CINA
CORRIERE Mer. 10/5/2006
Fabio Cavalera
PECHINO – Diplomazia e spionaggio. Sorrisi e sgambetti.
Rivolte e banchetti. La «Pacific Connection» è l’ultimo capitolo – ma non il
meno importante – nell’agenda delle relazioni internazionali. La lontanissima
«galassia ai margini del mondo», la galassia dei paradisi turistici nel
Pacifico Occidentale e Meridionale, è il teatro di una battaglia di conquista –
ufficialmente si dice di cooperazione pacifica – che impegna la Cina su un
versante e coinvolge, su quello opposto, gli Stati Uniti con i loro alleati
dell’area. Taiwan in primissima fila.
Viene passato sotto silenzio questo risiko regionale eppure il controllo delle minuscole
Isole-Stato nel mezzo dell’Oceano, dei fantastici arcipelaghi, delle rotte che
li attraversano è un passaggio non nuovo ma oggi fondamentale del confronto
geopolitico su scala mondiale. Qui si incrociano i destini delle grandi potenze
e dei rispettivi governi amici. A Vanuatu, mille chilometri a Est
dell’Australia e duecentomila residenti, a Kiribati che è a cavallo della linea
di cambiamento di data, a Tonga e a Nauru, la più piccola repubblica
indipendente del pianeta con 21 chilometri quadrati di superficie, alle Isole
Salomone, a Fiji, alle Samoa Occidentali, alle Isole Marshall dove su un atollo
Pechino avrebbe installato un sistema elettronico per intercettare i movimenti
delle navi Usa in rada a Guam.
Paradisi della natura e del turismo. Ma territori che sono oggetto di una
forte offensiva diplomatica da parte cinese. L’obiettivo è evidente: Pechino
che già si propone come modello di sviluppo e di riferimento per il Sud-Est
asiatico ha messo gli occhi sulle rotte del Pacifico dove da decenni gli Stati
Uniti svolgono un ruolo di egemone presenza militare ed economica. Sono isole
che hanno una rilevanza strategica. Intanto perché si trovano nel mezzo delle
linee lungo le quali scorrono i traffici commerciali navali intercontinentali.
Poi perché sono, nel caso di Guam, base della flotta americana nonché punto di
partenza dei bombardieri Usa ad ampio raggio.
La diplomazia cinese è stata nell’ultimo anno protagonista di un gioco globale,
spregiudicato ma efficace. Nel senso che si è mossa per superare le
tensioni commerciali e per non fare precipitare le frizioni politiche con
l’Occidente, per proporsi nel ruolo di mediazione nella questione nucleare
aperta con Corea del Nord e Iran, per aprirsi strade di collaborazione con
l’Africa e con i Paesi islamici (la Cina è ormai il primo partner dell’Arabia
Saudita), per soppiantare gli Usa nell’interscambio con l’America del Sud, infine
al riparo da eccessive curiosità ma sempre in chiave strategica ha aperto la
«pratica» del Pacifico. Così negli ultimi mesi la politica del sorriso ha
mirato soprattutto a rafforzare l’immagine e la presenza di Pechino proprio nel
cuore di quella lontana «galassia ai margini del mondo».
Il premier Wen Jiabao in aprile è volato in Australia (dove si è accordato
per l’acquisto e la fornitura di uranio), in Nuova Zelanda, alle Fiji, oltre
che in Cambogia e in una settimana ha chiuso 60 accordi bilaterali. Un record
accompagnato dalla inaugurazione di un Forum permanente per lo sviluppo delle
relazioni tra la Cina e le isole del Pacifico. In questa sede il numero due
di Pechino ha dichiarato l’importanza dell’area e ha promesso investimenti
di 300 milioni di euro entro il 2007. Destinati a Vanuatu, Kiribati, alle
Marshall, a Fiji. Tanta pragmatica e realistica attenzione ha una
spiegazione ulteriore che va a completare il mosaico della questione taiwanese,
l’isola ribelle rivendicata dalla Cina come parte integrante e inalienabile
della sua storia e sovranità.
Taiwan ha aperto da tempo con le Isole-Stato del Pacifico – c’è chi sostiene
in nome e per conto di Washington – una linea di collaborazione commerciale e
politica. Ne è sortita una guerra diplomatica scatenata da Pechino. Senza
esclusione di colpi. Come testimonia la storia del 2004 di Vanuatu. L’allora
primo ministro, il conservatore Serge Vohor, apertamente favorevole a Taiwan,
si vide rovesciare dalla sera alla mattina. Lui, appena nominato premier
nel luglio, era arrivato al punto di avallare l’esposizione fuori da un albergo
di una bandiera di Taipei e di prendere poi a male parole l’ambasciatore cinese
che era accorso in Parlamento per protestare. A dicembre il primo ministro
fu cacciato da una rivolta popolare. Alla quale Pechino non fu affatto
estranea. Due mesi più tardi il governo di Vanuatu celebrò la riconciliazione
con la Cina e in un banchetto particolarmente ricco di cibarie in segno di
gratitudine al diplomatico di Pechino fu regalato un maiale vivo. Da quel
momento gli occhi della Cina sono rimasti incollati sulle galassie ai margini
del mondo.
Con un altro soggetto però che si sta muovendo proprio nella stessa
direzione. Nella «Pacific Connection» la Cina deve fare i conti anche con l’India,
l’altro gigante d’Asia.