Dopo 8 anni di insurrezione, guerra civile e imperialista in Siria, con più di mezzo milione di morti e 6 milioni di rifugiati all’estero in gran parte ammassati negli stati limitrofi e altri milioni di sfollati, gran parte del paese ridotta in macerie, mancava l’invasione dell’esercito turco dell’unica isola di relativo autogoverno democratico multietnico (anche se a predominanza curda) e di dignità della condizione femminile, il Rojava.
L’obiettivo di questa terza campagna di Siria da parte di Erdogan (dopo lo Scudo dell’Eufrate nel 2016 e il Ramo d’ulivo nel 2018, la Sorgente di pace (naturalmente la guerra si fa sempre per la pace!) è duplice: proseguire oltre confine la politica della terra bruciata condotta contro la popolazione curda del Sudest dello Stato turco, e liberarsi di una parte dei 3,6 milioni di profughi siriani rifugiati in Turchia per farne una massa-cuscinetto contro la popolazione curda che sarà ricacciata oltre la fascia di sicurezza di 32 km lungo il confine. Due piccioni con una fava. L’offensiva potrebbe preparare anche un piano di espansione più ampio, con mire verso le aree petrolifere irachene con presenza turcomanna di Mosul e Kirkuk.
Di fronte all’avviso che l’esercito turco sarebbe avanzato comunque, non volendo il conflitto militare con la Turchia, Trump ha abbandonato al loro destino i curdi, che per 5 anni in cambio della protezione USA avevano fatto da fanteria agli americani, strappando all’ISIS circa un terzo del territorio siriano – a est dell’Eufrate – con rada popolazione (araba) ma ricco di petrolio, ponendolo sotto la propria amministrazione.
Attaccati dal secondo esercito della NATO, specializzato nel mettere a ferro e fuoco villaggi e città curde, con oltre 300 mila curdi costretti a fuggire, ai capi del Rojava non è restato che piegarsi allo storico oppressore Assad, accettando di fatto la fine della propria autonomia regionale in cambio della sua “protezione”. Ritirando le sue truppe dai territori curdi nel 2011 per reprimere la ribellione, Assad aveva calcolato che i curdi, schiacciati tra Turchia e gli arabi, divisi dai curdi iracheni, sarebbero alla fine tornati sotto il suo controllo. La tregua concordata il 17 ottobre tra USA e Turchia prevede, oltre al ritiro dell’esercito curdo da un settore (circa un quarto) della “fascia di sicurezza” fissata dai turchi, il loro disarmo dalle armi pesanti, e lo smantellamento delle installazioni di difesa. A Sochi Erdogan e Putin hanno concordato pattugliamenti russo-turchi sulla restante parte (oltre 300 km) della “fascia di sicurezza”, e l’evacuazione delle forze YPG anche da Manbij.
Se la Rojava al suo nascere è stata il risultato dell’autonoma determinazione dei curdi, nella forma del “confederalismo democratico”, il suo allargamento – strappato alle forze dell’ISIS – è stato il risultato di una conquista militare sotto la copertura dei bombardieri USA, non di un sollevamento popolare. Nelle province arabe conquistate con feroci bombardamenti (Raqqa con 3.450 raid[1], Tabqa, Deir Ez-Zor) e annesse al Rojava ora le forze curde hanno “invitato” l’occupazione da parte dell’esercito di Assad…
Il confronto geopolitico vede l’uno di fronte all’altro due eserciti, quello turco (che già controlla il Nordovest della Siria, da Idlib ad Afrin ad Azaz) e quello del regime siriano puntellato dai russi, i quali a loro volta hanno occupato le posizioni abbandonate dagli americani, anche se rimane conteso il controllo sugli impianti petroliferi nei quali i russi avevano investito prima della guerra. I russi intendono evitare uno scontro che potrebbe minare il rapporto con Erdogan, che con l’acquisto dei missili russi S 400 ha fatto della Turchia la spina nel fianco della NATO. È prevedibile che il prezzo di un compromesso mediato da Putin tra i massacratori Erdogan e Assad sarà, oltre alla cessione ad Assad dei territori arabi a Est dell’Eufrate, l’integrazione delle forze armate curdo-arabe SDF nell’esercito siriano, sottraendole al controllo dell’YPG (forze di autodifesa controllate dal partito PYD, collegato con il PKK turco), la fine dell’autonomia amministrativa curda e la riapplicazione dell’accordo di Adana, ossia il taglio di ogni supporto al PKK. Il prezzo per la Turchia sarebbe l’abbandono dei ribelli concentrati nella provincia di Idlib sotto protezione turca, e l’ingresso dell’esercito di Assad.
Erdogan ha infatti riesumato l’Accordo di Adana del 1998, nel quale la Siria di Assad padre si impegnava con la Turchia di Demirel a impedire ogni supporto al PKK dal territorio siriano, sciolse partiti e organizzazioni curde, e chiuse le basi del PKK, espellendo Oçalan (ciò che portò al suo arresto con la complicità del governo italiano). Il suo mancato rispetto è stato citato da Erdogan quale base di legittimazione dell’aggressione; la sua ri-applicazione, quindi la messa sotto stretto controllo del partito PYD, collegato con il PKK e lo scioglimento delle sue milizie YPG sono l’esito probabile.
Non saremo noi a giudicare i capi del Rojava per essersi appoggiati prima agli americani, e ora ad Assad, per evitare il massacro della popolazione curda, come avvenuto in tutte le altre città arabe che si sono ribellate. È tuttavia l’ennesima prova che all’ombra dell’imperialismo, e senza combattere il capitalismo non si può costruire una società di liberi ed eguali. Il Rojava, con il suo “con federalismo democratico” a base municipale, ha rappresentato un’isola progressista nel mare della reazione delle classi possidenti del Medio Oriente e delle potenze regionali e imperialiste che vi intervengono. Ma dato il relativamente basso livello di sviluppo economico (economia prevalentemente agricola, con prevalenza di piccole aziende familiari e cooperative) la divisione della società in borghesia e proletariato è ancora agli inizi e non vi è una forte presenza di classe operaia. A queste condizioni si adattano le teorie libertarie, cooperativistiche e di confederalismo democratico abbracciate negli ultimi anni dal leader del PKK in prigione Oçalan, mentre non c’è stata una spinta operaia alla socializzazione dei mezzi di produzione, come testimonia la Costituzione del Rojava che, contrariamente all’ideologia del confederalismo democratico, garantisce la proprietà privata – e quindi la divisione della società in classi con tutto ciò che comporta. Se non possiamo pretendere che nelle condizioni in cui si trovano i curdi del Rojava realizzino il socialismo, neanche possiamo fare della loro società un modello per le società capitalistiche avanzate, anche se è notevole la parità di diritti delle donne, armi in pugno, e la convivenza di diverse etnie e confessioni religiose.
Diversa è la condizione dei curdi di Turchia, soprattutto di quelli espropriati della terra e divenuti lo strato inferiore e più sfruttato del proletariato turco nelle fabbriche e nei servizi di Izmir, Istanbul, Bursa ecc. Come diversa ancora è la situazione nel Kurdistan iracheno, dove il proletariato generato dalla repressione di Saddam prima e da un forte sviluppo capitalistico poi, ha manifestato nelle città contro il governo regionale e centrale – anche se non si è unito alle forti proteste di queste settimane nell’Iraq centrale e meridionale, represse da polizia e bande filogovernative con più di 150 morti. Non a caso la borghesia curdo-irachena è alleata della Turchia, con cui fa affari, e ha osteggiato la costituzione del Rojava, dove appoggia, insieme alla Turchia, il Consiglio Nazionale Curdo, che si è opposto alla costituzione della Federazione della Siria Settentrionale – Rojava ed è ostile a SDF e a PYD-YPG. Gli interessi delle frazioni borghesi prevalgono sull’unità “nazionale” curda. Il proletariato curdo deve collegarsi con i proletari arabi e turchi della regione, non accodarsi alla borghesia curda.
Fa riflettere la quasi totale assenza di proteste internazionali contro i massacri di più di mezzo milione di siriani durante 8 anni, effettuati dalle truppe e dai torturatori di Assad, dai bombardamenti russi, americani, francesi, inglesi, turchi, dalle milizie “islamiche” sponsorizzate dai vari Stati della regione, dagli USA e dagli imperialismi europei, e il disinteresse per i 6 milioni di rifugiati che hanno abbandonato le loro città e villaggi per salvare la vita e ora vivono come paria, senza cittadinanza e lavorando privi di diritti, in campi della Turchia (da 3 a 4 milioni), del Libano (tra 1 e 1,5 milioni), Giordania (600 mila) oltre che in Germania. Sono da aggiungere oltre 5 milioni di sfollati – in totale metà della popolazione siriana sradicata. L’Europa ha pagato 6 miliardi alla Turchia per tenerli confinati nel suo territorio: l’indignazione e la protesta deve essere innanzitutto contro i paesi europei che abbandonano le vittime della guerra nelle mani di Erdogan, non contro Erdogan che minaccia di lasciarli partire verso l’Europa! Il fatto che nonostante i grandi disagi e sofferenze in terra straniera e in Siria, anche dopo la “pacificazione” di gran parte del territorio siriano da parte delle truppe di Assad pochi siano ritornati ai luoghi di origine è indicativo del fatto che prevale il terrore per la repressione del regime, i cui protégé si sono impossessati dei beni dei profughi. Anch’essi sono un prodotto sociale della guerra, milioni di uomini e donne privati delle loro case e delle loro terre, proletarizzati, alla mercé dei profittatori dei paesi “ospitanti” e oggetto di attacchi xenofobi (come avvenuto a Istanbul).
Pesa l’assenza di un’internazionale proletaria che possa dare un punto di riferimento al proletariato del Medio Oriente. In assenza di un riferimento internazionale, o anche solo regionale, le rivolte iniziate nel 2011 in Medio Oriente e Nordafrica (Tunisia, Egitto, Libia, Siria) sono state represse, nel sangue e/o sono state riassorbite da regimi militari o movimenti islamici conservatori, in Libia sono state utilizzate dagli imperialismi occidentali per spaccare e dominare il paese in concorrenza tra loro, con un ruolo di primo piano dell’Italia. La ribellione popolare in Siria è stata repressa dal regime e dalle milizie sostenute dalle potenze imperialiste e dagli Stati rivali. Le petromonarchie e la Turchia hanno finanziato e sostenuto i movimenti islamisti, compresi i militanti scarcerati da Assad nel 2011-12 mentre incarcerava i ribelli laici e di sinistra. Nella provincia di Idlib sono stati deportati i ribelli, in gran parte aderenti a movimenti islamici sconfitti nelle altre regioni della Siria, e ora sotto la “protezione” turca, riuniti nella SNA (Syrian National Army). La Turchia ha installato milizie sotto il proprio controllo anche nell’enclave curda di Afrin. La (Dis)Unione Europea non ha trovato un accordo nemmeno nella condanna formale dell’invasione turca, ma ha solo adottato una mozione contro le trivellazioni turche al largo di Cipro…
Da un punto di vista geopolitico, dal ritiro americano di fronte alla media potenza turca emerge vincitore l’imperialismo russo, che – forte anche del controllo dei cieli condiviso con gli USA – dopo aver salvato Assad radendo al suolo intere città coi bombardamenti, si pone ora nella posizione di mediatore tra i due maggiori contendenti sul campo, il regime di Assad e la Turchia. Cantano vittoria i cantori del campo Russia-Assad, incuranti del fatto che è quello che ha compiuto di gran lunga i maggiori massacri di popolazioni civili e di prigionieri torturati nei sotterranei.
Il nostro compito principale come internazionalisti in Italia è denunciare il ruolo dell’imperialismo italiano nella regione, presente innanzitutto in Libano dove dirige la missione UNIFIL a garanzia di Israele, e mobilitarci per il blocco di ogni fornitura di armi e collaborazione militare con la Turchia, ma anche per il ritiro di tutte le truppe italiane all’estero e l’uscita dell’Italia dalla NATO. l’Italia oltre a vendere 180 milioni di armi alla Turchia nel solo 2018 e ad addestrare la polizia dei curdi anti-Rojava dell’Iraq, dal 2016 ha schierato 130 militari nell’ambito della missione NATO “Active Fence” per garantire la “protezione” della Turchia contro attacchi missilistici dal Rojava (sic!). L’italiana Agusta (gruppo Leonardo) ha inoltre costituito una joint venture per la produzione in Turchia degli elicotteri da combattimento T129, derivazione degli AW129 dell’Agusta. Allo stesso modo denunciamo il ruolo degli altri imperialismi europei, con la Gran Bretagna, Francia e Germania, che in vario modo hanno preso parte ai bombardamenti a fianco degli americani, e sostenuto settori delle FSA per assicurarsi un posto a tavola.
La nostra denuncia dell’aggressione della Turchia – che, si noti bene, è la continuazione oltre confine della repressione interna dei curdi, e ha l’appoggio di tutto il parlamento turco escluso il partito curdo HDP – va di pari passo con la denuncia del ruolo dell’imperialismo americano che ha cercato un posto al tavolo nella spartizione della Siria prima finanziando gruppi islamici, senza risultati, quindi utilizzando i curdi come fanteria per poi abbandonarli quando sono divenuti scomodi.
Combattiamo ogni posizione campista, che in nome della realpolitik abbandona il terreno di classe per appoggiare l’uno o l’altro campo imperialista. Denunciamo il ricatto e la nuova oppressione che Assad-Putin stanno concordando con Erdogan sulla popolazione curda di Siria, come su tutta la popolazione siriana di lingua araba e delle varie confessioni, che ha osato ribellarsi ed è stata costretta alla fuga tra distruzione e morte.
Occorre lavorare per ricostruire una internazionale proletaria capace di appoggiare e collegare tra loro le lotte proletarie e popolari nei paesi del Nordafrica (Algeria, Egitto, Sudan) e Medio Oriente (Iran, Iraq, ora anche in Libano) e quel poco che si muove sul terreno di classe e antirazzista, internazionalista in Europa, per impedire che ogni singolo movimento sia isolato e represso. Una soluzione per il martoriato Medio Oriente sarà possibile solo rovesciando le borghesie fameliche, sanguinarie e asservite agli imperialismi, realizzando piena libertà di espressione ed eguaglianza di diritti a tutte le etnie e fedi religiose. Una tale soluzione sarà possibile solo se organizzazioni proletarie e internazionaliste si sapranno porre alla testa dei movimenti di protesta nella regione, unificandoli.
Denunciamo l’aggressione della Turchia al Rojava;
Cessi ogni sostegno militare, economico, finanziario dell’Italia e della UE alla Turchia!
Diritto di autodeterminazione dei curdi, palestinesi e altre minoranze oppresse!
Diritto di ritorno dei profughi e degli sfollati siriani nelle loro case senza rappresaglie;
Accoglienza in Italia e in Europa di coloro che, in mancanza di garanzie, lasciano Turchia e Libano.
Ritiro di tutte le truppe italiane all’estero, fuori l’Italia dalla NATO!
Appoggiamo le proteste e le rivolte popolari nei paesi dell’area!
I compagni di Pagine Marxiste
redazione@paginemarxiste.it
[1] Si veda ad es. Amnesty International, https://raqqa.amnesty.org/story.html ; https://time.com/raqqa-ruins-isis-retreat/