Con i dannati di Rosarno

2 mila e 80 anni fa su queste terre l’esercito di Spartaco, privo dei mezzi per collegarsi agli schiavi ribelli di Sicilia, preparava le sue ultime, disperate battaglie.

Negli anni Cinquanta del secolo scorso i braccianti della Piana di Gioia Tauro lottarono per migliori condizioni e per la terra. Gran parte di loro per migliorare la propria condizione fu poi costretta ad emigrare, al Nord, in Germania.

Da una quindicina d’anni altri migranti vengono chiamati nell’inverno a raccogliere le arance, spesso gli stessi che hanno raccolto i pomodori nell’estate in Campania e in Puglia, che hanno raccolto le olive nell’autunno – ma quest’anno tra quei neri raccoglitori si sono sentiti anche accenti bresciani e veneti, operai di fabbrica espulsi dalla crisi. Una migrazione nella migrazione, non la corsa all’oro del Klondike, ma per sopravvivere. 12-15 ore al giorno per 15-18 euro, raccontano le testimonianze. Un prezzo con cui si può sopravvivere solo se non si paga l’affitto di un’abitazione decente. Il sistema della moderna schiavitù agricola non prevede per la forza lavoro neppure le stalle riservate agli animali.In Puglia spesso, raccolti gli ultimi pomodori, i proprietari chiamano una polizia connivente per cacciare gli “abusivi” che bivaccano nei loro casolari, per non pagar loro neppure il misero salario nero promesso. A Rosarno hanno sparato su due di loro e sparso la voce che quattro erano morti, perché l’esasperazione esplodesse. Non si sa chi, non si sa perché hanno dato fuoco alle micce, non sappiamo se sia un caso, né quante misere paghe non verranno pagate grazie alla cacciata anticipata di migliaia di migranti.

La miccia ha acceso il fuoco della rabbia di migliaia di proletari sfruttati, maltrattati, malpagati, insultati, disprezzati, irrisi per il colore della loro pelle, per il loro italiano stentato, per la loro povertà.

La loro rabbia è la nostra, la loro lotta è la nostra come è la lotta di tutti gli sfruttati.

L’hanno voluta portare come una vampata nelle strade di coloro che hanno una casa, di coloro che con le loro arance si arricchiscono, l’hanno sfogata contro qualche oggetto e insegna dei possidenti, non hanno colpito persona alcuna – le cronache non riportano feriti tra gli autoctoni.

È mancato uno Spartaco che organizzasse la lotta con intelligenza, che la indirizzasse contro un padronato e un sistema di sfruttamento che sulla loro pelle si arricchisce e ricicla altrove i capitali, che trasformasse quella rabbia e quella compattezza in organizzazione e lotta per rivendicazioni sul salario, le condizioni lavorative e abitative, contro il pacchetto sicurezza che li criminalizza, per la difesa della propria dignità.

Possidenti e n’dragheta hanno avuto facile gioco a sobillare i cittadini per bene, a improvvisare un proprio Ku Klux Klan dei giustizieri, cercando di trasformare una lotta di classe in lotta razziale. Le “forze dell’ordine” hanno arrestato 200 malcapitati e stanno deportando altre centinaia di sfruttati in centri lontani, senza garanzie che dopo essere stati spremuti non siano espulsi. Ma siamo certi che lo Stato, che era finora rimasto a guardare, si guarderà bene dal lasciar mancare manodopera ricattabile ai proprietari.

Il ministro dell’Interno esclama: troppa tolleranza! Ci chiediamo se non mangi le arance italiane, raccolte dai clandestini che il suo “Pacchetto Sicurezza” ha reso delinquenti, sotto il vigile sguardo delle sue forze dell’ordine. Troppa tolleranza, ministro?

I nuovi braccianti stagionali sono la base di sfruttamento di una piramide sulla quale si arricchisce il proprietario fondiario, il caporale, il grossista (pare che nella Piana siano stati cacciati quelli che non sono collegati alle grandi famiglie), il supermercato e il fruttivendolo, in una catena che da pochi centesimi alla produzione arriva a 1-2 euro il chilogrammo per il consumatore. Chi suda e produce non riceve un ventesimo del valore prodotto.

Anche se avventizi, la loro concentrazione territoriale – spesso anche abitativa in queste indecenti ruderi-baraccopoli all’amianto – ne permette l’organizzazione e la lotta. Lotta che richiede di spezzare la repressione anche armata delle mafie padronali.

È su questa base che bisogna costruire l’unità tra il proletariato immigrato e quello italiano. Sarebbe questo il compito di un sindacato di classe, è questo il compito dei comunisti, di chi vuole combattere davvero razzismo e mafie. È la stessa lotta condotta negli ultimi mesi nei centri logistici da un proletariato a grande maggioranza immigrato contro le mafie del nord camuffate da cooperative, spesso con la connivenza dei confederali. Un bell’esempio è stato la lotta alla FIEGE di Brembio (LO), dove i lavoratori romeni, egiziani, marocchini, cingalesi con il sostegno dello SLAI Cobas hanno respinto licenziamenti e riduzioni di salario.

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