Una risposta di classe allo sfruttamento e alle manovre militari, politiche e diplomatiche della borghesia turca nella regione
Dopo le lotte di inizio anno delle quali abbiamo già riferito su questo sito, è ora al suo nono giorno lo sciopero avviato giovedì 14 maggio, dai 5000 salariati di Renault in Turchia che poi si è trasformato in una battaglia che sta coinvolgendo circa 15 000 salariati di numerose fabbriche del settore auto del Nord-Ovest, attorno alla città industriale di Bursa.
Venerdì 15 hanno dato il via alla loro protesta anche i salariati di Tofaş, joint venture tra l’italiana Fiat e la turca Koç Holding, e quelli di Çoskunöz Holding, un gruppo turco produttore di componentistica per auto. Tofaş assembla auto della linea Fiat ma anche modelli Peugeot, Citroën, Opel e Vauxall.
La lotta è stata rafforzata dal sostegno dei dipendenti di diversi altri gruppi della componentistica della provincia di Bursa, tra cui Beltan Coşkunöz, Trelleborg Vibracoustic (TBVC), Delphi, SKT, Ototrim Automotive, Rollmech, Mako, Valeo e Delphi, con la partecipazione di circa 20.000 lavoratori. Per prevenire interventi repressivi i rappresentanti sindacali hanno dichiarato che si tratta di una protesta, non di uno sciopero ufficiale. I lavoratori si sono rifiutati di uscire dallo stabilimento alla fine del loro turno e hanno organizzato una serie di manifestazioni nel piazzale interno cantando slogan contro il padronato e contro il sindacato giallo, Türk-Metal, che vogliono espellere dal loro luogo di lavoro.
La lotta incide: un portavoce di Renaul-Oyak ha dichiarato a Reuters che la protesta ha raggiunto un livello che “pone seri problemi al settore auto”. Ford-Otosan, la filiale turca di Ford, il 19 maggio ha cancellato un turno speciale per difficoltà nella catena di approvvigionamenti causate dagli scioperi.
In Turchia gli stabilimenti Renault sono gestiti da una joint venture con Oyak, il fondo pensionistico delle forze armate turche, e sono il maggior produttore di auto, seguiti da Tofaş. Renault-Oyak e Fiat- Koç producono complessivamente il 40% delle auto prodotte annualmente in Turchia; attorno all’80% della loro produzione è destinata all’esportazione. Il padronato di Tofaş il 18 maggio ha comunicato ai dipendenti la serrata via SMS.
Il sindacato Birleşik Metal-İş (Sindacato unitario dei metalmeccanici), appartenente alla Confederazione dei Sindacati Progressisti (DISK) ha reso pubbliche le richieste dei lavoratori:
riconoscimento dei rappresentanti da loro eletti nei negoziati con il padronato, sicurezza sul lavoro, e adeguamento salariale del loro contratto a quello già conquistato nel dicembre 2014 per Bosch (componentistica), con aumenti salariali del 60% in vigore per tre anni a partire dallo scorso aprile. Da mesi i metalmeccanici delle grandi fabbriche chiedono la revisione di questo accordo siglato lo scorso anno tra Türk-Metal e il sindacato degli industriali metalmeccanici (MESS) che, concedendo un aumento solo ad una fabbrica (Bosch) ha però prolungato da due a tre anni la validità del contratto, nonostante l’inflazione al 7,9% in aprile, contro il 7,6% di marzo.
La conquista di una reale libertà di associazione sindacale è una questione centrale delle rivendicazioni dei lavoratori turchi, sempre a rischio di perdere il posto di lavoro a causa dello sciopero, e costretti a subire sindacati filo-padronali e governativi come Türk Metal nel settore metalmeccanico. Chiedono infatti la garanzia di non essere licenziati, come in genere accade, se abbandonano questo sindacato. Dopo l’accordo triennale con Bosch con miglioramenti per gli addetti della fabbrica di sistemi frenanti, i dipendenti del settore auto hanno dato la disdetta in massa dal sindacato Türk-Metal. Quest’ultimo ha risposto assoldando squadre di fascisti per attaccare i lavoratori.
A causa della difficoltà a far riconoscere i rappresentanti eletti dai salariati, il tasso di sindacalizzazione è fortemente diminuito nell’ultimo decennio, da 57,5% del 2003 al 9,68% nel 2014 secondo il ministero del Lavoro, e ancora inferiore secondo le statistiche OCSE, che nel 2012 rilevavano il 4,5%, contro una media dei paesi OCSE del 17,1%.
Le proteste della provincia di Bursa sono scoppiate in un contesto che vede un aggravamento della crisi economica per i lavoratori turchi, mentre rallenta la crescita economica, dal 4,2% del 2013 al 2,9% del 2014.
Il forte sviluppo economico degli scorsi decenni non è stato accompagnato da miglioramenti significativi delle condizioni di lavoro. Circa il 40% dei salariati turchi lavora 50 ore o più la settimana, l’orario più lungo degli oltre 30 paesi appartenenti all’Ocse. La Turchia è seconda solo alla Cina per incidenti sul lavoro, secondo un esperto di The Turkey Analyst.
Dopo 13 anni di governo del partito del presidente Erdogan, l’AKP, il livello di povertà della popolazione è aumentato. Secondo i dati forniti dall’Ufficio statistico turco (TUIK), il 22,4% delle famiglie turche vive sotto la soglia di povertà, quota che raggiungerebbe il 49,6% contro il 41,9% del 2013, per le famiglie con 3 o più figli – secondo il sindacato TURK-IS, che segue criteri di calcolo diversi. Parallelamente al tasso di povertà aumenta anche quello di suicidio, un segnale del livello di disperazione in un paese in cui la disoccupazione si aggira sul 12%, pari a oltre 6 milioni di senza lavoro; tra i giovani il tasso di disoccupazione è salito dal 17 al 20%.
Come reagisce l’establishment politico della borghesia turca a questo aggravamento della condizione dei proletari turchi?
Il 7 giugno ci saranno in Turchia le elezioni parlamentari, Erdogan spera di ottenere un’ampia maggioranza per il suo partito AKP per poter modificare la Costituzione e ampliare i propri poteri. Mentre i partiti dell’opposizione cercano il consenso elettorale centrando la propria campagna elettorale sui problemi economici del paese e con proposte populistiche, il governo turco cerca di far tacere il dissenso, alle proteste sociali risponde aumentando la repressione. Due mesi fa ha varato nuove misure allo scopo, ha ampliato i poteri della polizia, e autorizzato il governo a dispiegare la forza contro i manifestanti, compreso l’uso di armi da fuoco, e di detenere arbitrariamente gli arrestati. Una nuova legge consente la limitazione dell’accesso ai siti web, in caso di “minaccia alla vita, all’ordine pubblico o ai diritti e libertà delle persone”.
Nelle settimane precedenti la Giornata dei lavoratori, il governo ha emesso il divieto a qualsiasi manifestazione per il 1° Maggio; alcuni giorni prima ha mobilitato 10 000 poliziotti con veicoli blindati e chiuso gran parte del trasporti pubblici di Istanbul per impedire la partecipazione alle manifestazioni.
Quando nonostante tutto ciò i manifestanti sono riusciti ad entrare in piazza Taksim, la polizia ha usato gas lacrimogeni e idranti per disperderli, e ha arrestato 364 persone; almeno 18 i feriti.
Alla situazione prevalente nel quadro nazionale occorre aggiungere l’accresciuta assertività politico-militare della borghesia turca a livello regionale. Un’assertività che contribuisce ad aggravare le condizioni di esistenza di milioni di persone nei paesi in conflitto, dall’Irak alla Siria e ora allo Yemen. Il proscenio nazionale e quello internazionale sono tra loro strettamente collegati: lo sfruttamento del proletariato all’interno è la base essenziale per la proiezione di potenza all’esterno della borghesia turca.
Le lotte in corso del proletariato turco sono la risposta coraggiosa alla protervia e aggressività del padronato e dei suoi rappresentanti politici, e dimostrano una capacità di organizzazione e collegamento, per lo meno tra vari luoghi di lavoro del settore auto, per non lasciare che la controparte utilizzi le divisioni a proprio vantaggio.
Auspichiamo che nel corso della battaglia maturi la consapevolezza che questa unità nella lotta economico-sindacale deve allargarsi agli altri reparti del proletariato turco, che si trovano in condizioni più svantaggiate, trasformandosi così in unità di obiettivi politici di classe.