Controffensiva cinese sui dazi

PROTEZIONISMO, EUROPA, ASIA, WTO

REPUBBLICA Sab. 25/3/2006   BARBARA ARDÙ

Il ministro del Commercio: “Non vendiamo scarpe sottocosto
e non danneggiamo le aziende europee”

Pechino e i paesi asiatici ricorreranno
al WTO per frenare la Ue


Pechino
protesta contro i dazi UE sulle scarpe di CINA e VIETNAM.

I
produttori calzaturieri asiatici sono pronti a ricorrere contro i dazi.

L’associazione
dei calzaturieri italiani (ANCI) denuncia lo stillicidio di posti di lavoro nel
settore: da 110mila nel 2004 a 95-96mila; protesta che i dazi non colpiscano
alcune scarpe.

REPUBBLICA Sab. 25/3/2006   FEDERICO
RAMPINI

La pandemia protezionista

Dazi, leggi anti-Opa e computer cinesi: la pandemia del
protezionismo colpisce tutto l’Occidente

EUROPA e USA, dopo aver imposto la
globalizzazione, si scoprono protezioniste: proteggono settori poco competitivi
danneggiando i consumatori e gli altri settori.

L’ Europa su pressione del
governo italiano punisce con i dazi le scarpe prodotte in Cina e Vietnam.
Chirac abbandona platealmente un vertice europeo perché il presidente degli
industriali francesi osa parlare inglese; lo stesso Chirac esalta le barriere
innalzate da Parigi contro l’ Enel in difesa del "campione nazionale"
Suez.
IN AMERICA scoppia la polemica sul Dipartimento di Stato colpevole di aver
comprato computer cinesi. L’ intero Occidente, dopo aver esportato nel mondo il
modello dell’ economia di mercato, l’ ideologia capitalista e le regole
liberiste, ora è in preda a una psicosi da stato d’ assedio
.
La Francia è un condensato delle contraddizioni che affliggono i paesi ricchi.
Ha fatto il giro del mondo suscitando ilarità l’ immagine del presidente che
esce da un summit perché un suo connazionale commette l’ oltraggio di
esprimersi in inglese. Ma disertando quella riunione Chirac si è risparmiato un
imbarazzo: il leader degli imprenditori Sellière infatti ha criticato duramente
il protezionismo di Parigi, la teoria dei "campioni nazionali" con
cui è stata sbarrata la strada all’ Enel. Gli industriali transalpini
intuiscono il pericolo in cui si sta cacciando il loro paese. La politica
francese punta a costruire delle imprese leader nei settori investiti dalle
liberalizzazioni del mercato unico europeo: energia, telecomunicazioni,
trasporti. È una strategia aggressiva, da sistema-paese. Ma se per raggiungere
l’ obiettivo si calpestano le regole europee, si offendono i paesi vicini, il
risultato può essere un autogol
. La Francia ha già delle multinazionali
eccellenti che si sono imposte da sole nella competizione globale
, senza
aiuti né favoritismi di Stato, dalla grande distribuzione agli alberghi, dall’
industria alimentare alla farmaceutica. Questi veri campioni del made in
France sono i primi bersagli potenziali di rappresaglie
, se il nazionalismo
parigino eccita rancori e risentimenti all’ estero. Un’ altra contraddizione
esplosiva è sul terreno delle idee e dei valori. Da settimane il governo de
Villepin affronta un conflitto durissimo con gli studenti e i sindacati per una
legge che introduce flessibilità nei contratti di lavoro. Chi semina vento
raccoglie tempesta: con che razza di credibilità può difendere il liberismo
applicato ai lavoratori, questa classe dirigente francese che predica e pratica
il dirigismo statalista in ogni altro settore dell’ economia?

Su un punto però il discorso di Chirac a Bruxelles non fa una piega:
"Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, la Francia accoglie il
triplo degli investimenti esteri dell’ Italia: il 42% del nostro Pil contro il
13% in Italia". Colpiti e affondati. Non siamo noi a poter dare lezioni
di mercato
. Siamo il paese dove il ministro dell’ Economia Tremonti afferma
in campagna elettorale: "Chi vota per il centro-sinistra vota per la
Cina"
.
Accusando cioè i suoi avversari di non essere abbastanza protezionisti. È
per le pressioni del governo italiano che il commissario europeo Peter
Mandelson ha varato l’ ennesima misura protettiva, i dazi contro le scarpe
cinesi e vietnamite
. L’ Europa settentrionale ha tentato invano di opporsi
perché questa misura rende più care le scarpe e danneggia i consumatori. Ma
come sempre sono le piccole lobby agguerrite – in questo caso i calzaturieri –
a prevalere sull’ interesse generale. Colpisce la moderazione con cui ha
reagito Pechino. Il governo di Wen Jiabao, pur protestando contro i dazi, non
ha minacciato rappresaglie. Eppure la Cina è un grande mercato in espansione
per i prodotti europei, e una guerra delle ritorsioni potrebbe farci molto
male. Ma Pechino sa bene qual è il nostro tallone d’ Achille: il 60% delle
esportazioni made in China sono opera di multinazionali occidentali. Il nostro
protezionismo è una guerra intestina, i danni che crediamo di infliggere all’
avversario penalizzano invece altri pezzi del nostro sistema economico
. Un
pacato editoriale del quotidiano China Daily ci ammonisce: "I dazi contro
le scarpe cinesi non renderanno più competitivi i calzaturieri europei. Una
ristrutturazione industriale di quel settore sarebbe l’ opzione più
saggia".
La pandemia del protezionismo non infierisce solo sul Vecchio continente.
Una delegazione di senatori americani in visita ufficiale a Pechino minaccia
dazi punitivi del 27,5% se la Cina non rivaluta robustamente la sua moneta (il
renmimbi) per rendere meno competitive le sue esportazioni. Pechino, denunciano
i senatori Usa, ha un attivo commerciale record con gli Stati Uniti: 200
miliardi di dollari all’ anno. Dimenticano che la banca centrale cinese
reinveste quell’ attivo in Buoni del Tesoro Usa
, finanziando la
dissipatezza dell’ Amministrazione Bush e lo spensierato consumismo delle
famiglie americane indebitate. Con 800 miliardi di riserve valutarie in
dollari, Pechino è il creditore di ultima istanza degli Stati Uniti
.
Commenta Stephen Roach, chief economist della Morgan Stanley: "In un’
epoca in cui l’ America è più dipendente che mai dai capitali esteri, imporre
dei dazi sulla Cina che è il principale fornitore sia di merci che di credito,
è un suicidio economico".
A Washington il Dipartimento di Stato finisce sotto accusa perché ha deciso
di equipaggiare i suoi uffici con 15.000 computer cinesi della marca Lenovo
.
Ma chi solleva lo "scandalo", denunciando questa vicenda come un
grave pericolo per la sicurezza nazionale, trascura un particolare. Quei
computer sono progettati e prodotti a Raleigh nella North Carolina, in una
fabbrica ex-Ibm
. La cinese Lenovo infatti due anni fa ha acquistato l’
intera divisione personal computer della Ibm. Per respingere questa
"invasione" bisognerà espellere la North Carolina dagli Stati Uniti?

La cultura protezionista dilaga nelle politiche dell’ immigrazione.
Se una parte della società europea si sente minacciata nella propria identità
dall’ immigrazione islamica, perfino in America sta cambiando il vento
. Le
conseguenze dell’ 11 settembre sulle concessioni dei visti hanno già rallentato
il flusso di cervelli stranieri nelle università e nell’ industria americana.
Ora con l’ avvicinarsi delle elezioni di mid-term si arroventa il dibattito
sui clandestini. Un pezzo di America sogna di allargare le barriere già
costruite in alcuni punti di frontiera tra California e Messico, fino a
costruire un Grande Muro dal Pacifico all’ Atlantico
.
In tutto l’Occidente, ogni paese sembra preda di paure angosciose.
Ognuno si aggrappa ai propri simboli nazionalisti e sogna di chiudersi in
difesa. Non siamo più portatori di un progetto universale, né di un’ idea
generale delle regole con cui governare la globalizzazione. Siamo stati noi a
volere l’ apertura mondiale dei commerci, spesso lottando contro le resistenze
dei paesi emergenti che temevano di essere "colonizzati". Oggi il
nostro protezionismo ci danneggia due volte: sul terreno economico, perché
sprechiamo risorse preziose difendendo attività condannate, invece di investire
nei settori del futuro, nella scienza, nell’ istruzione; sul terreno politico e
ideale, perché stiamo distruggendo la nostra credibilità verso il resto del
mondo
.
Al tempo stesso si scopre che in Italia dilaga lo studio della lingua araba. In
Inghilterra si impara il cinese dalla prima elementare; in America proliferano
gli Istituti Confucio per l’ insegnamento del mandarino. Le aziende italiane a
Pechino e Shanghai sono subissate di curriculum vitae di giovani laureati che
vogliono lavorare in Estremo Oriente. Mentre una parte di noi è paralizzata
dalla paura, un’ altra parte accetta la sfida ed è pronta a misurarsi con la
nuova frontiera
.

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