Bangladesh: il governo del banchiere “filantropo” Yunus reprime le lotte operaie, con la benedizione del capitale nazionale e internazionale

La nuova ondata di scioperi

Gli scioperi hanno riguardato almeno 70 stabilimenti del tessile-abbigliamento, in cui le donne rappresentano l’85% della forza lavoro, una ventina di fabbriche farmaceutiche, il calzaturiero, la ceramica – nelle aree industriali di Adamjinagar, Ashulia, Dhamrai, Gazipur, e Savar, e nelle Zone di lavorazione per l’esportazione di Savar a Dhaka e di Adamjee ad Adamjinagar. Gli scioperi si sono andati allargando di fabbrica in fabbrica, sono state organizzate proteste di massa presso le sedi delle aziende e gli uffici delle autorità, e sono stati attuati diversi blocchi stradali.[1] Il giornale Crisis24 prevede che i prossimi raduni vedranno la partecipazione di migliaia di lavoratori, e che le proteste continueranno fino a fine settembre. L’11 settembre i conducenti di autobus del distretto di Barisal hanno indetto uno sciopero a tempo indeterminato.[2] In un intervista a Peoples’ Dispatch[3]  Sharif Shamsir del Partito dei Lavoratori del Bangladesh (WPB)[4] ha dichiarato che l’attuale agitazione nella cintura industriale di Savar-Ashulia e Gazipur appare spontanea. Ha aggiunto che molti dei sindacati che prima del cambio di regime si battevano per l’aumento dei salari sono rimasti inattivi per timore di persecuzioni politiche.

Oppure perché, possiamo supporre, assieme al caloroso benvenuto da essi dato al governo Yunus, hanno promesso la pace sociale, per non disturbare il manovratore?

La prima risposta padronale è stata la serrata

L’associazione del padronato del tessile-abbigliamento del Bangladesh, BGMEA, ha informato che a causa delle agitazioni sindacali, al 12 settembre, erano state chiuse 219 fabbriche nelle aree industriali di Ashulia e Gazipur. Come nel novembre 2023, quando almeno 300 stabilimenti chiusero a causa di uno sciopero generalizzato dei lavoratori che chiedevano un aumento del salario minimo adeguato all’inflazione. La serrata padronale è del tutto legale, garantita dall’articolo 13 della legge sul lavoro, che prevede che “se non c’è lavoro (in chiaro: se gli operai scioperano e non lavorano), non c’è paga”. In contemporanea, come di consueto, l’Associazione degli industriali ha chiesto aiuto al governo, e si è rivolta direttamente anche al direttore generale della National Security Intelligence (NSI) per “identificare i gruppi responsabili dell’istigazione ai disordini”.

In sintesi, il governo del “filantropico” Yunus, sostenuto dall’ex partito di opposizione di destra BNL, sta da qualche giorno reprimendo le proteste e gli scioperi delle lavoratrici del Garment, coi mezzi e i metodi consueti. Ricorre alle stesse forze di repressione statale che pochi mesi fa’ l’odiata Hasina utilizzò per schiacciare il movimento degli studenti.

Non è cambiato nulla?

Non per i lavoratori. Ma nella strutturazione del potere sì.

Il Governo ad interim sta effettuando un’ampia epurazione dell’intero apparato statale, dai funzionari di alto rango ai responsabili dei vari settori amministrativi, giudiziari, fino a dirigenti di servizi pubblici, negli ospedali.  Ora infatti è il turno dei fedeli del nuovo governo.  A specchio di quello che avviene nello stato, scoppiano le faide in cui, col pretesto del cambiamento, i sostenitori della nuova (vecchia) fazione al potere hanno spazio per vendette private contro i seguaci di quella detronizzata. Riprendono gli attacchi di musulmani contro hindu. Al di là della denuncia di facciata, da parte del governo, di questo giustizialismo, le perduranti divisioni sociali, etniche, di religione fanno e faranno il gioco di chi muove le leve del potere dando il pretesto a repressioni mirate.

Poco più di un mese fa’, i grandi media internazionali, assieme alle cancellerie delle potenze, osannarono l’incarico conferito a Muhammad Yunus – il democratico premio Nobel, grande banchiere del microcredito. Nel suo governo ad interim, la cui durata in preparazione delle elezioni non è stata definita, sono stati cooptati due rappresentanti degli studenti. Ma è l’unica concessione all’ondata di proteste dei mesi scorsi. Tra i 16 nuovi ministri (definiti consiglieri) non c’è invece alcuna traccia di rappresentanti delle classi sfruttate ed oppresse.[5]

“Transizione democratica”: cosa significa per i lavoratori?

Yunus sta applicando “la democrazia” come serve alla borghesia bengalese, ma anche come auspicata dai suoi potenti sponsor nelle cancellerie occidentali, a partire dagli Stati Uniti, dai governi europei e dalla stessa Italia. Sì perché la stabilità politica e sociale è utile a tutta la borghesia, interna e internazionale, alle imprese locali come ai grandi gruppi internazionali, tra cui diversi italiani,[6] per continuare a sfruttare la cuccagna dei bassi salari bengalesi, garantiti dalla vasta quantità di mano d’opera di riserva della disoccupazione giovanile, dalla miseria nelle campagne e dalle divisioni sociali tra gli stessi oppressi, derivanti da discriminazioni razziali e tribali, dalle divisioni religiose, e dalle diseguaglianze economiche. L’importanza della possibilità di continuare a sfruttare “tranquillamente” le operaie del tessile/ abbigliamento è in questi dati: nel 2023 il loro sfruttamento ha contribuito all’85% delle esportazioni annuali del Bangladesh, pari a 55 miliardi di dollari.

Non deve accadere che i lavoratori, magari incoraggiati dal successo politico, per lo meno di facciata, degli studenti, decidano di rivendicare i propri diritti.

Il contesto internazionale

La cricca attualmente al governo ha approfittato delle proteste sociali per imporre anche una nuova collocazione internazionale del paese.

Nel S-E Asia è in atto una competizione per l’influenza tra i due giganti asiatici, India e Cina, in contemporanea allo scontro Usa-Cina nell’Indo-Pacifico. Nel mezzo di questa nuova guerra fredda regionale si trova il Bangladesh, anch’esso terreno di contesa tra le potenze.

Per un quadro più completo della contesa rimandiamo all’articolo: https://www.paginemarxiste.org/cina-india-una-competizione-nel-s-e-asia-1/

La penetrazione economica della Cina si è tradotta in peso politico, e anche in capacità di ricatto.

In sintesi: la Cina è attualmente il maggior partner commerciale del Bangladesh, e il Bangladesh è il secondo partner della Cina nell’Asia meridionale. Quarantacinque anni fa’, quando vennero stabilite le relazioni diplomatiche Cina-Bangladesh, il volume del commercio bilaterale era di oltre 3 mn. di $. Nel 2019 esso ha superato i 18 miliardi di $, con un incremento del 24,6% tra il 2015 e il 2019.

Nel luglio 2020 la Cina ha deciso di favorire l’importazione di merci dal Bangladesh, eliminando i dazi sul 97% degli articoli importati…

In questa competizione tra giganti, per l’influenza sul Bangladesh, gli investimenti, la forza lavoro, il commercio etc., il governo Hasina ha cercato – in modo più accentuato negli ultimi anni – di bilanciare gli interessi contrastanti delle grandi potenze globali, al fine di cogliere le opportunità offerte per il proprio sviluppo capitalistico, per la propria borghesia.

EPZ= Zone di lavorazione per l’esportazione

Le visite della Hasina in India e poi in Cina di poco precedenti lo scoppio delle proteste studentesche hanno rotto il relativo equilibrio finora in atto con questi governi. In particolare, l’accordo relativo ad una pluridecennale questione idrica, la regimentazione del fiume Teesta tra la bengalese Hasina e quello indiano capitanato da Modi ha scontentato il cinese Xi Jing-Ping. Ha segnalato a Pechino il rischio di uno spostamento di baricentro del governo bengalese a favore dell’India.

Così, quando a luglio 2024 Sheikh Hasina si è recata in Cina per ottenere un prestito, ha scoperto che Pechino non era più disposta a sborsare i 5 miliardi di dollari promessi, ne offriva meno di 100 milioni.

In questa fase di alleanze fluide, l’occasione fornita dal movimento degli studenti di sostituire il corrotto, clientelare, repressivo governo Hasina con un governo sponsorizzato dal filo-occidentale “banchiere dei poveri” è utile al tentativo di mantenere il mercato, gli investimenti infrastrutturali, la forza lavoro a basso costo del Bangladesh nell’area delle potenze occidentali e, perché no, magari anche a rafforzare le relazioni Usa-India.  

 Dalle rivendicazioni sindacali all’autonomia di classe

Questo è il quadro complesso in cui si muovono le rivendicazioni dei lavoratori. I lavoratori, le lavoratrici bengalesi sono arrabbiati, molto arrabbiati. Sono stufi di orari prolungati (60/70 ore la settimana), con gli straordinari non riconosciuti, della pratica diffusa di pagare il salario in forte ritardo, di paghe in ogni caso insufficienti al crescente costo della vita, soprattutto nei centri urbani dove sono costretti a trasferirsi per lavorare. Non accettano più di dover vivere ammassati in baracche di latta perché gli alloggi decenti non sono a loro portata, di dover fare i turni a cucinare, ad usare i servizi igienici, di dover tornare a lavorare appena partorito, e di essere costrette poi ad abbandonare durante la giornata di lavoro i figlioletti sulle caotiche strade della città perché non ci sono nidi, scuole materne.

Hanno visto che, con la loro determinazione e purtroppo i loro morti, i giovani studenti sono riusciti addirittura a spodestare il capo del governo (benché per loro la situazione non sia migliorata). E ora questi lavoratori vogliono di nuovo alzare la testa, farsi valere politicamente. Lo fanno con forti manifestazioni di protesta, lanciano mattoni contro il maledetto luogo di lavoro, arrivano fino ad incendiarne alcuni, bloccano le strade, organizzano cortei che passano da uno stabilimento all’altro chiamando alla lotta i compagni di lavoro che ancora titubano. Non si fermano nonostante le minacce fisiche, la chiusura delle loro fabbriche, la minaccia di essere licenziati.

E rivendicano misure, alcune delle quali erano finora inedite per il movimento operaio bengalese, come rileva il sito bdnews24.com.

Ecco la lista che riassume quelle le rivendicazioni comparse nei vari raduni e cortei:

– stop alle molestie e alle persecuzioni sul posto di lavoro, ed eliminazione della lista nera in cui vengono segnalati i lavoratori che si oppongono alle condizioni di lavoro; creazione di comitati per denunciare le molestie sessuali sul luogo di lavoro;

– stop alle discriminazioni salariali tra i diversi gruppi di lavoratori, e nell’assunzione di dipendenti maschi e femmine;

– l’innalzamento a 25.000 taka (195 euro al mese) del salario minimo per i lavoratori dell’abbigliamento. Con le lotte del novembre 2023 avevano ottenuto un aumento del 56% (97 euro al mese), ma ancora inadeguato all’inflazione, insufficiente per vivere;

– aumenti salariali del 15-20%;

– aumenti per gli straordinari e i turni di notte;

– indennità per il pranzo e il trasporto;

– cure sanitarie gratuite, come pure il trasporto in ospedale;

– avanzamento di livello per i dipendenti a tempo indeterminato ogni due anni;

– bonus e giorni di ferie durante l’Eid;

– asili nido ed estensione del congedo di maternità retribuito a sei mesi.

In molte famiglie bengalesi l’unico reddito fisso è quello della donna, che basta sempre meno a fronte dell’aumento del costo della vita. Occorrono due salari, da qui la richiesta di maggiori assunzioni di maschi nel tessile-abbigliamento.

Le proteste operaie in corso in Bangladesh sono alimentate dal supersfruttamento che caratterizza il sistema sociale e produttivo del paese, basato sul basso costo della forza lavoro, del salario diretto e indiretto,[7] più che su grandi capitali investiti nelle fabbriche, nei macchinari. Un sistema che quindi garantisce un alto plusvalore, accaparrato in parte dalla borghesia nazionale e in parte da quella internazionale, dei paesi imperialistici.

Le maggiori zone industriali del Bangladesh

Le proteste sono alimentate anche dalle diseguaglianze città-campagne, e fra i lavoratori, dalla fuga dalle campagne con un’accelerata urbanizzazione, squilibri accentuati dal veloce ritmo di sviluppo economico degli ultimi vent’anni.[8] Entrambi i fattori, basso costo della forza lavoro e forti squilibri territoriali, sono tipici dei paesi a giovane capitalismo, accomunano le popolazioni di vaste aree del globo, e, inevitabilmente, innescano proteste e rivolte.

Mentre le cause di scontento sono comuni, generalizzate a tutti i lavoratori dell’industria bengalese, le rivendicazioni avanzate non sono omogenee. Sono comparse liste differenti nei vari luoghi di lavoro, indice che le proteste sono rimaste per lo più spontanee, senza un’organizzazione autonoma che unisca, centralizzi la forza espressa, potenziandola. E a maggior ragione sembrano non avere un riferimento politico di classe, che li aiuti a comprendere il processo politico in corso nel paese, evitando di farsi irretire, come accaduto agli studenti, dalla sirena delle vaste riforme annunciate da Yunus. Il cui principale obiettivo è la rivitalizzazione del sistema sociale ed economico bengalese, rendendolo meno costoso e meno farraginoso, insomma più funzionale all’estrazione del plusvalore dei produttori bengalesi, diminuendo i costi della corruzione e della burocrazia che su esso gravano. Se poi in questo processo resteranno briciole da distribuire alle lavoratrici e agli studenti, tanto meglio per la pace sociale. Ma, attenzione, non si parli di ribaltamento del sistema, di rivoluzione sociale! Le lavoratrici e i lavoratori in lotta hanno compiti difficili: resistere alla repressione in corso, alle minacce di chiusure, licenziamenti, alle manovre divisive attuate dal padronato con la contrattazione stabilimento per stabilimento. Il nostro auspicio è che nell’affrontare questi difficili compiti, esse/i giungano a dotarsi di una loro organizzazione indipendente[9] capace di dare una prospettiva alla loro lotta. Un’organizzazione indipendente dai partiti della classe nazionale e internazionale che li sfrutta, dal partito al potere ieri e da quello che oggi sta prendendo il timone all’insegna della democrazia, “per il bene nazionale”, di tutti, al di sopra delle classi, come predicano Yunus e accoliti, mentre forniscono ogni garanzia di massimizzare profitti e privilegi ai loro committenti.


[1] I lavoratori farmaceutici di GAB Limited, Snowtex, Starling Group Apparel, NASA Apparels, e Acme Agrovet & Consumers Ltd hanno bloccato alcune arterie stradali principali, la Nabinagar-Chandra, Baipail-Abdullahpur, l’autostrada Dhaka-Mymensingh e la Dhaka-Tangail; i calzaturieri di Bata hanno bloccato la strada Station Road, quelli di People’s Ceramics hanno bloccato Targachh e quelli di Anant Casual Limited Chandana.

[2] Dopo una settimana di scioperi, il 9 settembre i lavoratori farmaceutici hanno cessato le proteste, accettando le proposte negoziate a livello aziendale.  I dipendenti del farmaceutico, settore in crescita nel paese, hanno condizioni salariali e normative comparativamente migliori di quelle dei lavoratori degli altri settori in sciopero, ma diverse per luogo di lavoro e per società proprietaria. Ad esempio,  il gruppo Incepta ha aumentato il salario minimo a Tk14.000 (circa 105€; una taka=75 centesimi di €, circa ¾ di €) per i lavoratori occasionali e a Tk15.000 (€113) o più per i dipendenti confermati; ha riconosciuto dei bonus, quote di profitto, un aumento forfettario della retribuzione mensile di Tk3.000 per tutti i dipendenti, aumenti regolari, quattro mesi di congedo di maternità retribuito per i lavoratori occasionali, congedi di malattia retribuiti, un indennizzo di Tk3 lakh per disabilità e Tk5 lakh per morte. i lavoratori dell’unità di Dhaka di Square Pharmaceuticals hanno chiesto un salario minimo di 25.000 Tk, un aumento annuale del 25%, più bonus ogni anno e viaggi Hajj finanziati dall’azienda per i lavoratori a tempo indeterminato dopo 15 anni di lavoro. Quelli di ACME Pharmaceuticals hanno chiesto un aumento del 30% della paga lorda mensile e un aumento annuale di almeno il 20%.

[3] https://peoplesdispatch.org/2024/09/12/garment-workers-in-bangladesh-mobilize-for-wages-withheld-due-to-national-shutdown/

[4] Informiamo tuttavia che, nell’ultima amministrazione, il WPB faceva parte di un’alleanza di 14 partiti guidata dalla Lega Awami di Hasina.

[5] I componenti il governo ad interim, guidato dal grande banchiere Muhammad Yunus: il generale Sakhawat Hossain, il professore di legge Nazrul Islam, il vice procuratore generale Adilur Rahman Khan, due membri della Corte suprema A.F. Hassan Ariff e Syeda Rizwana Hasan; l’ex diplomatico Touhid Hossain; l’ex ambasciatore Supradip Chakma; la direttrice di un istituto di ricerca sociale, femminista, Farida Akhter, un noto psichiatra, Bidhan Ranjan Roy; la Ceo di una ong per i diritti umani, per le popolazioni indigene in particolare, Sharmeen Murshid; il vicedirettore del un gruppo islamico di estrema destra Hefazat-e-Islam, A.F.M. Khalid Hossain; il comandante di marina, Faruk-e-Azam; una ex amministratrice delegata di Grameen Bank, Nurjahan Begum; Salehuddin Ahmed economista, ex governatore della Banca Centrale del Bangladesh, e i due rappresentanti degli studenti, Nahid Islam e Asif Mahmud Sajib Bhuiyan.

[6] I principali grandi marchi e catene commerciali che delocalizzano la produzione dell’abbigliamento in Bangladesh: Zara, United Colors of Benetton, Giorgio Armani, Ralph Lauren e Hugo Boss, Nike, Adidas, Asics, Reebok, Wal-Mart, Carrefour, Primark, OVS H&M e El Corte Inglés H&M (COS, Weekday, Monki, And Other Stories, Arket), Inditex (Zara, Bershka, Stradivarius, Pull&Bear, Massimo Dutti, Oysho), Patagonia, Tommy Hilfiger, Gap, Calvin Klein; Asos, C&A, Lululemon, Marks & Spencer, Primark, Zalando, Uniqlo, New Look, Next Bestseller, Esprit, Aldi…

[7] Il salario indiretto è, in sostanza la quota di salario percepita dal lavoratore con il welfare, sanità, istruzione, pensioni, servizi sociali vari… che in Bangladesh sono ancora un sogno per la gran parte della popolazione.

[8] Cfr. https://www.paginemarxiste.org/il-bangladesh-toro-economico-del-sud-asia-basato-sul-super-sfruttamento-delle-operaie-del-tessile-abbigliamento/

Tasso di crescita del PIL a prezzi costanti (variazioni %), 2019:   7,9; 2020: 3,4; 2021: 6,9; 2022: 7,1; 2023: 5,8; previsioni per il 2024: 6. (Osservatorio economico del gov. italiano, Elaborazioni Osservatorio Economico MAECI su dati Economist Intelligence Unit) Emigrazione: https://www.migrationpolicy.org/article/bangladesh-migration-remittances-profile

[9] Ricordiamo che è sindacalizzato solo il 5% della forza lavoro, e che nella maggior parte dei casi i sindacati sono controllati dai due principali partiti politici filocapitalisti, l’Awami League di Hasina e il BNP di Khaleda Zia.