Lotte operaie per il salario, manifestazioni di piazza in commemorazione degli avvenimenti che portarono alla caduta di Mubarak, scontri violenti in Sinai fra esercito e polizia da una parte e un gruppo islamico pro ISIS, il massacro nello stadio hanno riempito le cronache sull’Egitto. Nel quadro di una repressione sistematica e sanguinosa, il regime militare di Al Sisi cerca di consolidare la presa interna e di ricucire alleanze con le potenze in Medio Oriente, oltre che riposizionarsi fra Usa, Russia e Cina. Ma lavoratori e oppositori sono tutt’altro che “pacificati”.
I FATTI
- Il 12 gennaio circa 10 mila operai tessili di Mahalla erano scesi per l’ennesima volta in sciopero, per ottenere il pagamento del bonus annuale cui hanno diritto. Il bonus è da sempre parte integrante del salario operaio e la mancata concessione decurta pesantemente i redditi. Gli scioperanti sottolineavano che i mancati investimenti da parte del governo hanno reso inoperativi per il 25% gli impianti e, sommandosi con la recente decisione del governo di interrompere i finanziamenti alla produzione di cotone, fanno temere una riduzione della produzione tessile e un’ondata di licenziamenti. (Masr Indipendent 15 genn.’15). Dopo quattro giorni di sciopero gli operai hanno ottenuto alcune garanzie sia per il bonus che per l’occupazione.
Gli scioperi a Mahalla hanno spesso acceso la scintilla per agitazioni più ampie, nel 2008 come nel 2011. Gli operai hanno visto peggiorare le loro condizioni a partire dalle liberalizzazioni del 2003, perché da quel momento i licenziamenti risultarono molto più facili. Nel 2011 lo Scaf[1] ha introdotto forti limitazioni al diritto di sciopero, ma gli scioperi sono continuati. Le leggi recenti riducono il diritto di assemblea e di parola. In questo c’è una perfetta continuità fra Al Sisi e Morsi.
Gli scioperi di Mahalla di gennaio, come quello della mega acciaieria di Helwan in dicembre, sono la spia di una estesa situazione di regresso sociale. Un terzo dei giovani, che sono il 60% della popolazione, è disoccupato. Il 26% degli egiziani vive sotto la linea della povertà e il 40% ha un reddito di 2 $ al giorno. Il 31% dei bambini fra i 6 mesi e i 5 anni soffre di malnutrizione. Gli egiziani poveri seguono una dieta carente di proteine e vitamine e ricca di carboidrati, fra cui primeggia il kushari, piatto di maccheroni, riso, ceci e lenticchie, sugo di pomodoro e a volte cipolle fritte), per cui sono obesi e mal nutriti. Più ci si allontana dalla capitale e si procede verso Sud, più aumenta la povertà, aggravata dalla mancanza di assistenza sanitaria, strade e acqua potabile. I contadini non si possono permettere pesticidi e fertilizzanti, ma anche sementi selezionate. Alcuni lamentano che la fertile terra del Delta sia utilizzata per uno sviluppo incontrollato delle aree urbanizzate e non per l’agricoltura. Nell’antichità l’Egitto era il granaio del Mediterraneo, oggi importa il 60% del cibo, in particolare grano, zucchero, carne e olio alimentare. Tra il 2012-2013 la produzione di cotone è calata dell’11% (Washington Times, 6 ott.’14). Molti giovani tentano di trovare lavoro in Libia, dove svolgono i lavori più umili e sottopagati; spesso vengono sequestrati dai contrapposti gruppi islamismi per ottenere un riscatto.
- Il 25 gennaio nell’anniversario di piazza Tahrir 20 persone sono state uccise, 35 ferite: la foto dell’attivista socialista Shaimaa al-Sabbagh freddata dai cecchini ha fatto il giro del mondo, illustrando più di ogni discorso il livello di repressione attuale in Egitto, e confermando le accuse delle associazioni per i diritti civili.
- A fine gennaio una serie di attentati simultanei nel Sinai uccide 27 fra soldati e poliziotti, 62 i feriti. In ottobre erano stati uccisi 30 poliziotti; il governo aveva deciso di creare da al-Arich a Rafah una zona cuscinetto, larga da 1,5 a 3 chilometri, che isolasse il Sinai dal confine con Gaza e neutralizzasse le uscite dei tunnel. Per ottenere questa “buffer zone” sono state distrutte centinaia di case. Gli attentati, compiuti con autobomba e artiglieria pesante, sono stati rivendicati dai guerriglieri di Ansar Beit al Maqdi, che in passato si definivano vendicatori dei Fratelli Mussulmani e che oggi dichiarano di appartenere allo “Stato Islamico”.
Gli abitanti del Sinai sono presi fra due fuochi, fra esercito e guerriglieri, ma la loro estrema povertà (uno su due vive con un reddito inferiore ai 2 $, li rende inevitabilmente sensibili ai richiami dei gruppi islamici. I beduini del Sinai non sono mai stati realmente integrati nello Stato egiziano, di cui conoscono solo la faccia repressiva. Ufficialmente lo Stato ha investito nel Sinai 20 miliardi di $, ma non se ne vede traccia. La stampa egiziana ha adottato una censura totale sugli avvenimenti in Sinai ed è impossibile conoscere l’evolversi degli avvenimenti, tranne le poche notizie che filtrano a Gaza. Del resto oltre ai giornalisti di Al Jazeera in Egitto sono detenuti molti giornalisti, fra cui uno che aveva osato ricordare in un suo programma la disfatta subita dall’Egitto della guerra del 1967. Molti osservatori si chiedono se questa strategia adottata dal governo sia adatta ad accrescere la sua popolarità fra la popolazione o invece non provochi la radicalizzazione di gruppi più o meno consistenti. Diciassette giornali, statali o privati, hanno firmato l’impegno di non dare notizie di nessuna manifestazione, perché si tratta di “incitazione alla violenza” (Al Jazeera, 30 genn.’15).
- Migliaia di militanti che hanno contribuito alla caduta di Mubarak sono in prigione.
29 mila sono accusati di far parte dei Fratelli Mussulmani, ma in realtà sono spesso semplicemente oppositori sindacali o politici. E’ infatti utile al governo accusare indistintamente gli oppositori di “terrorismo” o di congiura islamica. Altri 12 mila sono accusati di scioperi o manifestazioni antigovernative. La semplice partecipazione a manifestazioni comporta condanne a molti anni di carcere. AFP del 12 gennaio informa che uno studente è stato condannato a 3 anni di carcere per ateismo (aveva dichiarato su Facebook le sue convinzioni).
Il colpo più grave il nuovo regime lo ha sferrato il 4 febbraio al Cairo. Ahmed Douma e 229 altri militanti del Movimento 6 aprile sono stati condannati all’ergastolo per sedizione; 39 minatori a 10 anni di carcere per “assembramento illegale” e “turbativa dell’ordine” per fatti avvenuti nel 2011.
In questa contesto va inserito l’episodio apparentemente diverso dei tifosi massacrati l’8 febbraio allo Stadio del Cairo, di proprietà del Ministero della Difesa. Le autorità hanno voluto presentarla come una normale operazione di polizia in cui si è cercato di mantenere l’ordine e, ahimè, 30 persone sono morte e un numero imprecisato è stato ferito. Secondo gli osservatori occidentali si è trattato invece di una resa dei conti con una società di tifosi, i White Knights, notoriamente politicizzati, che si erano spesi nel 2011 nelle manifestazioni di piazza Tahrir in difesa di studenti e lavoratori, perché più preparati allo scontro fisico con la polizia. Un’operazione analoga la polizia l’aveva condotta durante una partita nel 2012 a Port Said, che ha portato alla morte di 74 persone e al ferimento di 204, appartenenti a un altro gruppo di tifosi attivi nel 2011 in piazza Tahrir, cioè gli Al Ahly, anche loro del Cairo. Tutti i commentatori stranieri sottolineano che il livello di violenza della polizia fa misurare il grado di conflitto sociale potenziale presente nel paese.
I rivolgimenti diplomatici
La paura suscitata dall’avanzata dell’ISIS in Sinai, verso le frontiere dell’Arabia Saudita con l’Iraq, hanno portato a una ricollocazione dei paesi sunniti nei confronti dei vari movimenti religiosi radicali, ma anche nei rapporti reciproci.
Il più vistoso cambiamento è quello del governo del Qatar che, dopo essere stato un fervido sostenitore dei Fratelli Mussulmani in concorrenza coi sauditi, è oggi propenso a riavvicinarsi all’asse Egitto-Arabia (Jerusalem Post, 11 genn,’15). Pare che anche il leader di Hamas, Khaled Mashaal, sia stato cortesemente invitato a lasciare Doha, dove si era trasferito da Damasco, un “regalo” per Al Sisi (e indirettamente per Israele). Si tratta di un “gesto di buona volontà”, dopo che il 16 novembre 2014 ad una riunione straordinaria del GCC (il Consiglio di Cooperazione del Golfo) era stato annunciato che Arabia, Emirati e Bahrain inviassero di nuovo i loro ambasciatori in Qatar, da cui erano stati ritirati otto mesi prima. In dicembre, in un’altra riunione, il Qatar aveva manifestato il suo pieno appoggio al governo egiziano “perno degli equilibri regionali”.
Il Qatar non è tanto preoccupato dall’ISIS quanto per il prosperare dei loro affari che alla fine richiede buoni rapporti di vicinato con i paesi arabi più importanti.
Questo riassetto isola Erdogan e la Turchia, che avevano espresso un caloroso appoggio ai Fratelli Mussulmani; Erdogan ha apostrofato nei mesi scorsi Al Sisi come “un tiranno senza legittimità” e “un golpista”. Intellettuali e uomini d’affari egiziani hanno chiesto al loro governo di boicottare merci e soap opera turche, cogliendo l’occasione di indebolire uno scomodo concorrente in nome della lealtà al governo che, da parte sua, ha cancellato unilateralmente i visti per i cittadini e i permessi per i camion turchi in entrata in Egitto. Se lo scorso anno la Turchia andava a braccetto col Qatar, adesso si ritrova sola; non ha relazioni diplomatiche con Armenia, Siria e Cipro, relazioni incerte con Israele.
Un punto di domanda riguarda la relazione del nuovo asse sunnita, in particolare dell’Egitto, con gli Usa. L’esercito egiziano è forte attualmente di 460 mila unità.
Gli ufficiali, tranne i più anziani, si sono tutti formati negli Usa. Ma dal 2011 non si sono più svolte esercitazioni congiunte militari Usa-Egitto. Anche l’aiuto militare di 1,3 miliardi di $ annualmente fornito dagli Usa è congelato dal 2011. Al Sisi, in una intervista al Washington Post ha minacciato di porre fine all’alleanza pluridecennale con gli Usa e di rivolgersi per sostegno alla Russia o/e alla Cina. Si parla di un contratto da 2-3 miliardi di $ con la Russia per la fornitura di Mig 29, elicotteri da attacco MI-35, missili da difesa, armi leggere e munizioni. In cambio l’Egitto ha concesso l’utilizzo dei servizi del porto di Alessandria alle navi russe, dal momento che i russi non possono usare Tartus in Siria. Inutile sottolineare come questo sia per la Russia importante quasi quanto l’annessione dei porti della Crimea. L’Egitto ha fatto questo passo con la benedizione dell’Arabia saudita e degli Emirati, irritati dalla prospettiva di un accordo Obama-Iran.
Il fronte sunnita e il fronte interno egiziano
Il rinsaldarsi di un asse dei governi sunniti può rendere più forte al Sisi nella repressione di qualsiasi forma di opposizione. Ma gli scioperi sono la spia di una situazione sociale troppo tesa per essere ignorata e che si aggraverà perché molte imprese di Stato stanno denunciando perdite che potrebbero portare a chiusure e licenziamenti. L’unica soluzione economica è la ripresa delle privatizzazioni che però metterebbe al Sisi in tensione coi militari, pronti a minacciare e bastonare gli studenti universitari e gli operai in sciopero, ma in cambio della tenuta della loro presa sul complesso industrial-militare. Un’altra soluzione sarebbe investire nell’industria di Stato a spese dei consistenti acquisti di carri armati e aerei, ma anche questo irriterebbe le alte sfere militari, aduse a lucrare tangenti su questi acquisti. L’empasse che aveva portato alla caduta del governo Mubarak si sta riproducendo.
Nel frattempo buona parte della classe operaia e dei giovani studenti che hanno riempito Piazza Tahrir ha avuto modo di verificare il ruolo oppressivo sia delle alte sfere dell’Esercito che dei Fratelli Mussulmani, che rappresentano ciascuno frazioni della borghesia egiziana.
E resistono. Le braci sono ancora vive sotto la cenere.