Le rivolte che in questi giorni in Bosnia Herzegovina (BiH) hanno assunto un carattere insurrezionale sono partite da Tuzla, cuore industriale del Nord, con la lotta di lavoratori della fabbrica chimica DITA che da 14 mesi sono senza salario. Assieme a DITA nell’area sono collassate altre tre ex imprese di proprietà statale, che occupavano migliaia di lavoratori locali; ora a Tuzla sono centomila i disoccupati contro 80mila che hanno un lavoro. La lotta ha scatenato un’ondata di proteste contro una politica ingolfata dalle lotte di fazione, incapace di sanare l’economia in sfacelo, e perfino di utilizzare i fondi di pre-accesso alla UE erogati alla BiH. Hanno assunto un’ampiezza senza precedenti, si sono estese a una ventina di centri, pur concentrandosi nell’area mussulmana della Federazione di Bosnia e Herzegovina,[1] una delle due entità in cui è stata suddivisa la Bosnia a Dayton, ma c’è stata una manifestazione anche nella capitale della metà serba, Banja Luka.
Iniziate martedì 4 febbraio, le manifestazioni si sono andate via via intensificando e radicalizzando.
La situazione è tanto critica e instabile che l’alto rappresentante internazionale in Bosnia ha previsto il rafforzamento del contingente militare Eufor. Non basta però il contingente militare ad assicurare la stabilità del paese. La Germania, anche tramite i rappresentanti UE, continua a premere per riforme economiche e per la revisione della Costituzione: senza un sistema politico stabile i capitali tedeschi non possono aver la sicurezza di investimenti redditizi.
Riportiamo una cronaca del Courier des Balkans per la giornata di venerdì 7 febbraio:
h. 12,30, riprendono le manifestazioni a Tuzla, scuole elementari e superiori chiuse; sospesi gli esami di tutte le facoltà universitarie.
h. 13, in centinaia accerchiano il governo cantonale protetto dalla polizia; si fabbricano molotov. Riprendono le manifestazioni a Zenica, Kakanj, Mostar, Prijedor, Bihać, annunciate nuove manifestazioni a Banja Luka, Travnik, Donji Vakuf, Jajce, Ključ, Cazin, Visoko, Žepče, Zavidovići.
h. 13,30, a seguito delle violente repressioni del giorno prima, un’associazione di manifestanti, il Fronte, chiede le dimissioni immediate del primo ministro e del ministro Interni del cantone di Tuzla.
h. 13,45, 10 000 manifestanti raccolti davanti al governo cantonale di Tuzla; acclamato dalla folla un gruppo di essi assalta il palazzo, la polizia non reagisce, poco dopo lo incendiano.
Nello stesso momento a Sarajevo i dimostranti cominciano a demolire il palazzo del governo cantonale.
h.14,30, assalto e incendio alla sede del governo federale; la folla impedisce ai pompieri di accedere, i pompieri si ritirano.
h. 16, in fiamme la sede della presidenza a Sarajevo.
h. 17, a Tuzla un corteo si dirige verso il tribunale cantonale, il municipio ed altri edifici pubblici, in fiamme il municipio. Si dimette il primo ministro cantonale, Sead Čaušević.
h. 19, i pompieri riescono a spegnere l’incendio del palazzo della presidenza federale; bilancio della giornata di Sarajevo: 61 feriti di cui 44 poliziotti.
h. 20, sono bruciati gli archivi di Sarajevo conservati nel palazzo della presidenza federale e i registri civili del municipio di Tuzla e di quello del centro di Sarajevo.
h. 22, dopo quello di Tuzla si dimette il governo del cantone di Zenica-Dobij, e del capo della polizia di Mostar.
h. 22,30, il gruppo UDARR su Facebook chiama ad una manifestazione per il giorno seguente, sabato 8 febbraio, in tutta la Bosnia-Herzegovina.
Il 9 febbraio i manifestanti chiedono le dimissioni dei membri della presidenza collegiale, e del magnate e ministro alla “insicurezza”, Fahrudin Radončić. Il primo ministro federale, Nermin Nikšić, si dichiara disposto a dimettersi.
Gli organizzatori spiegano che «la spontaneità delle manifestazioni ha messo l’accento sulle questioni sociali ed economiche, prendendo le distanze dai conflitti etnici e religiosi, e da tutti i partiti politici, e ha consentito ai giovani disoccupati di partecipare per la prima volta attivamente alla politica». (Le Courier des Balkan, 9.02)
Anche le due settimane di protesta del giugno 2013, a Sarajevo, contro l’inefficienza dell’amministrazione e il deterioramento della situazione economica, furono spontanee e coinvolsero sia bosniaci che gruppi serbi della Rep. Srpska e di Zagreb; come oggi neppure allora furono usate parole d’ordine nazionalistiche e anti-serbe.
Lunedì 10 sono previste manifestazioni di solidarietà a Belgrado, e a Zagreb per giovedì 13 e sabato 15, sollecitate dall’appello in rete del gruppo UDAAR: «dalla Serbia appoggiate la popolazione di Tuzla».
Domenica 9 febbraio, manifestazioni pacifiche a Sarajevo e altre città, le assemblee generali a Sarajevo, Tuzla e in tutte le maggiori città della Bosnia Herzegovina, stanno elaborando rivendicazioni e programmi politici “di transizione”, un esercizio inedito di democrazia diretta che fa circolare le risoluzioni tramite le reti sociali.
«I cittadini di Sarajevo, senza nome né nazionalità, né partito politico» hanno pubblicato una proclama con il quale chiedono, tra l’altro, ai politici di riconoscere che si tratta di una «rivolta popolare», di aumentare le pensioni minime di €200, di denunciare il prestito sottoscritto con l’FMI, di porre fine all’aumento dei prezzi dei servizi pubblici e all’introduzione di nuove tasse. Chiedono di rivedere le privatizzazioni, di creare una commissione indipendente per la lotta contro la corruzione; di sopprimere i cantoni e di abolire le due entità statali, Federazione e Repubblica Srpska. (Oltre che inefficiente e clientelare l’apparato politico-amministrativo è molto costoso.)
I cittadini di Tuzla, ponendo come condizione preliminare le dimissioni del governo, assieme a richieste pacifiste moderate, come «il mantenimento dell’ordine pubblico e della pace con la cooperazione tra cittadini, polizia e protezione civile, per impedire la criminalizzazione, politicizzazione e manipolazione delle manifestazioni», avanzano rivendicazioni molto più radicali:
- Creazione di un governo tecnico, composto da esperti apolitici, che non abbiamo mai avuto incarichi di governo; sua missione dirigere il cantone di Tuzla fino alle prossime elezioni del 2014. Esso sottoporrà ogni settimana relazioni sul suo lavoro e proposte. Tutti i cittadini interessati potranno seguirne i lavori.
- Risoluzione, in tempi rapidi, di tutte le questioni relative alla privatizzazione delle imprese seguenti: Dita, Polihem, Poliohem; Gumara e Konjuh. Il governo potrà confiscare le proprietà acquisite in modo fraudolento, annullare gli accordi di privatizzazione, restituire le imprese ai lavoratori e riprendere la produzione appena possibile.
- Parificazione delle retribuzioni dei rappresentanti del governo con quelle dei lavoratori del pubblico e del privato; fine di tutte le prebende e del pagamento di retribuzioni a ministri ed altri rappresentanti non più in carica.
Il proclama dei manifestanti di Sarajevo e Bihać:
«Noi che siamo scesi in piazza, pur amareggiati per le ferite e i danni provocati, esprimiamo il nostro sdegno per la distruzione di fabbriche, spazi pubblici, istituzioni scientifiche e culturali, vite umane, operata da coloro che sono da vent’anni al potere.»
«Che sia posto fine al saccheggio della “transizione”, della corruzione, al nepotismo, alla privatizzazione delle risorse pubbliche, alle modalità di un modello economico favorevole solo ai ricchi e a manovre finanziarie che hanno distrutto ogni speranza di una società giusta e di benessere sociale.»
Quale presupposto alla creazione di un governo per un ordine sociale più giusto per tutti alcune misure, tra cui:
- immediate dimissioni delle autorità cantonali e del governo centrale della Bosnia Herzegovina,
- creazione di governi apolitici
- liberazione di tutti gli arrestati senza alcun procedimento giudiziario.
La protesta esprime la rabbia contro l’insostenibile situazione socio-economica, in un paese che, devastato dalla guerra (1992-95), non ha ancora raggiunto nemmeno il livello dello sviluppo precedente al conflitto. Alta disoccupazione, al 44-45% degli attivi, salari da fame (in media 420 € al mese), lavoro nero diffuso, povertà (colpisce il 20% dei 3,7 milioni di abitanti), privatizzazione a prezzi bassissimi delle ex imprese di Stato che ha portato a chiusure di fabbriche e licenziamenti, mentre le clientele politiche intascavano grossi profitti.
Fino all’anno scorso lo sfogo ai problemi era l’estesa emigrazione (nel 2012 più del 15% dei bosniaci lavorava all’estero e ha spedito a casa 2,6 miliardi di €, pari al 26% del PIL). Ora anche all’estero si licenzia.
Si tratta di un movimento essenzialmente costituito da proletariato che, superando storiche divisioni ideologiche e religiose utilizzate per indebolirlo dalla classe dominante, sta faticosamente cercando un’identità di classe, e l’ha trovata nei problemi e negli interessi comuni di lavoratori serbi, bosniaci e croati. Ma non avendo ancora raggiunto una coscienza di classe si esprime in una lotta spontanea, senza una organizzazione di classe che la diriga, e per questo non è in grado di rovesciare/prendere il potere.
Questa insurrezione di masse proletarie nelle periferie dell’Europa, disarticolate dalle guerre balcaniche degli anni ‘90 e sprofondate nella crisi, deve trovare il sostegno internazionale dei rivoluzionari.
Noi, Comunisti per l’Organizzazione di classe, esprimiamo ad essa la nostra solidarietà.
Comunisti per l’Organizzazione di Classe
[1] La Federazione (51% del territorio, 2,5 milioni di abitanti) è a maggioranza croata e mussulmana, mentre i serbi si concentrano nella Repubblica Srpska (1,3 milioni di ab.).
Le proteste sociali di questi giorni in Bosnia riportano all’attenzione dei media un paese dimenticato da vent’anni. Ogni studente di scuola media sa che circa 100 anni fa l’assassinio di un arciduca austriaco a Sarajevo, in Bosnia, fu la causa occasionale dello scoppio della guerra mondiale. I meno giovani ricordano che la Bosnia fu teatro di feroci massacri nel corso della seconda guerra mondiale, di cui fu responsabile non secondario l’imperialismo italiano (vedi ‘Imperialismo italiano’ di Graziano Giusti – Edizioni PM a cura dell’ass.Eguaglianza e Solidarietà). Fra il 1992 e il 1995, nel corso del conflitto che portò alla scomparsa dalla carta geografica della Jugoslavia, la Bosnia Herzegovina ne divenne l’epicentro. Essendo l’area in cui le tre componenti etnico-religiose (serbi, croati e bosniaci, mussulmani e ortodossi) vivevano mescolati, fianco a fianco, la Bosnia accreditò la tesi di una guerra esclusivamente “etnica” in cui l’Onu e i paesi occidentali avevano dovuto intervenire per “motivi umanitari”. In realtà all’indomani dell’implosione dell’Urss, della caduta del muro di Berlino e della riunificazione tedesca, venendo meno l’assetto di Yalta, l’imperialismo americano e quello tedesco si confrontarono – su territorio jugoslavo e al costo di almeno 100 mila morti – per definire i nuovi rapporti di forza nell’Europa dell’Est. L’imperialismo russo, tradizionale alleato dei serbi, era troppo impegnato nella propria crisi economico-sociale per incidere in modo significativo e anche la Turchia, tradizionale sostenitrice dei mussulmani bosniaci ebbe un ruolo marginale. L’imperialismo italiano intervenne nel conflitto tentando di conciliare le sue due anime, quella filoserba e quella filocroata, con un penchant più per Washington che per Berlino.
L’intervento “umanitario”, forte di 60 mila uomini, non protesse i civili da atrocità di ogni tipo, dalla pulizia etnica agli stupri, fino ai massacri indiscriminati. Un nome per tutti: Srebrenica.
Alla fine nel dicembre 1995 furono firmati a Dayton, Ohio, gli accordi di pace, che non sono serviti a stabilizzare il paese, ma a tutelare le gerarchie politico-economiche del paese.