Da mesi certa stampa agita lo spauracchio di una Terza Intifada, che sarebbe funzionale a una repressione ancora più estesa e diretta da parte israeliana. La tensione a Gerusalemme Est e in Cisgiordania è alle stelle; l’ultimo episodio l’uccisione in una sinagoga di quattro ebrei da parte di due membri del FPLP è stato seguito dal ferimento di 35 palestinesi in un confronto fra manifestanti palestinesi e forze di sicurezza israeliane.
Da mesi certa stampa agita lo spauracchio di una Terza Intifada, che sarebbe funzionale a una repressione ancora più estesa e diretta da parte israeliana. La tensione a Gerusalemme Est e in Cisgiordania è alle stelle (Nota 1). Gerusalemme ribolle, dicono i testimoni (Al Jazeera 18 novembre) perché dall’estate è tutto uno stillicidio di provocazioni e aggressioni da parte del governo israeliano nei confronti della popolazione araba di Gerusalemme est. Fioccano multe per piccole irregolarità edilizie, che sono la norma anche fra gli abitanti israeliani; al minimo pretesto le auto dei palestinesi sono ritirate dalla circolazione; i commercianti e gli artigiani palestinesi ricevono visite quotidiane dell’ufficio di igiene e da altri membri della polizia e spesso sono costretti a chiudere senza validi motivi; i tributi urbani a Gerusalemme est sono aumentati arbitrariamente; dall’estate 1300 palestinesi sono agli arresti e il 40% sono minorenni, accusati di lanciare pietre. Le manifestazioni di protesta vengono aggredite con gas lacrimogeni, cannoni d’acqua e proiettili di gomma. L’altra faccia della medaglia è che nessun investimento viene fatto da Israele nei quartieri arabi: mancano 2000 aule nelle scuole, i trasporti pubblici funzionano a singhiozzo. Mancano presidi medici, l’ospedale non ha attrezzature adeguate, le poste non funzionano. La vita è resa più difficile dall’alta densità abitativa.
Ma le provocazioni che infiammano maggiormente gli animi riguardano la chiusura ai palestinesi al di sotto dei 50 anni, per ben 76 volte nel 2014, della “Spianata delle Moschee”, mentre membri della destra israeliana fanno sortite non autorizzare dagli accordi internazionali (dopo la Guerra dei Sei Giorni del ’67 Israele e Giordania siglarono un’intesa sullo status del ‘Monte del Tempio’ che impedisce agli ebrei andarvi a pregare); la destra israeliana oggi rivendicano il superamento questi accordi e che solo agli ebrei sia consentito di recarsi a pregare lì. La Moschea di Al Aqsa è stata chiusa da ultimo dall’8 ottobre e da allora non passa giorno che vi scoppino incidenti.
Si tratta di un “punto sensibile” per la psicologia palestinese, un atto simbolico, che funge da scintilla per accendere gli animi. Ad aggiungere legna al fuoco arrivano dichiarazioni estremamente aggressive di membri del governo, come quelle del ministro dell’economia Naftali Bennet, che chiede alla polizia di essere ancora più aggressiva o del ministro degli esteri Liebermann che chiede più risolutezza contro “i terroristi” (e va da sé che ogni palestinese è un terrorista). Dichiarazioni che si traducono il “licenza di uccidere” nella pratica quotidiana della polizia nei confronti degli arabi.
Ci si chiede legittimamente: perché adesso?
Molti avanzano l’ipotesi che la fragile coalizione di Netanyahu (che dispone di 20 parlamentari su 120) ha paura di essere “scavalcata” a destra dai gruppi oltranzisti e quindi alza per questo il tiro della repressione contro i Palestinesi. In una logica elettorale tutto può essere, ma sembra una motivazione un po’ debole rispetto alla situazione che si è andata a creare. La situazione, per intenderci, era la stessa l’anno scorso. L’atteggiamento della borghesia israeliana va visto invece in relazione a un fattore interno, cioè l’accelerazione del processo di creazione di insediamenti in Cisgiordania e la volontà di ebraicizzare Gerusalemme est, che non è obiettivo solo politico, ma anche economico, cioè ghiotte speculazioni edilizie in vista nella Città vecchia di Gerusalemme se si convincono gli arabi ad andarsene, ultima in ordine di tempo la decisione di costruire altri 500 appartamenti per soli ebrei per soddisfare la forte pressione dei giovani ebrei a trovare alloggi a prezzi accessibili. Ma va visto anche in relazione alla nuova situazione medio orientale di dissoluzione dei confini degli stati e di caos permanente, rispetto alla quale Israele è convinta di poter alzare il prezzo nei confronti della comunità internazionale: mentre il fenomeno ISIS assorbe tutte le attenzioni, il governo Netanyahu ritiene di poter muoversi in totale impunità, senza pagare dazio.
A parte gli insulsi richiami alla pace e alla trattativa distrattamente rivolti da Obama e Unione europea, le uniche reazioni internazionali degne di nota sono il ritiro, il 5 novembre, dell’ambasciatore in Israele da parte della Giordania (il paese che dal 1967 è responsabile sulla carta della gestione dei luoghi sacri di Gerusalemme) e le minacce del premier turco.
E’ un periodo di scarsi successi internazionali per l’ex profeta della rinascita ottomana Erdogan. Sconfitta in Tunisia alle urne Ennhada, nessuna possibilità di insediarsi come partner principale nell’Egitto di Al Sissi, del tutto estromesso dalla Libia, fallita per ora la speranza che Kobane si trasformasse in un cimitero, Erdogan torna a utilizzare il cavallo di mille battaglie e cioè la questione palestinese, questa volta in salsa religiosa (la difesa del diritto a pregare alla moschea Al Aqsa). Ma al di fuori della vuota retorica turca e delle mosse diplomatiche giordane l’interesse internazionale è piuttosto spento, anche da parte della sinistra nei vari paesi, mobilitatasi piuttosto a fianco dei curdi.
La dirigenza palestinese come sempre è divisa. Con scarso senso di opportunità, Fatah aveva organizzato a Gaza (dove la vita in questo momento non è particolarmente facile o serena) grandi, manifestazioni celebrative per l’anniversario della morte di Arafat, un modo per tornare in forze laddove erano stati scacciati nel 2007. Una serie di esplosioni (Figaro 7 novembre) hanno danneggiato auto e case di membri di Fatah. I quali hanno accusato Hamas che ha rispedito le accuse al mittente parlando di contrasti interni fra Abu Mazen e Dahlan (ex membro di Fatah che vive in esilio negli Emirati). Gli Emirati sono piuttosto nervosi riguardo all’offerta del Qatar di contribuire con un miliardo di $ alla ricostruzione di Gaza (a fronte di una analoga offerta di 212 milioni di $ degli Usa e 450 milioni di $ della UE). Il Qatar aveva agito in modo analogo in Libano dopo la guerra del 1996, ritagliandosi una sua significativa area di influenza fra i palestinesi locali.
Anche se Hamas sembra essersi riavvicinata, come del resto FLFP, all’Iran, questo non impedisce di accettare anche l’aiuto del Qatar. I cinquanta giorni di guerra hanno lasciato 108 mila persone senza casa, distrutto 26 scuole, danneggiato 350 officine e 17 mila ettari di terreno agricolo. L’unica centrale elettrica è fuori servizio. La tregua non ha lasciato il posto a un accordo che garantisca uno status quo duraturo; Israele continua ad ostacolare l’arrivo di cemento e materiali da costruzione col pretesto che possono servire a rimettere in sesto i tunnel; inoltre ha il diritto praticamente illimitato di accesso ai cantieri della ricostruzione.
Abbiamo già scritto in passato che anche l’attacco a Gaza di questa estate, con i suoi 2.100 palestinesi, pressoché tutti civili, ammazzati, non era solo un obiettivo in sé per Israele, perché il vero obiettivo, a detta degli osservatori più attenti erano la riannessione tout court di West Bank e Gerusalemme Est a Israele. E i fatti sopra descritti sembrano confermarlo.
Il fatto politico significativo per noi e per la sinistra in generale è che, nonostante la carneficina di Gaza, nonostante le provocazioni descritte, nonostante Israele abbia bellamente sabotato ogni soluzione politica, la terza Intifada non è scoppiata.
Un’intifada non scoppia a comando ovviamente, è il rusultato di un accumulo di malcontento, ma anche della fiducia che uno scontro frontale di piazza contro lo Stato possa dare dei frutti. In questi mesi i palestinesi di Cisgiordania e Gerusalemme si sono mossi, ma in ordine sparso e non nella misura del 2000 e con scopi principalmente difensivi. Anche la repressione israeliana non ha la stessa intensità del 2000 (va ricordato che nel primo mese della seconda Intifada morirono 122 palestinesi). I gruppi dirigenti palestinesi radicali, come Hamas, Jiad o FPLP sembrano troppo deboli e fra loro scollegati per coordinare e dare sbocco politico alla protesta. Viceversa Fatah, al di là delle dichiarazioni incendiarie di Abu Mazen in questi giorni, attenta a conservare la sua fetta di gestione delle risorse, ha messo in campo le sue forze di sicurezza in cooperazione con le forze israeliane per tenere quieta la Cisgiordania, anche se Hanan Ashrawi ha dichiarato che gli appelli alla calma, senza una cambio di atteggiamento degli israeliani, non funzioneranno per sempre. (New York Daily News November 13, 2014).
Nota 1: L’ultimo episodio l’uccisione in una sinagoga di cinque ebrei da parte di due membri del FPLP è stato seguito dal ferimento di 35 palestinesi in un confronto fra manifestanti palestinesi e forze di sicurezza israeliane. Una settimana fa c’era stata l’impiccagione di un autista di autobus palestinese Yusef Al Ramouni (i familiari accusano i coloni israeliani di averlo assassinato, la polizia dice che si è suicidato, ma il corpo è pieno di lividi), l’attacco alla sinagoga è avvenuto nella stessa zona, i due palestinesi responsabili sono stati uccisi sul posto e le loro case distrutte dall’esercito; in ottobre un attivista ebreo di destra Yehuda Glick viene ferito gravemente, il suo attentatore viene lasciato morire dissanguato; un palestinese di 22 anni Mohammed Jawabreh viene ucciso dalla polizia nel campo profughi di Hebron; un operaio palestinese di Nablus è ucciso a sangue freddo pur non essendo armato; un palestinese falcia con l’auto una decina di persone alla fermata dell’autobus (i palestinesi parlano di malore e perdita di controllo dell’auto, gli israeliani di attentato).