Bangladesh, alta moda color sangue

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[nella foto:lavoratrici bengalesi dell’abbigliamento nella manifestazione di protesta dopo il crollo del Rana Plaza, 26 aprile]

Alle 9 circa del mattino di mercoledì 24 aprile nel sobborgo di Savar, alla periferia di Dacca, è avvenuta l’ennesima strage dello sviluppo: il Rana Plaza, un palazzo di otto piani che ospitava ben cinque fabbriche tessili, è crollato accartocciandosi su sé stesso. Il bilancio, ancora provvisorio, è di oltre 300 morti, mille feriti e ancora ora (a tre giorni di distanza) centinaia di persone sotto le macerie (300 o 400).

Che il Rana Plaza fosse pericolante era cosa ben nota, soprattutto ai lavoratori che vi si recavano ogni giorno, timorosi per la propria vita, ma ancora più spaventati dalla prospettiva di perdere il posto di lavoro. Erano migliaia le operaie e gli operai che lavoravano nell’edificio (5000 secondo Asia Times); solo il giorno prima il palazzo era stato evacuato per pericolo di crollo, ma Sohel Rana, proprietario del palazzo e di molti altri edifici, ha costretto i dipendenti a proseguire il lavoro.

Tragedie simili non sono purtroppo una novità: secondo il Bangladesh Institute of Labour Studies dal 1990 in 33 incidenti simili sono morte un totale di 630 persone. Solo cinque mesi fa, sempre a Dacca, l’incendio della Tazreen Fashion aveva fatto 120 morti. Secondo il Wall Street Journal del 26 aprile le lavoratrici e i lavoratori vittime di incendi negli ultimi anni sono state ben 7000, decine per i crolli.

L’industria tessile del Bangladesh impiega circa 3 milioni di persone – prevalentemente donne – e rappresenta l’80% dell’export, un export da 24 miliardi di dollari, secondo solo a quello cinese nel reparto abbigliamento. Il salario mensile di un operaio tessile è circa 28 euro. Ma ancora nel 2011 le multinazionali del settore respingevano un piano di sindacati e governo per ispezioni, controlli tecnici e chiusura di impianti non a norma: troppo costoso, troppo vincolante.
Queste multinazionali sono ben conosciute a casa nostra: fra i committenti che facevano produrre i propri vestiti al Rana Plaza vi sono marchi come Primark, Wal Mart, C&A, Kik, ma anche le italiane Yes-Zee, Pellegrini e Benetton (che si è affrettata a negare ogni coinvolgimento).
L’industria della moda, vanto della borghesia italiana, veste il mondo con la pelle dei lavoratori asiatici.
Le responsabilità della classe dirigente vanno ben oltre le multinazionali: i proprietari delle fabbriche tessili sono spesso politici locali o nazionali, e sono ben attivi nel frenare ogni aumento delle misure di sicurezza. Almeno il 10% dei parlamentari possiede fabbriche. La loro posizione garantisce l’impunità per gli incidenti: nessuno è mai stato processato dopo una strage. Lo stesso Sohel Rana è un uomo politico locale.
Le poche leggi esistenti non vengono comunque rispettate: le autorità municipali concedono permessi di costruzione anche senza la necessaria autorizzazione delle agenzie di controllo della sicurezza. Il Rana Plaza era notoriamente stato costruito su terreno instabile col solo permesso dell’autorità municipale.

La classe lavoratrice è ovunque esposta alle morti da profitto: dai 7 operai morti nella ThyssenKrupp di Torino il 6 dicembre 2007 ai 14 morti nell’esplosione della West Fertiliser Plant di Waco (Texas) il 18 aprile scorso, dagli 83 minatori morti il 29 marzo nella miniera d’oro della China National Gold presso Lahsa (Tibet) alle centinaia di morti bianche in Italia, in tutto il mondo il capitale non si accontenta del sudore dei lavoratori: spesso vuole anche il loro sangue.
Troppo spesso gli stessi sindacati trascurano le misure di sicurezza e diventano complici pur di preservare la continuità della produzione ed evitare che venga spostata altrove lasciando a casa tutti i dipendenti. La difesa del posto di lavoro, se non è unita alla difesa della sicurezza, diventa la difesa del proprio carnefice.

Contro i ricatti delle delocalizzazioni e contro l’imposizione della scelta fra la salute (e la vita) o il lavoro, non c’è che una soluzione: l’unione fra tutti gli sfruttati per difendere la propria esistenza.
Oggi sono gli stessi lavoratori di Dacca a rivoltarsi: sono scesi nelle strade bloccando le strade e scontrandosi con la polizia. Vogliono l’esecuzione dei proprietari del Rana Plaza, ma vogliono soprattutto liberarsi da condizioni di lavoro schiavistiche. Molte fabbriche del grande distretto tessile sono rimaste chiuse per lo sciopero.

Noi comunisti sappiamo che non basta la punizione di uno o due sfruttatori criminali: serve l’unione che sappia imporre a tutti i capitalisti almeno il rispetto delle vite umane; serve una lotta che elimini tutto il sistema di sfruttamento per creare una società dove la vita umana non sia una materia prima da consumare ma un bene da preservare.

Comunisti per l’Organizzazione di Classe

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