale. Nei recenti blocchi stradali si può vedere la sintonia tra diversi settori della polizia e la sua base di estrema destra, con scene grottesche di collaborazione.

Nel regime politico brasiliano, i militari agiscono quindi come una forza bonapartista reazionaria che ha sostenuto il governo Bolsonaro e rimarrà attiva durante il governo Lula. L’enorme crisi di egemonia, l’assenza di forti partiti organici di opposizione al PT, e in particolare il fenomeno di ‘Lava-Jato’, che ha avuto una grande capacità distruttiva dell’assetto partitico brasiliano, produssero la nascita e la necessità di un “partito militare” a cui settori delle classi dominanti potevano fare affidamento per organizzare e promuovere i propri interessi.

Le chiese evangeliche

Un fattore di rilievo nelle elezioni è stata l’azione del segmento evangelico, in particolare dei neo-pentecostali. Ancora una volta hanno mostrato la loro forza politica, lasciando segni forti nel processo elettorale, in particolare nel sostegno a Bolsonaro. Lula ha cercato ancora una volta appoggio in questo settore, dichiarandosi contro il diritto all’aborto e diffondendo una ‘lettera al popolo evangelico’, che oggi è circa il 27% dell’elettorato.

Questa non è una novità nella politica del PT. Alla seconda elezione di Dilma troviamo ancora una lettera indirizzata agli stessi settori, in cui Dilma si impegnava a non legalizzare l’aborto. Inoltre, fu nei governi del PT che le Chiese avanzarono sviluppando il loro intreccio con lo Stato, come con l’accordo Brasile-Vaticano e le esenzioni fiscali affinché altre Chiese oltre alla cattolica potessero accrescere i loro enormi profitti.

Senza voler entrare nei dettagli di un tema complesso, segnaliamo alcuni fattori importanti per comprendere la successiva identificazione tra la maggioranza dei settori evangelici con il bolsonarismo. Le linee guida morali e dei costumi sono un ingrediente fondamentale per questa chimica. Il diritto all’aborto, la popolazione LGBTQIAP+, i dibattiti sulle questioni di genere e sulla sessualità nelle scuole sono solo alcuni degli argomenti indicati come priorità assoluta da questo pubblico. C’è però un’altra componente per spiegare il legame tra Bolsonaro e questo settore.

Le radici dell’odio viscerale contro le donne, i neri, le popolazioni indigene e LGBTQIAP+ sono da cercare nel forte movimento, soprattutto di donne, esploso a livello internazionale nell’ultimo decennio. Le rivendicazioni di uguaglianza, pur nell’ambito di un movimento interclassista, sono scese in piazza e hanno persino imposto linee guida e in qualche modo hanno costretto le aziende ad adeguarsi al “politicamente corretto”. Questa è stata una minaccia enorme per tutti i valori della famiglia tradizionale brasiliana. Quindi, possiamo dire che il bolsonarismo è stato anche una reazione a questo movimento femminista e a tutti i settori oppressi in difesa di una politica conservatrice di perpetuazione del sessismo, del razzismo e della LGBTfobia. Ed è stato anche una reazione all’istituzionalizzazione di legittime rivendicazioni democratiche promossa da varianti sociali liberali, che usano questi contenuti per approvare cambiamenti parziali e coprire le loro politiche economiche neoliberiste. Ciò che sta dietro è invece la determinazione di mantenere i settori oppressi al loro posto di oppressi in questa società capitalista.

Nella campagna elettorale di Bolsonaro l’interconnessione con la retorica religiosa era notevole. È difficile immaginare che le marce reazionarie del 7 settembre scorso potessero avere il peso che hanno avuto senza il sostegno organico delle chiese evangeliche. A suo modo, e in assenza di un proprio partito, Bolsonaro si è affidato anche alle strutture e al radicamento delle chiese per svolgere il suo ruolo.

Concluse le elezioni, molti di questi settori hanno cominciato a delocalizzarsi, per riprendere il loro rapporto con Lula. Il più emblematico è stato il pastore multimilionario Edir Macedo, capo della Chiesa Universale, del canale televisivo Record e rappresentato dal partito Repubblicano. In un video rivolto ai suoi fedeli, chiede loro di perdonare Lula e afferma che il risultato delle elezioni ha espresso la volontà di Dio.

Polarizzazione asimmetrica e prospettive del nuovo governo Lula-Alckmin

La vittoria della coppia Lula-Alckmin ha soddisfatto diversi settori internazionali e del capitale finanziario. Non è da poco. Oltre al neoliberista Alckmin, protagonista delle trattative per la transizione di governo, sono innumerevoli i nomi che piacciono a questi settori tra i nuovi occupanti di ministeri e segreterie. Non a caso il mercato finanziario ha reagito positivamente all’elezione di Lula, con un forte apprezzamento del Real e un rialzo della borsa. Da Biden a Xi Jinping, diversi leader non solo si sono congratulati per l’elezione di Lula, ma hanno anche ribadito il desiderio di cooperare e stabilire nuovi affari con il Brasile. È possibile che importanti frazioni borghesi, anche internazionali, possano offrire un maggior margine fiscale al nuovo governo, per evitare un rapido logoramento e nuove crisi politiche.

I negoziati della transizione segnano i primi importanti cambiamenti tra i blocchi politici costituiti prima delle elezioni. I rappresentanti delle grandi chiese evangeliche hanno emesso i primi segnali di rinegoziazione, insieme ad altri settori politici del blocco bolsonarista. Luciano Bivar, attuale presidente di União Brasil, che fu frutto della fusione di partiti che comprendeva l’ex PSL, il partito in cui Bolsonaro è stato eletto nel 2018, ha dichiarato che non si opporrà a Lula, e che “ la cosa più importante è il rafforzamento della democrazia”.

Nel discorso della vittoria in Av. Paulista, Lula ha sottolineato che questo non sarà un governo del PT, ma di tutti coloro che lo hanno sostenuto. Un messaggio chiaro, ben accolto dai media mainstream, che preannuncia nomi e partiti di destra e neoliberisti nel suo governo.

Ci sarà una maggiore unità della borghesia all’inizio del governo Lula, che mira ad una maggiore stabilizzazione del regime politico brasiliano. Allo stesso tempo, potrebbero aprirsi controversie più ampie tra l’ex blocco bolsonarista alla ricerca di chi sarà il capo dell’opposizione nei prossimi anni. Ci sarà una forza di estrema destra più istituzionalizzata e la sua base più radicalizzata, che ha avuto tra le sue espressioni più grottesche i saluti nazisti nello stato di Santa Catarina. Sono settori che hanno scopi diversi e altri in comune, ma che possono agire con metodi differenti e potrebbero generare maggiori contraddizioni perché il blocco bolsonarista rimanga coeso.

La magistratura continuerà ad agire come forza bonapartista, decisiva per l’investitura di Bolsonaro al governo, ora decisa a contenere queste espressioni più radicalizzate del bolsonarismo, ma anche determinata contro i lavoratori e i settori popolari combattivi. Ugualmente i militari non vorranno arretrare dalle posizioni conquistate, sia economiche che politiche e non avranno un rapporto senza attriti con il futuro governo Lula.

All’interno di questo regime, permeato di bonapartismo e dall’esistenza di una base sociale di estrema destra, i rapporti di forza tra i due poli è ancora da stabilire, ma già ci sono i primi segni.

Mentre nel 2018, dopo l’arresto di Lula e l’impossibilità di candidarsi alle elezioni, l’allora candidato del PT, Fernando Haddad, si era congratulato con Bolsonaro per la vittoria, Bolsonaro ha aspettato due giorni per parlare, lanciando segnali che mettevano in discussione le elezioni. Allo stesso tempo, la sua base più reazionaria ha avviato azioni di piazza diffuse, dimostrando di rimanere forte e attiva. Nel passato simmetrico, il PT non solo ha accettato l’impeachment di Dilma e l’incarcerazione di Lula, ma si è anche presentato come “opposizione educata” durante tutto il governo Bolsonaro, controllando e impedendo, attraverso i suoi sindacati, ogni possibilità di sviluppo dei processi di lotta.

Ancora una volta, di fronte al blocco delle strade dei bolsonaristi, la CUT ha diffuso una nota che invita i lavoratori ad affidarsi ad una risposta istituzionale e repubblicana, e Gleisi Hoffmann, presidente del PT, si è detta in disaccordo con i movimenti sociali che si sono organizzati per fronteggiare i blocchi, perché si trattava di una questione di stato.

E’ la polarizzazione asimmetrica che attraversa il regime politico brasiliano, con effetti disastrosi per la classe operaia. Mentre il bolsonarismo agisce per spingere più a destra il rapporto di forza, il PT agisce per prevenire e bloccare azioni di lotta e di organizzazione proletaria contro l’estrema destra. Come direbbe Clausewitz, le forze morali sono fattori che possono essere determinanti in un conflitto. Nel contesto brasiliano, il polo di estrema destra agisce per mantenerlo alto, anche di fronte alla sconfitta elettorale, mentre il PT agisce per contenere e demoralizzare ogni tentativo di mobilitazione operaia.

In questa situazione, la maggior parte delle organizzazioni di sinistra proseguono la loro completa diluizione lulista e si preparano a entrare e sostenere il nuovo governo, che sarà pieno di neoliberisti di tutti i colori. Valério Arcary (storico, tra i fondatori del PSTU, oggi confluito nella minoranza NOS, Nuova Organizzazione Socialista, del PSOL, Partito Socialismo e Libertà, ndt.) in un articolo intitolato “Una gigantesca vittoria politica”, oltre a chiamare la sinistra ad affidarsi al bonapartismo della magistratura per combattere l’estrema destra, senza minimamente accennare al fatto che dovrebbe essere la classe operaia a guidare questa lotta, sostiene che “la sfida politica strategica sarà la rottura con il neoliberismo e la ricerca della governabilità nella mobilitazione operaia e popolare”.

Pertanto, dichiara non solo che la sua politica sarà quella di garantire la governabilità di Lula-Alckmin, ma che la classe lavoratrice e i settori popolari dovranno essere garanti di quel governo. Senza mezzi termini i suoi obiettivi strategici si riducono alla rottura con il neoliberismo, un programma difeso da diversi settori dello stesso PT. Forse un “sogno rooseveltiano”, come auspicato da Singer, sarà il suo nuovo orizzonte strategico, in una rottura totale con il marxismo che non inizia oggi.

Al contrario, la sfida che si pone è quella di costruire un’alternativa di indipendenza di classe, che si proponga di affrontare l’estrema destra ma anche l’eredità delle riforme e delle privatizzazioni che saranno mantenute, in sostanza, dal nuovo governo Lula-Alckmin. Come tutta la storia recente del Paese ha dimostrato, la conciliazione di classe è servita ad aprire spazio ad attacchi sempre più duri, a rafforzare vari settori reazionari e a demoralizzare la lotta della classe lavoratrice. Senza una completa indipendenza da questo governo e dalla sua burocrazia sindacale, cercando di costruire una forza sociale che riesca ad imporre energie di mobilitazione che mettano in moto la forza della classe operaia, sostenuta dai movimenti popolari e sociali, le dinamiche che hanno portato Bolsonaro al potere potranno ricollocarsi, magari con altre figure e nuovi rappresentanti, di fronte ai nuovi sviluppi della crisi economica internazionale.

Esquerda Diário, 6 novembre 2022

di Danilo Paris, analista nazionale e professore di Sociologia

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