Bilancio dell’intervento italiano in Afghanistan

Abbiamo negli occhi le immagini dell’attentato dell’Isis a Kabul e dell’inglorioso ritiro dei soldati che da vent’anni occupavano a vario titolo in paese. Ma qual è il bilancio per l’Italia?

Sgombriamo intanto il terreno dall’idea molto diffusa che l’Italia sia intervenuta in Afghanistan come “reggicoda” degli Usa. L’Italia aveva una propria politica afghana già prima del 2001 (nota 1), non è intervenuta per estirpare l’estremismo islamico (come l’Urss nel 1979) o per garantirsi un controllo geostrategico nei confronti di Cina e India da un lato e dell’Iran dall’altro (come gli Usa), ma inizialmente per proteggere i propri interessi in Iran (col quale ha buoni rapporti diplomatici ed economici), e conservare una propria politica nei confronti con la Cina. Dopo l’insediamento dell’Eni in Turkmenistan (2008) ha aumentato il numero degli effettivi a difesa di propri interessi petroliferi.

Un intervento oneroso

L’intervento ha ottenuto un appoggio quasi unanime dai partiti dell’arco parlamentare. E’ stata una delle missioni militari all’estero più onerose per numero di militari coinvolti (in tutto si sono alternati 50 mila soldati italiani, partendo dagli 11 del dicembre 2001 e arrivando nel 2012 a 4250; quelli evacuati il 28 giugno 2021 erano 895. Le perdite umane da parte italiana sono state di 53 morti e 723 feriti.

Ancora più oneroso rispetto al numero dei militari l’esborso finanziario. Definirlo complessivamente è molto difficile. Opaco è anche il dettaglio degli impieghi. Si può sinteticamente dire che ufficialmente risultano spese per 10 miliardi circa, ma che i costi “indiretti” sistemici si perdono nelle pieghe del bilancio dello stato, e qui si collocano gli affari dei fornitori italiani, perché riguardano il ricambio degli armamenti, il ripristino delle scorte di munizioni e mezzi di trasporto, le spese di costruzione dei presidi militari, l’aggiornamento tattico e l’addestramento specifico in loco dei militari appena arrivati, i costi sanitari delle cure per i reduci feriti e mutilati. Queste spese vengono accuratamente celate al grande pubblico, ma si ipotizza che equivalgano ad altri 10 miliardi (nota 2). Dentro questa cifra enorme troviamo quanto speso in interventi sociali e umanitari, a vantaggio della popolazione: 58 milioni di €, distribuiti su 2.290 progetti! Una miseria!

Che ci conferma il carattere imperialista di questa guerra.

Ne è valsa la pena?

Adesso qualcuno comincia a chiedersi cosa l’imperialismo italiano/l’Italia abbia ottenuto in cambio.

Sgombriamo intanto il terreno da un equivoco. Non crediamo, ovviamente, alla favoletta che i governi italiani siano intervenuti per “sostenere il processo democratico”, “garantire la pace all’Afghanistan”, “contrastare la violenza sulle donne”, “contenere il commercio di oppio”. Nessuna guerra ha mai questo come scopo reale e solo l’estrema ipocrisia dei media, dei politici e di tutti i pennivendoli dell’imperialismo ha il coraggio di sostenerlo. Comunque nessuno di questi obiettivi, è chiaro a tutti, è stato ottenuto.

Così come non crediamo che si possa fare un bilancio unico, che riguardi l’intero paese, la collettività, come se l’interesse del metalmeccanico e dell’azionista di Finmeccanica fosse lo stesso. Il modello normale delle operazioni militari di un normale paese capitalistico è che la guerra viene pagata dai lavoratori, con la vita se militari o con le tasse se civili. A guadagnarci, anche in caso di sconfitta, sono i pescecani o i “pesciolini” di guerra: in prima battuta chi offre prestiti, fornisce armi, equipaggiamento, sostegno logistico. In seconda battuta, se si ottiene il controllo di un territorio, chi ci investe, chi ne ottiene materie prime o ne sfrutta le risorse, chi ottiene appalti e monopoli.

Chiediamoci quindi: Cosa si aspettavano e cosa hanno ottenuto in cambio dei miliardi spesi i capitalisti italiani?

A detta dei politici intervistati in questi giorni quasi nulla, né per affari realizzati né in termini di considerazione e peso diplomatico.

Tutti gli imperialismi e le potenze regionali, al di là dell’aspetto geopolitico, si attendevano grandi cose in termini di affari dall’Afghanistan, che si è sempre presentato come un bengodi per ricchezza di minerali (nota 3). In realtà nessuna grande o media azienda italiana ha avuto accesso a questo tesoro, semplicemente perché il controllo totale del territorio non è mai stato ottenuto.  Benché nessuna grande potenza appoggiasse i talebani, essi sono stati ampiamente appoggiati e foraggiati da potenze regionali piccole grandi. Gli invasori si sono trovati a dover fare i conti con stati danneggiati dallo sviluppo multipolare dello stesso imperialismo. Esistono altri fattori interni Altri ostacoli che hanno scoraggiato investimenti significativi, come sono la mancanza cronica di acqua, l’assenza di una struttura di fornitura di energia elettrica stabile, assenza di strade e ferrovie.  Quindi ogni risorsa mineraria è stata sfruttata a livello locale da qualche signore della guerra, da gruppi armati locali, vuoi islamici (talebani, ma anche Al Qaeda o Isis dal 2015), vuoi etnici. I quali hanno largamente praticato il contrabbando a basso prezzo di ciascun prodotto, vendendolo direttamente o tramite intermediari pakistani compiacenti agli stessi paesi imperialisti che occupavano il territorio (nota 4).

In Afghanistan gli imperialismi occupanti hanno trovato e sfruttato largamente l’oppio, la cui produzione è triplicata e che per una buona metà è finita alle case farmaceutiche occidentali a prezzi di favore. Ma l’Italia era insediata ad Herat dove la produzione è marginale (nota 5).

L’attività militare dell’Italia si è concentrata in prevalenza nel Nord-Ovest del paese, l’area che confina con l’Iran e il Turkmenistan. E’ una zona a forte prevalenza sciita e in parte tagika, l’ideale per rafforzare i rapporti di collaborazione e scambio con entrambi i paesi confinanti. Gli italiani hanno ideato una rete infrastrutturale di collegamento con l’Iran (nota 6), che sarebbe andata a vantaggio anche della presenza economica italiana. Tuttavia i soldi versati dall’Italia per le infrastrutture non si sono tradotti in assegnazione dei lavori a ditte italiane, visto che erano le autorità afghane a gestirli.

In Afghanistan hanno operato alcune aziende italiane, per lo più sconosciute al grande pubblico, ma poche sono state le sopravvissute del drappello che nell’aprile 2011 aveva firmato a Kabul il primo accordo economico Italia-Afghanistan (nota 7). Complessivamente l’Afghanistan è rimasto economicamente marginale per l’Italia. L’interscambio del 2020 ad esempio vede l’Italia esportare per 28,5 milioni di € (principalmente strumenti e forniture mediche, motori, generatori, machine utensili) e importare per 6 milioni di € (prodotti agricoli).

Resta l’interesse dell’Eni, che ispirò l’iniziativa del 2011 e l’intensificazione dell’impegno militare italiano, sia per l’interesse dal 2008 ai giacimenti del Turkmenistan, come si è già accennato, sia perché nel 2010 si scoprì un giacimento di petrolio nel Nord dell’Afghanistan, nell’area compresa tra le città di Balch, Schuburghan e Hairatan, per il quale avevano mostrato interesse sia l’Eni, che la francese Total, che la canadese Heritage Oil. Questi interessi sono tuttora validi, compresa la sua appendice, cioè la costruzione del “T.A.P.I.” (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India), un gasdotto che dovrebbe portare il petrolio dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan in Pakistan e India, che però per l’Eni non è fondamentale (nota 8).

L’intervento in Afghanistan è stato voluto dallo stato in quanto braccio armato in quanto rappresentante e, nel caso, anche braccio armato della borghesia italiana. Qual è il bilancio militare? Ecco alcune valutazioni espresse da esperti in materia. Ritirarsi con gli americani era inevitabile perché è il “grande fratello” statunitense quello che fornisce l’intelligence, il supporto aereo di fuoco, il trasporto strategico, e quindi gli indirizzi da seguire (secondo il generale Battisti). In ogni caso quella in Afghanistan è una sconfitta della politica non militare (sostiene Difesa on line). La litania delle “missioni di pace” deve lasciare il posto alla consapevolezza che, per conseguire gli obiettivi, le missioni militari comportano l’uso della forza. L’esercito in Afghanistan “ha aiutato il nostro Paese a conquistare rispetto e considerazione a livello internazionale, contrastando gli effetti della nostra debolezza politica sul piano interno” (Affari internazionali). Sulle riviste specializzate non si fa mistero che l’Afghanistan è stato un utile banco di addestramento per un numero non piccolo di uomini (50 mila), tutti militari di professione, che si sono formati in operazioni di controguerriglia, e secondo gli esperti del settore, nella cosiddetta Guerra Ibrida, in cui le Forze Armate si confrontano con minacce non convenzionali, cioè  “guerriglia, terrorismo, conflitti etnici, guerre per procura, sovversione, migrazione, disordine criminale, risorse di controllo e istituzioni deboli”. Come in altre guerre recenti, la finalità attribuita, quella di “missione di pace”, ha legittimato l’ampio uso di contractors, di veri e propri mercenari, il cui reclutamento non è legale in Italia, ma che si muovono come “volontari”, cui ovviamente si può fornire un rimborso spese, e che godono dell’immunità data dall’anonimato (nota 9).

I lavoratori italiani dunque hanno pagato in tasse per tutto questo, contrabbandato come operazione di pace e di democrazia. Denuncia il Fatto quotidiano (19 agosto) che nessuna opera messa in piedi dall’Italia in Afghanistan è stata terminata: la trasformazione dell’aeroporto militare  di Herat in aeroporto civile non si è fatta (nonostante i 30 milioni investiti), delle strade si è già detto,  la cardiochirurgia pediatrica dell’ospedale Indira Ghandi a Kabul è stata installata a metà.

L’Italia si è fatta bella con l’intervento di Emergency, che è presente dal 1999, con 3 centri chirurgici, uno a Kabul (dove gestisce l’unico reparto di terapia intensiva della città e l’unico apparecchio per tomografie computerizzate disponibile gratuitamente in tutto l’Afghanistan), uno ad Anabah, nella valle del Panshir, e l’ultimo a Lashkar-gah, in Helmand. Nei 22 anni di presenza Emergency ha curato 7 milioni di pazienti senza contributi da parte dello stato italiano. Il quale ha scoraggiato le Ong dall’intervenire nel Paese, tagliando loro completamente i fondi (fonte Ispi 2018). L’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo (Aics) afferma di aver investito 30 milioni l’anno dal 2015 nella sanità, con cui si è creato un centro ustioni, alcuni centri di pronto soccorso, fatto formazione, fornito ambulanze.

In cambio di questa stitica beneficienza l’Italia come gli altri paesi ha contribuito al disastro afghano: la diffusione della corruzione, l’aumento delle ineguaglianze sociali, i morti e i feriti, i 3 milioni di emigrati per sfuggire alla fame, i 4 milioni di sfollati interni. E oggi, come già successo ai curdi in Iraq, i collaboratori afghani abbandonati al loro destino, il “non c’è posto per tutti” per gli eventuali emigrati e il salvataggio selezionato di alcune donne (meglio se sportive di spicco).

Questo è il vero bilancio per noi su cui riflettere.


Note

Nota 1: In breve l’Italia fu il primo Paese europeo a riconoscere l’indipendenza dell’Afghanistan nel 1919 e ad avere aperto una propria ambasciata nel 1921 seconda solo alla Russia. In due tempi diversi ha ospitato due sovrani afghani in esilio: re Amanullah, dal 1929 al 1960 e re Zahir Shah dal 1973 al 2002.

Nota 2: per questa valutazione si appoggiamo soprattutto al materiale pubblicato da Milex (cfr ad es. https://milex.org/wp-content/uploads/2021/04/Scheda-costi-Afghanistan-Mil%E2%82%ACx-aprile-2021.pdf)
Nel dettaglio i costi ufficiali “diretti” dichiarati ammontano a 6,8 miliardi e riguardano le spese per il personale, militare e no. Ad essi vanno aggiunti 925 milioni di “spese aggiuntive” implicite (trasporto truppe e rifornimenti, costruzione basi e infrastrutture militari, intelligence, informatori, protezione sedi diplomatiche e istituzionali). Altri 840 milioni a partire dal 2015 sono stati investiti nell’esercito afghano (quello che si è liquefatto davanti ai talebani), utilizzati per addestrare i soldati e fornire loro armi. Particolare non irrilevante queste armi (in particolare fucili e mitragliatori) sono state, come in Iraq, in gran parte rivendute al mercato nero, probabilmente proprio ai talebani. Da ultimo sono da considerare circa 353 milioni investiti in modo discontinuo da Aics (agenzia italiana cooperazione e sviluppo), in particolare nelle infrastrutture. Si arriva quindi a circa 9 miliardi per le spese fino al 2020. Le sese del 2021, comprese quelle onerose di distruzione di armi e basi militari e dell’esodo di italiani e afghani fanno ipotizzare i 10 miliardi. Milex riporta uno studio Usa che valuta i costi “indiretti” sistemici paese per paese equivalente ai costi dichiarati

Nota 3: L’Afghanistan trabocca di minerali: oro, argento, rame, ferro, zinco, cobalto, mercurio, lapislazzuli, marmo e petrolio. In anni più recenti l’interesse si è concentrato in particolare sul litio, interessante per i farmaci, ma oggi strategico per l’industria delle batterie elettriche, e sulle terre rare (nome che definisce 17 minerali indispensabili per costruire PC, schermi video, telefonini, macchine fotografiche, fibre ottiche, marmitte catalitiche).
Si è quindi molto parlato del litio in questi giorni, ma in Italia nonostante tutti parlino di auto elettriche non c’è ancora la convenienza economica a lavorare il litio e a produrre le batterie. Quanto alle terre rare si preferisce importarle già estratte https://www.linkiesta.it/2020/09/litio-risorse-riseve-unione-europea-automotive-auto-elettrica-batterie-investimenti-italia/

Nota 4: A dimostrazione di quanto affermato basti pensare che gli investimenti esteri in Afghanistan nel periodo di occupazione sono stati risibili (dallo 0,06 milioni di $ del 2003 all’acme di 0,27 del 2005 per tornare allo 0,06 del 2009, un nuovo acme di 0,17 nel 2015 per arrivare allo 0,02 del 2019) – cfr. https://www.macrotrends.net/countries/AFG/afghanistan/foreign-direct-investment
La stessa Cina, che oggi tutti danno per vincitrice strategica della guerra per le risorse afghane, è già stata scottata nel 2008, quando la sua compagnia statale China Metallurgical Vroup Corp. non è riuscita a sfruttare il secondo giacimento più grande del mondo di rame, di cui si era accaparrata il diritto di estrazione.
Per le difficoltà in generale a sfruttare le risorse afghane vedi https://www.huffingtonpost.it/entry/perche-gli-usa-non-sono-riusciti-a-sfruttare-la-miniera-di-tesori-dellafghanistan-di-c-paudice_it_61236ce4e4b0e5b5d8eba4c3
La prima mappatura delle materie prime presenti nel suolo dell’Afghanistan risale agli anni della presenza dell’Unione Sovietica nel Paese (1979-1989). Nel 2002 il Pentagono commissionò un nuovo rapporto che indicò 1400 siti minerari potenziali, con 91 minerali estraibili. Nel solo distretto di Khanneshin, nella provincia Meridionale di Helmand si troverebbero 60 milioni di tonnellate di rame e fino a 2,2 miliardi di tonnellate di ferro 1,4 milioni di tonnellate di Rare Earth Elements (REE), come lantanio, cerio, neodimio ecc.

Nota 5: La produzione di oppio che nel 2000, ultimo anno del governo talebano era di 3000 tonnellate annue, nel 2017 in piena occupazione Nato è arrivata a sfiorare le 10 mila t (per un valore di 1,4 miliardi di $); oggi si stima in circa 6 mila (fonte UNODC ufficio Onu per il controllo della droga). Almeno la metà dell’oppio oggi viene raffinata il loco e trasformata in eroina o efedrina; e finisce nel circuito della criminalità organizzata. L’altra metà finisce alle case farmaceutiche perché è alla base del 90% degli antidolorifici, assolutamente legali, consumati nei paesi industriali e il cui consumo è quadruplicato dal 2004 al 2014. Come testimoniano le inchieste del giornalista Franco Fracasso, molti generali Nato girano i villaggi come lobbisti delle big Farma, per acquistare al prezzo migliore; il trasporto è garantito dagli aerei dei mercenari che in Afghanistan abbondano.
L’oppio è prodotto nelle province di Helmand e Kandahar, sotto il naso degli ufficiali americani e britannici. Gli italiani in ogni caso erano anche ufficialmente esclusi dalla lotta di contrasto (si fa per dire) alla droga. Da almeno un decennio i talebani controllano il 40% del traffico di oppio; se mai reintroducessero delle limitazioni lo farebbero oggi per contrastare la caduta dei prezzi seguita all’eccesso di offerta.

Nota 6: Il centro nevralgico della zona a controllo italiano era Herat; qui è stato ampliato l’aeroporto militare (60 milioni di €) e da qui passa la strada Kabul – Bamyan, di cui sono state costruite due sole tratte (per cui gli italiani hanno versato alle autorità afghane 103 milioni di €). Da Herat parte la costruzione della strada che avrebbe dovuto arrivare al confine con l’Iran (investimento 92 milioni), affiancata dalla ferrovia Herat – Khaf (in Iran), il cui tratto iraniano è stato inaugurato il 10 dicembre 2020, mentre il tratto afghano per cui gli italiani hanno versato 68 milioni non è ancora realizzato. Le vie di comunicazione sono pensate per favorire la penetrazione commerciale e finanziaria dell’Iran in Afghanistan. Ma contemporaneamente, se completate avrebbero consentito ad Herat di collegarsi alla rete stradale e ferroviaria iraniana, uscendo dall’isolamento geografico economico che stritola tutto il paese.

Nota 7: Allora c’erano i rappresentanti di Eni, Enel, Enea, Gruppo Trevi (perforazioni petrolifere), Gruppo Maffei (estrazioni minerarie), Iatt (pipeline sotterranee), Fantini (segatrici per marmo), Assomarmo, Margraf e Gaspari Menotti (estrazione del marmo) e AI Engineering (costruzioni).
Al di fuori dell’Eni, nessun’altra grande impresa dall’Enel (che ha offerto assieme a Terna l’illuminazione dello stadio di Kabul) alle Ferrovie dello Stato, dal Salini Impregilo a Saipem ha avuto un ruolo. Al contrario americani e inglesi sono presenti nelle costruzioni, gli indiani nella estrazione delle pietre preziose, i cinesi hanno partecipazioni nell’estrazione delle terre rare e nel litio. Intorno a Herat si è sviluppata l’attività di piccole medie aziende italiane come Assomarmomacchine, che ha sfruttato le cave di marmo bianco di Chest-i-Sharif; ha anche costruito una strada di 28 Km che porta il marmo estratto e ridotto in blocchi alla vicina Herat, dove nel novembre 2014 ha inaugurato un Italian-Afghan Marble Center. Il Gruppo Minerali Maffei diventa leader nell’importazione e vendita dei minerali preziosi afghani (sarà poi assorbita dalla Minerali Industriali).

Nota 8: Il TAPI fu progettato nel 1997 dalla americana Unocal (quella che sponsorizzò Karzai come presidente), per fare concorrenza ai gasdotti iraniani. Per varie ragioni è decollato solo nel 2015 come progetto e la costruzione è iniziata solo nel 2018. Oggi la presenza dei talebani ha raffreddato gli entusiasmi, senza contare che da sempre la Turchia rema contro e caldeggia invece il TCP, cioè una pipeline transcaspica che porti il petrolio turkmeno in Grecia attraverso Azerbaijan e Turchia. Il Tapi potrebbe dare forza alla corrente “affaristica” dei talebani, che in vista delle royalties da gasdotto potrebbero garantirne la sicurezza. Nel caso gli uomini dell’Eni potrebbero aver un ruolo di mediazione. Comunque l’Eni vende già il petrolio estratto dal Turkmenistan agli azeri della Socar Trading, quindi probabilmente prenderà una posizione di equidistanza fra i due gasdotti.

Nota 9: cfr. https://www.agi.it/estero/news/2021-08-13/ragioni-caduta-afghanistan-talebani-intervista-generale-battisti-13570547/
https://www.difesaonline.it/mondo-militare/afghanistan-ventanni-di-impegno-militare
https://www.affarinternazionali.it/2021/08/afghanistan-lezioni-da-non-dimenticare/
https://www.cesi-italia.org/eventi/134/contractors-lesercito-dei-mercenari-italiani-tra-amor-di-patria-guadagno-e-croci-celtiche

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