La crisi sanitaria in corso dimostra come i costi di questo sistema basato sul predominio di una minoranza finiscano per divenire costi sociali per la maggioranza. Un esempio è quello del supersfruttamento e discriminazione dei lavoratori migranti della ricca città-stato di Singapore, una forza lavoro indispensabile e altamente redditizia per la sua borghesia.
Il successo vantato dal governo per il precoce contenimento della malattia tramite quarantene e tracciabilità dei contatti, (imposti dal 7 aprile, ed ora estese fino al 1° giugno) si è trasformato in allarme per i rischi per la salute pubblica derivante dall’aver trascurato fasce di lavoratori emarginati che ora sono diventati il tallone di Achille della sua risposta al coronavirus.
Ora si teme il boomerang sull’intera comunità con il sistema sanitario della città che non sarebbe in grado di tenere, dato che nei prossimi 4-5 giorni si prevede un incremento di 8000-10000 casi al giorno.
Oggi, Singapore ha 1,4 milioni di immigrati, su una forza lavoro totale di 3,7 milioni (5,7 milioni gli abitanti della città-stato). Di questi, 981.000 sono lavoratori migranti a basso salario con visti temporanei, molti dei quali rimangono a Singapore anche se la maggior parte del lavoro è ferma.
Il 6 aprile, in un post di Facebook ampiamente condiviso, un alto funzionario della città ha definito i dormitori dei lavoratori immigrati una “bomba a orologeria in attesa di esplodere”.
A febbraio le mascherine erano state distribuite a tutte le famiglie, ma non ai lavoratori immigrati dei dormitori, con la cinica consapevolezza della loro inutilità, data la segregazione loro imposta e le loro condizioni di vita.
Al 25 aprile i casi di infezione complessivi a Singapore sono 12693, ma negli ultimi giorni quelli rilevati nei dormitori sono cresciuti quotidianamente di 1000-2000 al giorno, e si prevede che in 4-5 giorni aumentino di 8000-10000.
Esperti della sanità e gruppi per i diritti umani avevano evidenziato la vulnerabilità alle malattie infettive dei lavoratori migranti di Singapore già prima dell’ondata dei casi di dormitorio.
La maggior parte di questi immigrati proviene dal S-E Asia, India E Bangladesh in particolare, e lavora per lo più nell’edilizia, alle catene di montaggio e nei cantieri navali (nota 1). Esistono 43 mega dormitori. La normativa edilizia stabilisce che i lavoratori che occupano queste strutture necessitano di 4,5 metri quadrati totali, per dormire mangiare e per i servizi igienici. Così sono costretti a condividere i servizi, e a dormire in letti a castello, distanti meno un metro, l’uno dall’altro. Queste condizioni di vita riguardano circa 200 000 lavoratori nei dormitori veri e propri e 100000 in “dormitori temporanei”, ricavati in capannoni industriali dismessi. Questa densità abitativa è il frutto dello sfrenato desiderio di mantenere bassi i salari e alti i profitti.
I dormitori sono gestiti per lo più da privati, e sono una miniera d’oro. Un esempio sono i due dormitori gestiti dal gruppo S11, Punggol e Changi Lodge II, gli stessi che hanno il maggior numero di casi Covid-19 confermati. Il suo managing director, Jonathan Cheah ha rivelato che il dormitorio Punggol ha un fatturato annuo di 55 milioni di dollari, oltre 3,5 volte il fatturato di Changi Lodge II. Assieme questi 2 dormitori di S11 rappresentano un fatturato annuo di oltre 49 miliardi di $. (Online Citizens, 23.04.2020)
La maggior parte dei lavoratori immigrati è rimasta a Singapore dopo lo scoppio della pandemia. Un motivo è il debito che si trovano sulle spalle. Un lavoratore che proviene dal Bangladesh deve pagare fino a $12 000 per il suo primo viaggio a Singapore. Per pagarlo gli ci vogliono uno o due anni, dato che i lavoratori bengalesi guadagnano meno di $17,55 al giorno. Un altro motivo della forzata permanenza è che le famiglie dipendono dalle loro rimesse per i bisogni fondamentali, e questo vale per quasi la metà dei bengalesi immigrati.
I permessi di lavoro, rilasciati ai lavoratori che guadagnano meno di circa $ 1 550 al mese, impediscono ai lavoratori migranti di richiedere la residenza permanente o la cittadinanza e devono essere rinnovati ogni due anni. Un’indagine condotta da TWC2 rivela che il 62 percento dei lavoratori migranti indiani e del Bangladesh mostra segni di un grave disagio psicologico. La maggior parte di costoro aveva un debito non pagato o era senza lavoro a causa di un infortunio sul lavoro. Le condizioni attuali riproducono questi problemi per una percentuale ancora maggiore di lavoratori migranti.
La strategia di contenimento dell’epidemia rischia di aggravare anche i problemi salariali pre-esistenti.
Il ministero Lavoro di Singapore ha dato indicazione agli imprenditori di ridurre del 25% il salario dei lavoratori migranti (su un salario base di 600$/al mese) durante il lockdown dal 7 aprile fino al 4 maggio. Il ministero parla di «accordi mutualmente concordati su salario e permessi», ma TWC2, un gruppo di difesa per i lavoratori di passaggio, rileva lo scarso potere contrattuale dei lavoratori stranieri, che non sono liberi di cambiare né lavoro né datore di lavoro, perché il loro permesso di lavoro è legato a uno specifico datore di lavoro.
In realtà questa indicazione di riduzioni salariali transitorie data dal ministero mira a riduzioni permanenti. Il che è tanto più grave essendo noto che i datori di lavoro già operano arbitrariamente delle detrazioni, anche per vitto e alloggio, sui salari. Complice una legislazione per il lavoro che condona condotte scorrette dei datori di lavoro, quali la manipolazione delle prove a sostegno delle richieste di risarcimento.
TWC2 propone l’estensione del Jobs Support Scheme (JSS) per coprire i lavoratori migranti a basso salario. Il JSS, attualmente limitato ai lavoratori residenti, consente ai datori di lavoro di ricevere sussidi salariali fino al 75% per lavoratore in tutti i settori, con un limite salariale (nota 2).
La maggior parte dei casi di infezione tra gli immigrati proviene dal settore costruzioni, dove sono costretti a lavorare dalla prepotenza dei datori di lavoro, che hanno istituito multe fino a 35$ al giorno che deducono dai salari se i lavoratori immigrati si assentano per motivi di salute. I gruppi di difesa dei diritti criticano fortemente un’ordinanza del ministero della Salute con la quale si obbliga i datori di lavoro a monitorare la salute dei lavoratori, ad assicurarsi che abbiano un’alimentazione adeguata e a “prendersi cura del loro benessere”. In pratica lo stato delega alla discrezione dei datori di lavoro il soddisfacimento dei bisogni base dei loro dipendenti.
Un ulteriore effetto negativo dell’impennata di infezioni tra i lavoratori immigrati è l’aumento della xenofobia. L’opinione diffusa anche sui social network è che sono gli stessi lavoratori i responsabili dell’epidemia, a causa delle loro «cattive abitudini igieniche».
(da Asia Times/TWC2/the Diplomat; Online Citizens, Straits Times)
NOTE:
1) Sono circa 256 000 gli immigrati che lavorano come domestici, provenienti da Indonesia, Myanmar e Filippine.
2) TWC2 ha calcolato a $600/mese il salario tipico di un immigrato, e 1 milione i lavoratori immigrati, x 75%, il costo complessivo sarebbe di $400 milioni/mese, da aggiungere ai 5,1 miliardi già previsti dal governo per il JSS.