Chi ha paura della rivolta in Kazakistan?

Mentre i carri armati russi marciano nelle città kazake, per schiacciare la rivolta in corso, a Washington come a Mosca, a Pechino come a Roma i custodi delle banche e delle borse sono in ansia.

Preoccupati per la sorte di centinaia di lavoratori esposti alla feroce repressione? Ansiosi di difendere i diritti umani?

Certo che no. Sono preoccupati per i listini del petrolio, per il prezzo del grano, per i loro affari miliardari in Kazakistan, che possono andare a buon fine solo grazie allo sfruttamento sistematico della forza lavoro kazaka (nota 1).

Con ipocrito stupore si scrive sui giornali e si dice nei telegiornali che è una rivolta inaspettata, che il paese è sempre stato pacifico. Un malcelato rimprovero al governo di turno di non aver saputo garantire l’ordine con il consueto pugno di ferro.

Il Kazakistan è in paese di 18 milioni di abitanti, con un PIL pro capite di 26.000 dollari (al 54 esimo posto sui 174 paesi censiti dall’FMI nel 2020), come il Cile e la Turchia, il doppio del Sudafrica e del Perù.

Un paese dove tutti potrebbero “vivere come a Dubai” dice un operaio. Peccato che i salari migliori siano di circa 500 € mensili, mentre la maggior parte dei lavoratori percepiscono da 100 a 150 € al mese. Il 18% degli occupati lavora ancora in agricoltura con redditi anche più bassi e molte comunità, in particolare quelle dedite alla pastorizia, sono minacciate dal land grabbing, cioè l’acquisto massiccio di terre “comuni” da parte delle multinazionali dell’agroalimentare e del legno.

 Quindi si potrebbe vivere tutti meglio, se la ricchezza non si concentrasse nelle mani di poche famiglie che hanno prosperato sotto l’URSS prima e sotto Nazarbayev poi. Il regime dopo l’indipendenza ha continuato a garantire la galera a chi si ribellava. Ma anche prosperità agli amici degli amici e i profitti ai capitalisti amici che portano capitali, tecnologia.

Il governo kazako ha di recente lanciato programmi di diversificazione industriale, inducendo una urbanizzazione disordinata per cui molte famiglie di lavoratori vivono in baracche fatiscenti senza acqua potabile o riscaldamento (in un paese con inverni molto rigidi), dove gli incendi nelle case dei poveri sono la norma.

Non a caso la rivolta è stata innescata dal raddoppio del prezzo del GPL (da 0,12 a 0,24 € al litro), il più usato per i trasporti, e dagli aumenti dei beni alimentari, oltre che per la mancanza di assistenza sanitaria e di vaccini (disponibili solo a caro prezzo) contro il Covid.

Un paese “pacifico”?

Il Kazakistan non è nuovo a ribellioni, scioperi e proteste, per lo più ignorate in Occidente e sempre schiacciate nel sangue. Il 2 gennaio di quest’anno la protesta è partita, non a caso, da Zhanaozen, nella zona petrolifera del sud est. Non a caso perché nel 2011 i lavoratori del settore petrolifero di Zhanaozen, nella provincia di Mangistau, si ribellarono per i salari da fame, i ritmi di lavoro insostenibili, il numero di incidenti anche mortali sul lavoro. La repressione fu feroce (14 morti ufficiali, più di cento in realtà, fra gli operai, innumerevoli i feriti). Chi osò parlarne ai giornalisti scomparve velocemente. Ogni anno piccoli gruppi di lavoratori in alcune città ricordano l’episodio e regolarmente vengono arrestati anche se non hanno striscioni o cartelli (tutti sanno perché sfilano) e si fanno 15 gg di carcere. In Kazakistan la tortura nelle carceri è la norma e le morti improvvise “per infarto” molto frequenti. I giornalisti che danno notizia di quanto avviene sono malmenati e arrestati. In Kazakistan qualsiasi riunione deve essere approvata dalla polizia, anche i matrimoni e i funerali, considerati “raduni di massa”.

Nel 2016 ci sono state significative manifestazioni contro il land grabbing. Il 2018 e il 2019 sono stati punteggiati da proteste nelle principali città sempre per denunciare cattive condizioni di lavoro, degrado delle abitazioni, aumento vertiginoso degli affitti, mancanza di servizi (acqua, trasporti, ospedali ecc.). Nel 2020 e ’21 il Covid ha scoraggiato il fenomeno. Ma il 2 gennaio la protesta è divampata, non più 200-500 persone in piazza, ma 5000 nel primo giorno; inoltre si è diffusa velocemente in tutto il paese (non a caso il governo ha sospeso subito internet), raggiungendo Alma Ata, oggi Almaty, la ex capitale, e Astana, oggi Nur Sultan, la capitale attuale e molti altri centri urbani. Ad Almaty i manifestanti hanno preso il controllo della sede del partito al potere (Nur Otan), della residenza del presidente e dell’aeroporto. Si segnalano anche attacchi a banche, negozi di lusso e ristoranti esclusivi. I centri petroliferi sono stati tutti investiti da manifestazioni.

I diritti umani e l’intervento russo

“Su invito del presidente Tokayev”, la Russia è intervenuta coi carri armati; come ai tempi di Budapest o Praga si parla di “reprimere il terrorismo organizzato”, di oscuri complotti internazionali (I talebani? Gli uiguri?), di aiutare un governo amico.

Con il ritiro degli americani da Kabul, Putin ha visto un’occasione di riaffermare l’influenza russa su un’area dell’ex impero zarista, dove il 23% degli abitanti è etnicamente russo (nota 3). Ma è l’occasione anche per lanciare un messaggio indiretto agli stessi russi, malcontenti per la gestione della pandemia, l’inflazione, oltre che per la penuria di carburante. Nel frattempo il presidente Tokayev ha sfilato al vecchio Nursultan Nazarbayev, che dietro le quinte tirava ancora i fili del potere, (nota 2) il controllo degli apparati di sicurezza. Lo scotto da pagare sarà una ancora maggiore dipendenza dalla Russia.

In realtà Mosca reprime anche a vantaggio delle major petrolifere Usa (fra cui ExxonMobil e Chevron, quest’ultima in procinto di investire 37 miliardi di $ in un nuovo giacimento a Tengiz). Nemmeno Xi JinPing, ha protestato. La Cina sta comprando terre massicciamente in Kazakistan, per impiantare aziende agricole (con personale rigorosamente cinese) e sfruttarne le foreste. Ha rotto il monopolio russo sugli oleodotti. Sta progettando il Khorgos Gateway, un hub ferroviario e una città nel deserto kazako che confina con la Cina e la Russia. Un luogo simbolo dove gli eserciti della Cina e dell’Unione Sovietica si scontrarono brevemente nel 1969 e oggi è una tappa della “Via della seta”.

Ma contro le rivolte popolari le rivalità nell’immediato si compongono.

L’ITALIA in prima linea nel banchetto kazako

Non a caso abbiamo citato Roma. L’Eni, come scrive orgogliosamente sul suo sito, è presente in Kazakistan dal 1992, partecipa, con una quota del 6,81%, al North Caspian Sea PSA che sfrutta il giacimento di Kashagan (35 miliardi di barili di petrolio di riserve). Ha il 29,25% nel consorzio di produzione di Karachaganak. Nel 2019 ha firmato con la compagnia di stato nazionale KazTransGas una joint venture per lo sfruttamento dei giacimenti offshore di Isatay e Abay. Il 29 luglio 2021 l’AD di Eni, Claudio Descalzi, ha firmato con Tokayev un contratto sulle energie rinnovabili (ENI opera tramite una controllata locale la ArmWind LLP). Il progetto è articolato: eolico, fotovoltaico, idrogeno, solare ecc. E siccome è una ditta benefattrice, Eni organizza “soggiorni sulla riviera adriatica per i bambini kazaki” e contribuisce alla “formazione di giovani calciatori locali” e ha addirittura donato “9 ventilatori polmonari, un generatore di ossigeno e materiale medico di consumo”, più 400 mila mascherine contro il Covid $. Infine, ha creato a Nur-Sultan un centro di lingua e cultura italiana, intitolato ovviamente a Mattei.

In Kazakistan operano una sessantina di ditte italiane. Fino al 2016 l’Italia era il principale operatore europeo. È attiva nel campo degli idrocarburi (Eni, Saipem), dell’indotto petrolifero (Rosetti Marino, Bonatti, Sicim, Tenaris, Valvitalia), nelle costruzioni (gruppo Todini-Salini-Impregilo oggi We Build), nella logistica (Ocean di Trieste, Savino del Bene, Tuvia). Ci sono interessi anche nell’agroalimentare. IVECO si è stabilita nel Paese con unità produttive (linee di assemblaggio veicoli commerciali). Le joint-venture sono oltre un centinaio. L’ultimo settore ad approdare nel 2021 è quello della moda, “con un occhio alla classe media”.

Le missioni patrocinate dal ministero degli Esteri negli ultimi 20 anni sono state numerose, perché il Kazakistan è considerato un hub per l’accesso all’area dell’Asia centrale e del Caucaso. Ma anche il paese più stabile delle 5 repubbliche islamiche ex sovietiche e, oggi, una possibile base per gestire il periodo successivo alla ritirata dall’Afghanistan. L’Italia deve fare i conti con le ambizioni della Russia, della Turchia (che può sfruttarne la turcofonia), dell’Iran, che agisce di concerto con la Russia, deve confrontarsi con la concorrenza della Cina e degli Usa. Per questo ha lanciato il Format 1+5 (Italia + Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan), che ha tenuto la sua seconda conferenza l’8 dicembre 2021 a Tashkent (Uzbekistan), presenti Di Maio e il viceministro Di Stefano. L’Europa vi ha delegato il rappresentante speciale per l’Asia centrale, l’ambasciatore Hakala. Temi trattati: gestire il dopo Afghanistan, la pandemia, il rilancio di investimenti e cooperazione economica con l’Italia. Decisamente non c’è posto per le ingiustizie sociali in Kazakistan, fatti loro.

Solo dai lavoratori italiani e del mondo può venire solidarietà e aiuto. Dai governi borghesi solo ipocrite parole e tifo per gli oppressori.


Nota 1: Fra la grande quantità di interessi tradizionalmente legati ai prodotti minerari del Kazakistan, la stampa aggiunge un tocco di modernità informandoci che “nel Paese viene minato il 18 per cento dei Bitcoin in circolazione e società di criptomining cinesi vi hanno recentemente stabilito attività per i bassi costi energetici”. Per la cronaca “Minare i Bitcoin” significa convalidare le transazioni che avvengono su ciascun blocco della blockchain di Bitcoin. 

Nota 2: Nursultan Nazarbayev è diventato presidente nel 1991 in coincidenza con la dichiarazione di indipendenza del paese, ha dominato con la sua potente famiglia il Kazakistan per fino al marzo 2019, quando si è dimesso in seguito a un’ondata di proteste, ma è rimasto leader del partito dominante, Nur Otan (“Patria luminosa”), e capo del potente Consiglio di sicurezza nazionale. Questo grazie alla presenza dei suoi parenti nei gangli di potere dello stato e grazie all’accumulo di ingenti ricchezze da petrolio. Dietro di lui c’è una borghesia ristretta che accetta volentieri l’autoritarismo del regime in cambio di sicurezza e standard di vita confortevoli. Kassym-Jomart Tokayev, che al momento delle dimissioni era presidente del Senato, è subentrato alla presidenza nel giugno 2019, dopo elezioni truccatissime, accettando in pratica di condividere il potere con la famiglia del predecessore. Nazarbayev ha spesso esercitato il suo diritto di veto sulle nomine dei ministri, dei governatori e in genere degli alti funzionari.

Nota 3: Sono gli eredi dei due milioni di russi importati da Kruscev per bonificare “le terre vergini” nel 1962.

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