Caucaso sul fronte della guerra dimenticata

Gorgo
Di Kodori Giampaolo Visetti

In Ossezia l´esercito georgiano è pronto all´offensiva
contro gli indipendentisti appoggiati da Mosca

L´ex governatore abkhazo insieme ai ribelli punta
all´islamizzazione della regione. I 60 mila georgiani rimasti temono lo
sterminio


La guerra di secessione di Ossezia e Abkhazia, le regioni
russofone della GEORGIA, decide il controllo di una regione strategica
nell’Asia Centrale.


Nel Caucaso del Sud osservano le nuvole. Verificano
se l´acqua, nelle pozze, gela. Aspettano l´inverno. Tra poche settimane la neve
bloccherà i passi. Fino a giugno, da nord, le truppe russe e le milizie dei
volontari ceceni non potranno passare
. Nel gorgo di Kodori, sul fronte tra
Georgia e Abkhazia, e nella valle di Didi Liakhvi, sotto il maestoso Kazbek in
Ossezia del Sud, i soldati georgiani contano le notti. Nelle trincee scavate
sulle alture, sognano una guerra-lampo: riconquistare le autoproclamate
repubbliche ribelli e riunificare la nazione georgiana
. Quattro giorni,
calcola il generale Magomedov, per bruciare i 35 chilometri che separano gli
svaneti dal mar Nero e liberare Sukhumi dal sedicente governo abkhazo. Solo due
giorni invece per rompere le linee ossetine di Erghneti, presidiate dai caschi
blu russi, distruggere la resistenza lungo i tre chilometri che separano dalla
capitale Tskhinvali e ricongiungersi ai villaggi georgiani abbandonati in
Ossezia. I piani sono pronti. L´ordine d´attacco però non arriva. Il
presidente georgiano Mikhail Saakashvili, fino a qualche giorno fa, aveva
accelerato l´ammassamento delle truppe. A Tbilisi i toni della retorica
nazionalista seguitavano ad alzarsi
.
I ministri assicuravano che il «ritorno in Abkhazia» era imminente.
Promettevano che, a Capodanno, avrebbero «brindato a Tskhinvali». Poi la
doppia doccia fredda. Mosca ha interrotto le vie di comunicazione, irrigidito
il blocco economico, iniziato la persecuzione e la deportazione degli immigrati
georgiani. Se ricomincerà a tagliare gas ed elettricità, per riaffermare l´influenza
sulla «ingrata repubblica russofoba», si profila lo spettro della miseria
. Anche
l´Onu ha frenato il leader della «rivoluzione delle rose». Basta violenza, ha
ordinato il consiglio di sicurezza alla Georgia: ritiro dai territori occupati,
smobilitazione del ridicolo «governo in esilio» di Akishbaia, rispetto degli
accordi del 1994 e ripresa dei negoziati. Tbilisi non può dichiarare guerra sia
alla Russia che all´Occidente. Il primo missile, ha fatto sapere il presidente
americano Bush, coinciderà con l´archiviazione della pratica per l´adesione
alla Nato
. L´ingresso nella Ue virerà in miraggio. Saakashvili così
temporeggia. Una scelta drammatica: inimicarsi la comunità internazionale, che
lo finanzia, o perdere la fiducia della sua gente, che lo sostiene.
La fabbrica dell´odio etnico, nel Caucaso, è però ormai ancora una volta
fuori controllo. Nelle gole del fiume Kodori, enclave georgiana in Abkhazia,
esplosioni e raffiche di kalashnikov confermano che gli scontri sono ripresi.
Svani e megreli si ammazzano casa per casa, come tredici anni fa. Seicento
soldati georgiani braccano nelle foreste Emzar Kvitsiani e le sue milizie
.
L´ex governatore della regione, in luglio, ha tradito la fiducia di Tbilisi.
Ora è pronto ad affiancare i riservisti di Sukhumi
.
Nascosto in montagna, tratta con i ceceni e con gli altri popoli del Caucaso
del Nord
. Sostenuto dai russi, trasformati ormai in truppe
d´occupazione, prepara la calata dei fedeli musulmani nel cuore dell´Abkhazia.
I 60 mila georgiani sopravvissuti alle epurazioni, vivono nell´incubo dello
sterminio
. Gli osservatori dell´Unomig, inviati dalle Nazioni Unite, non
abbandonano più il quartier generale sulla costa. Anche in Ossezia del Sud,
all´imbrunire, iniziano sparatorie e razzie. La missione Osce non garantisce
più la sicurezza a chi penetra nelle zone di conflitto
.
Gli ossetini, dai cunicoli scavati sulle colline, tempestano di granate i tetti
dei paesi georgiani. Da Khetagurovo, base del generale russo Marat Kulakhmetov,
si colpiscono Achabeti, Kurta, Kekwi e Aunevi. I vertici militari le
definiscono «provocazioni», pianificate da Tbilisi per «giustificare un
attacco». I georgiani forniscono le «prove del genocidio in atto». Nessuno
accetta però di diffondere il bilancio di morti e feriti degli ultimi giorni.
Solo centinaia di racconti anonimi. Come la storia raccolta nell´ospedale di
Tskhinvali, dove sabato hanno amputato la gamba sinistra di un bambino saltato
su una mina. O il dramma di Levan, falciato giovedì scorso da una raffica
mentre giocava a calcio nel cortile della scuola. La realtà è che è già
iniziata una devastante guerra di posizione, nascosta e negata per opportunità
diplomatiche. Sul campo si fronteggiano georgiani, abkhazi, sudossetini,
minoranze del Caucaso del Nord e russi. Nazionalisti, indipendentisti e
fanatici religiosi lottano per fazzoletti di terre devastate, case crollate e
chiese abbattute, simbolo di orgogli etnici inghiottiti ai tempi dell´Urss
.
A Tbilisi, Mosca, Washington, Sukhumi e Tskhinvali, la posta è invece
politica
. La propaganda diffonde montagne di contraddittori documenti
storici, di accordi raggiunti e violati, di incompatibili progetti
costituzionali e ingiustificate richieste di riconoscimento. Ma la realtà è che
chi vince l´ultima campagna georgiana, conquista il Caucaso: petrolio e gas
dell´Asia centrale, basi militari sul confine russo e alle porte di Iran e
Afghanistan, canali commerciali fra Turchia ed Europa
.
Le frontiere tra Georgia, Ossezia del Sud e Abkhazia ormai sono chiuse. Dopo i
check-point di Ergneti e sul fiume Enguri, ci si imbatte solo in mezzi
militari. Rarissimi, per chilometri, gli incontri con abitanti del posto. Per
ridurre il rischio di aggressioni, si viaggia su vecchie Lada con targa russa.
In un decennio Mosca ha distribuito propri passaporti al 90 per cento della
popolazione. Sukhumi ha espulso 250 mila georgiani, 12 mila le vittime. Da
Tskhinvali i profughi, dal 1992, sono stati 13 mila, duemila i morti
.
Passare nei villaggi abbandonati, inghiottiti tra gli eucalipti, significa
compiere un agghiacciante viaggio nello sfacelo dell´Unione sovietica. Dopo 15
anni, tutto è peggio di allora. L´Abkhazia è tagliata in due da un´unica
strada, deserta e bombardata. Nel cemento si aprono voragini profonde mezzo
metro
.
Tre ore per percorrere 70 chilometri, costretti infine sulla pista nel fango
aperta di fianco. Sei posti di blocco, 50 fabbriche di tè abbandonate, 20
tabacchifici crollati, chiusi i due aeroporti, la ferrovia e i porti sul mar
Nero. Incolti i campi. Dalle rovine di scuole, ospedali, case e negozi, escono
rami di cachi e maiali inselvatichiti. L´agente che dovrebbe fermare gli
intrusi chiede i documenti, ma non sa quali. Chiude un occhio in cambio di una
bottiglietta d´acqua. Anche in Ossezia del Sud i sogni di libertà e democrazia
sono stati inghiottiti nelle sabbie mobili post-sovietiche. La via che porta in
Russia, verso il tunnel di Roki, è un pantano invaso da vecchi pneumatici e
immondizia. I paesi, a scacchiera tra georgiani e ossetini, somigliano a
fortini assediati. Sessanta dollari al mese, più il contrabbando di droga,
sigarette e vodka. Ogni casa, un arsenale. Tra le baracche, un esercito di
fantasmi e di poveri, costretti a rimpiangere Stalin.
Questo Caucaso svuotato è la prigione degli orfani dell´Urss, un cimitero per
gli ostaggi di un capitalismo abortito. La gente chiede di nascosto quando
scatterà l´attacco. Lo aspetta come una liberazione, lo vuole, ma ne è
terrorizzata. Spera che infine un miracolo fermi l´invasione georgiana, ma
giura di essere pronta a massacrare i propri fratelli. Abkhazi e ossetini
assicurano di essere a un passo dall´indipendenza, decisi al matrimonio con la
Russia. I georgiani danno per fatte la «riunificazione nazionale», la
«riconquista» di Abkhazia e Ossezia «costi quel che costi», l´adesione a Nato e
Ue. Il blocco economico e le deportazioni della Russia seminano caos e dolore
in Georgia. Le sanzioni e le violenze della Georgia stanno annientando Abkhazia
e Ossezia del Sud
. Il nuovo incendio nel Caucaso, acceso dalla Russia,
destabilizza Mosca ma rilancia le sue ambizioni imperialiste. Un cerchio
infernale, senza uscita.
Gli incontri con i leader politici e militari sono disarmanti.
Ognuno teme che le ragioni del nemico risultino più convincenti delle proprie.
Presidenti e ministri delle repubbliche secessioniste, non riconosciute da
alcun Paese, leggono appunti e recitano come segretari del Pcus. Sergey
Bagapsh, tra le rovine di Sukhumi, assicura che seguendo la via del Montenegro,
l´Abkhazia entro due anni sarà come il Lichtenstein. Eduard Kokoiti,
nell´assedio di Tskhinvali, aspetta l´ennesimo referendum indipendentista di
novembre. Entro l´anno, annuncia, l´Ossezia sarà riunificata all´interno della
Federazione russa. Poi, se ci sarà il via libera al Kosovo, toccherà alla
Transnistria. Mikhail Saakashvili e la presidente del parlamento georgiano,
Nino Burdzhanadze, promettono invece la caduta delle capitali separatiste e il
fallimento dell´offensiva del Cremlino. Una commedia dell´assurdo. Le
trattative sono interrotte, nessun presidente ha mai parlato con l´altro.
Russia e Usa cercano di prevedere come sarà, crollata l´Urss, la seconda
«guerra fredda».
La voce dell´Europa, qui, non arriva più. Ma i popoli del Caucaso hanno ripreso
le armi. Nella bollente carcassa sovietica la guerra, ufficialmente
«congelata», è ripresa. E Soso Tskharosia, soldato-profugo georgiano da 13
anni, sogna di fucilare i miliziani musulmani nell´ex chiesa ortodossa di San
Giorgio, dove fu battezzato nel distretto abkhazo di Ochanchire.

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