Con il proletariato del Tibet e di tutta la Cina

scontri a Lhasa,Tibet
fonte:(STR/AFP/Getty Images) 15.03.08

Le fiamme delle barricate di Lhasa, con le decine di morti nella repressione; la fiaccola olimpica trionfalmente innalzata da Hu Jintao nella impeccabile coreografia della piazza del massacro di Tian Anmen…

Le reazioni si dividono: con la Cina o con il Dalai Lama?

Noi siamo contro il governo borghese della Cina e contro il pretume reazionario di Lhasa,

con il proletariato tibetano che rivendica migliori condizioni e parità di diritti, con il proletariato cinese ferocemente represso in ogni tentativo di autoorganizzazione.

Si può e si deve essere con i manifestanti di Lhasa senza avere simpatia alcuna per il Dalai Lama, ultimo rappresentante di una teocrazia feudale che schiavizzava i contadini tibetani; si può essere contro il Dalai Lama e le potenze che lo foraggiano (un appannaggio di $180.000 l’anno dagli USA, negli anni ’60) in funzione anticinese senza essere filocinesi, attratti dal giovanile ardore di quella borghesia rampante (che qualcuno ancora spaccia come “socialismo con caratteristiche cinesi”). La bussola dei comunisti è il criterio delle classi (non degli Stati), nel rispetto dei diritti delle nazionalità.

Anche se la scintilla è scoppiata dalle manganellate contro i monaci buddisti, la protesta di Lhasa è stata condotta da migliaia di proletari che si sentono cittadini di serie B nella loro terra. Dal 1951 ad oggi si sono contati 214 tentativi di manifestazioni indipendentiste o autonomiste, repressi dallo Stato cinese. La più sanguinosa è stata quella del 1989, con almeno 450 morti, parallela al massacro di migliaia di operai e studenti a Tian Anmen. E’ in quella repressione che Hu Jintao, capo del partito in Tibet, si conquista i primi galloni per un ruolo nazionale. Una repressione che in mezzo secolo ha fatto decine di migliaia di vittime (includendo coloro che non sono usciti vivi dai campi di detenzione), e forse centinaia di migliaia (includendo il Grande Balzo in Avanti) per imporre una oppressione nazionale non può essere definita “missione civilizzatrice”, nonostante lo sradicamento del feudalesimo. Chi lo fa, pratica lo stesso genere di apologia del capitalismo cui ci hanno resi avvezzi le potenze imperialiste.

cina:sciopero a Zibuo, provincia ShanDong 1.12.2007
(6000 operai hanno protestato con scioperi e manifestazioni.
Protestano per rivendicare l’aumento del salario contro l’aumento dei prezzi.
Hanno protestato anche contro l’azienda che in questi ultimi anni ha aumentato gli utili, lo stipendio dei dirigenti d’azienda è in rapporto 400:1 con quello di un operaio)

Certo, è stata abolita la servitù (ma solo nel 1959, dopo la fuga del Dalai Lama e il fallito golpe ordito dalla CIA), è caduta la mortalità infantile, è aumentata la scolarizzazione (ma resta un 40% di analfabeti), la donna non è più giuridicamente proprietà dell’uomo, sono state costruite ferrovie e strade… ma il salario dei tibetani (in gran parte relegati a lavori di manovalanza) è mediamente pari alla metà o un terzo di quello degli han immigrati, fatti arrivare in Tibet con inquadramento militare e sulla spinta di forti incentivi materiali, che occupano gran parte dei posti di lavoro, meglio remunerati, nelle imprese di Stato cinesi (nel 2003 il livello medio annuo dei salari per quadri e operai specializzati in Tibet era di 26.931 yuan, quasi il doppio della media della Cina di 14.040 yuan). La popolazione han (7,5 milioni) ha così sopravanzato quella tibetana, la cui emigrazione in altre province è stata spinta dall’esodo agricolo e dalla disoccupazione. Il proletariato han, cui in buona parte dei casi è stato imposto di trasferirsi in Tibet, e quello tibetano sono accomunati dall’estrema oppressione dello Stato che schiaccia con la violenza qualsiasi tentativo di auto-organizzazione dei lavoratori. Tuttavia le due comunità vivono separate, con i cinesi han in posizione avvantaggiata e in maggioranza schiacciante nelle principali città; la prevalenza di immigrati maschi a reddito alto a fronte della miseria locale ha diffuso la prostituzione. Lo sfruttamento rapace delle risorse forestali ad opera delle imprese cinesi ha dimezzato la superficie forestale e avviato processi di erosione che provocano alluvioni devastanti anche a valle, in India e Bangladesh; lo sfruttamento delle risorse minerarie ha provocato scempi e inquinamento, compreso l’aumento di tumori e malformazione nelle aree delle miniere d’uranio; il Tibet viene usato come pattumiera della Cina e del mondo (nel lago salato Kokonor vengono stoccate anche le scorie nucleari tedesche). Il divieto di avere più di un figlio viene imposto con la stessa violenza e tracotanza che nelle altre aree rurali della Cina, il bilinguismo non è accettato negli uffici pubblici.

Date queste condizioni la rabbia e la frustrazione dei proletari tibetani non hanno bisogno delle operazioni dei servizi stranieri per esplodere; se trovano nei monaci i principali interpreti è solo perché manca un’organizzazione comunista in grado di collegare le loro rivendicazioni nazionali-etniche a quelle che nascono dalla loro condizione di proletari, analoga a quella della gran massa del proletariato han delle altre province. Poco importa se il saccheggio di centinaia di negozi cinesi han e le aggressioni contro i cinesi siano esplosi spontaneamente o istigati dai clericali e/o da agenti stranieri, oppure da agenti infiltrati della polizia (come alcune testimonianze sostengono). Poco importa se la tempistica dell’operazione (l’anniversario della rivolta del 1959) sembra aver favorito la repressione e “normalizzazione” con centinaia di arresti prima che tutti i riflettori del mondo siano puntati su Pechino per i giochi olimpici. Chiunque abbia fatto scoccare la scintilla a Lhasa, la rivolta ha mostrato che il Tibet è una polveriera sociale, in cui una forma di oppressione nazionale si assomma all’oppressione di classe; compito dei comunisti è far sì che la lotta contro l’una si fonda con la lotta contro l’altra, che il proletariato tibetano trovi al proprio fianco quello cinese – che ha nel proprio Stato il medesimo oppressore e antagonista – e del mondo intero. Questo sarebbe vero anche se le potenze imperialiste, d’America, d’Europa o d’Asia utilizzassero spregiudicatamente la questione tibetana contro la Cina. Ma non è il caso, per ora.

Le maggiori potenze imperialiste, a partire dall’Italia, partecipano allo sfruttamento del proletariato cinese in alleanza con lo Stato cinese, con gli investimenti e l’interscambio, anche se ne sono rivali sul mercato mondiale. Non è perché il Dalai Lama è reazionario, ma per non guastare gli affari con la Cina che né Prodi né la maggior parte dei leader europei l’hanno voluto incontrare nel suo recente viaggio in Europa (neppure il Papa, che sta trattando sui vescovi con il governo cinese). E nessuno, neanche gli Stati Uniti di cui la Cina sta divenendo il maggior creditore, ha anche solo minacciato il boicottaggio delle Olimpiadi… Business is business.

Di fronte a questa santa olimpica alleanza delle borghesie (che non esclude guerre periferiche oggi e potrà lasciare il campo a guerre più generalizzate domani) il proletariato è privo di ogni parvenza di indipendenza di classe e di unione internazionalista. Senza di esse l’opposizione a un’oppressione nazionale diventa pedina nella contesa tra le potenze del capitale, e fattore di divisione all’interno del proletariato. Per i comunisti c’è molto lavoro da fare.

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