CON QUALI SCARPE MARCIA L’IMPERIALISMO

Le calzature non sono mai state tanto a buon prezzo come lo sono ora, se un tempo per comperare un paio di scarpe bisognava lavorare almeno due giorni, oggi basta il salario di 2 ore.

Come mai?

Per avere un pellame al prezzo più basso gruppi calzaturieri, grandi o piccoli che siano, non si preoccupano delle condizioni di lavoro, lavoro minorile compreso, e neppure della tutela dell’ambiente. Non è previsto alcuna etichettatura che informi da quali animali e da quale paese provenga, e neppure quali prodotti chimici vengano usati per la sua produzione. Quello che conta è che sia a buon mercato!

Per la conciatura del pellame vengono usati prodotti chimici, in particolare il temuto Cromo VI, ritenuto fortemente allergenico, e che a lungo termine è cancerogeno e provoca mutazioni genetiche, oltre ad avere conseguenze per l’ambiente. Alla produzione di calzature lavorano anche minorenni, ad es., per tirare fuori le pelli dai cilindri di lavaggio e tintura, senza alcuna protezione. La maggior parte dei lavoratori del calzaturiero, adulti e minorenni, soffre di malattie respiratorie, polmonari e di infezioni dermatologiche. Molto frequenti sono gli incidenti di lavoro. Ecco un altro motivo oltre ai bassi costi di produzione per il quale i gruppi del calzaturiero preferiscono delocalizzare nei paesi dove la classe lavoratrice non è ancora riuscita a conquistare condizioni di lavoro più umane, e per fame è costretta a subire un supersfruttamento, se non vuole emigrare, molto spesso a rischio della vita e senza prospettive certe.

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Come accade in generale per l’industria tessile, negli ultimi anni anche il calzaturiero è stato per la gran parte delocalizzato nei paesi a basso salario, anche se la sede di grandi marchi rimane nei paesi imperialisti, dall’Europa, agli Stati Uniti. Oggi le scarpe, come pure la lavorazione della materia prima, il pellame, vengono fatte in Cina, India, Bangladesh, Taiwan, Vietnam. A questi paesi se ne sono aggiunti altri due, Indonesia e Etiopia.

In Indonesia il tessile, abbigliamento e calzature rappresenta il maggior settore manifatturiero, con circa 1,5 milioni di addetti nel 2012. Mentre nel 2013 le esportazioni di tessili dall’Indonesia sono diminuite, sono cresciute di oltre il 10% quelle di calzature.

Di fronte al rischio che gli aumenti del salario minimo[1] decretati da alcune amministrazioni distrettuali si generalizzino, e soprattutto che vengano applicati realmente sotto la spinta di crescenti lotte operaie nel settore, i 46 gruppi calzaturieri hanno minacciato di spostare la produzione in altri paesi con costi salariali inferiori, come Bangladesh, Birmania (Myanmar) o Vietnam. Ma finora, la maggior parte di essi si limita a delocalizzare le fabbriche lontano dai maggiori centri urbani, nelle province di Java Occidentale e Centrale, dove i salari sono ancora molto inferiori a quelli della capitale.

Dopo la delocalizzazione del calzaturiero dall’Europa all’Asia, ora si prefigura quella verso l’Africa.

Al primo posto l’Etiopia, che offre ai padroni del tessile-abbigliamento salari ancora più bassi e che da fornitrice di pellame grezzo diventerà esportatrice di calzature. Il paese offre un’enorme disponibilità di forza lavoro, dato che ha una popolazione che si aggira sui 99 milioni, per il 41,5% costituita da bambini inferiori ai 15 anni; il 55,8% di 15-65enni, mentre solo 3,3% ha oltre i 65 anni.

I lavoratori etiopi sono ritenuti disciplinati e capaci di sostenere pesanti carichi di lavoro, oltre che disposti ad accettare salari molto bassi, mediamente 1-2 $ per una giornata di oltre 10 ore di lavoro. Quando il rischio di fame è alto (l’Etiopia sta vivendo il peggior periodo di siccità da 60 anni, e secondo il commissario Ue per gli aiuti umanitari, Christos Stylianides, sono ormai più di 10 milioni le persone che hanno urgente bisogno di assistenza), gli sfruttatori hanno buon gioco!

Inoltre l’industria etiope del cuoio si basa su una millenaria tradizione artigianale (risale ai tempi dei faraoni) e più concretamente su un’attività di allevamento di consistenti dimensioni: 41 milioni di bovini (la più grande popolazione bovina in Africa e la decima al mondo), 25 milioni di ovini, 23 milioni di caprini.

Queste condizioni favorevoli agli investimenti capitalistici hanno attirato l’attenzione di vari paesi, dalla Turchia, da cui provengono in particolare macchinari e attrezzature per l’industria tessile e del pellame e i pezzi di ricambio, alla Cina.

Paesi come la Turchia e la Cina, dopo avere sviluppato la loro industria di beni di consumo come delocalizzazione a basso costo delle multinazionali e poi per il mercato interno, hanno sviluppato gruppi capitalistici che si proiettano a loro volta all’esterno, in cerca di manodopera ancora a minor prezzo e di nuovi mercati. L’Etiopia, anche a seguito di questi investimenti, è ora il paese a più forte crescita dell’Africa, e il quinto a livello mondiale. Nel 2014 la sua economia è cresciuta a doppia cifra (+10,3%) per l’undicesimo anno consecutivo, e in particolare è l’industria a far registrare un boom con +21,2%, mentre agricoltura e servizi crescono a ritmi “normali”. (Report “Ethiopia 2015”, ONU+Ocse)

Il regime di Erdogan reprime sanguinosamente lavoratori, curdi e oppositori in Turchia – in Africa sfrutta il lavoro di chi rischia la fame

Oggi operano in Etiopia 28 concerie e 16 calzaturifici.

Mentre i gruppi turchi e asiatici vogliono investire nella produzione a basso costo, quelli occidentali sono interessati soprattutto a merci competitive e alla vendita di tecniche di produzione.

Qualche esempio.

Il gruppo commerciale britannico Tesco, l’irlandese Primark e lo svedese Hennes & Mauritz (H&M) intendono aumentare gli acquisti di abbigliamento in Etiopia. Il fondo svedese statale Swedefund fornirà a H&M $8,6 milioni di capitale, per questo programma.

La Cina è presente in modo sostanziale nel settore scarpe e pellame, con il gruppo Hujin, partner di Calvin Klein, Coach e Luis Vuitton, in Etiopia dove ha piani per investimenti complessivi $2,2 miliardi con l’obiettivo di sfruttare 100mila lavoratori entro pochi anni.

Il gruppo britannico dell’abbigliamento in pelle, Pittards intende moltiplicare per quattro nei prossimi 5 anni il suo impegno in Etiopia; ora sta sfruttando 1200 lavoratori locali.

Ad inizio 2015 il presidente Erdogan, in visita l’Africa, ha incontrato l’omologo etiope, Mulatu Teshome Wirtu e il primo ministro Heilemariam Desalegn, con i quali ha firmato un accordo di cooperazione.

Erdogan ha chiesto all’Etiopia di chiudere le scuole legate a Gülen; il primo ministro ha dichiarato che è disposto a cooperare direttamente con il governo turco, escludendo la fazione gulenista ora duramente bastonata in patria nel tentato golpe. La Turchia intende portare in breve l’interscambio commerciale con Addis Abeba a $500 milioni.

Il gruppo turco tessile Saygin Dima è nato come joint venture del turco Saygin e del governo etiope ma nel 2014 quest’ultimo ha venduto tutta la sua quota al partner turco, che si pone l’obiettivo di raggiungere $100 milioni di fatturato annuo.

Il gruppo turco Akgün nel 2009 ha firmato un accordo con il governo etiope che gli consente di sviluppare una zona industriale internazionale di 600mila km.2 nella regione di Oromia. L’area si estenderà dai confini con il Sudan a quelli con la Somalia, e dai confini della regione Afar fino agli altipiani abissini. L’investimento complessivo previsto è di $10 miliardi con l’impiego/sfruttamento di 1 milione di lavoratori. Ma per ora la nuova zona industriale turco-etiope è in stallo, perché il cantiere iniziale si trova proprio nel bacino della diga di Legedadi, che rifornisce di acqua potabile 3 milioni di abitanti di Addis Abeba.

Akgün opera con diversi noti marchi europei, di Germania, Francia, Austria, Belgio, Italia, la sua rete si estende fino al Sud Corea.

Affari con gli OGM

Per il tessile, ci sono in Etiopia anche gli affari delle multinazionali legati alla produzione di cotone. Nel luglio 2014 i produttori di cotone hanno per la prima volta usato semi geneticamente modificati, per aumentare la produzione. Il cotone così prodotto viene usato nell’industria locale del tessile-abbigliamento.

I venditori di semi geneticamente modificati, come Dupont, Monsatno e Sygenta che controllano circa il 70% del mercato mondiale di semi, sperano che l’esempio etiope si espanda all’intera regione.

Il nostro auspicio come internazionalisti è invece che i lavoratori etiopi, e africani in generale, riescano ad organizzarsi e – come stanno facendo in Italia i lavoratori della logistica immigrati dall’area assieme a quelli italiani – a combattere il nemico di classe comune, la borghesia. Una classe che, dopo averli brutalmente aggrediti e massacrati con le guerre coloniali condotte dalla borghesia italiana dell’era fascista – senza tuttavia riuscire a attestarvisi nonostante la sua potenza militare – li sfrutta per produrre le scarpe da vendere nelle vetrine luccicanti delle metropoli, traendo lauti profitti che le consentono di mantenere la sua dittatura di classe, che sia nella forma del regime di Erdogan o in quella della democrazia alla Renzi.

[1] Nel 2014 il salario minimo è aumentato mediamente del 18% rispetto al 2013; a Jakarta del 44% (dati GTAI, Germany Trade&Invest)